giovedì 8 maggio 2014

RACCONTO: La montagna di Dio

(Tratto dal mio libro: IL GATTO BUDDHISTA)

(per concessione dell'editore POLARIS)

Giunto di fronte alla penisola Calcidica, il re Serse fermò esercito e flotta e si mise a pensare. Era il sovrano di un impero immenso che andava dal mar Egeo all’India e non poteva tollerare che quelle piccole e presuntuose città della Grecia, a cominciare da Atene, litigiose e sempre in lotta tra loro, rimanessero impunite per l’affronto fatto ai Persiani alcuni anni prima. Erano, infatti, accorse in aiuto delle colonie ioniche che si erano ribellate al potere di suo padre Ciro, il re dei re. Oltre alla punizione, Serse vagheggiava anche di espandere il suo potere sul Peloponneso e su tutta la Grecia e là, forse, si sarebbe spalancata davanti a lui la possibilità di conquistare le colonie greche dell’Italia meridionale e della Sicilia. Un progetto ambizioso. La strategia era chiara, eppure Serse indugiava.

 La penisola Calcidica è una propaggine che si stacca dalla costa nord della Grecia e si spinge nel mare Egeo verso sud, simile a una mano d’uomo con tre sole dita. Il dito più a oriente, il più aspro, è il promontorio di Monte Athos. Non è pericoloso come capo Horn, ma Serse ricordava bene che dodici anni prima [1] la flotta del grande Ciro, mentre puntava verso la Grecia ai tempi della prima guerra persiana, era andata distrutta in una tempesta proprio al largo di Monte Athos. Per questo indugiava e cercava un’altra possibilità per non incappare nella medesima disgrazia e la trovò. Impiegò l’esercito nello scavo di un canale che separasse il promontorio dal continente, per far passare le navi oltre il Monte Athos senza affrontare il mare aperto e senza correre rischi. E la penisola di Monte Athos divenne un’isola. Nei secoli a seguire l’isola tornò a essere penisola, perché il canale finì interrato e scomparve dalla faccia della terra e dalla memoria della gente.[2]

Uranopoli è l’ultima cittadina che s’incontra, oltrepassato il canale scomparso, andando verso la Repubblica monastica del Monte Athos.[3] Là giunti scoprimmo che serviva un natante per raggiungere il Monte e per sbarcare a Dafni, il piccolo porto che è il punto di arrivo obbligato per tutti i viaggiatori che si recano sulla Montagna Santa. Perché non c'erano strade alternative e l’unico mezzo di trasporto possibile era la barca.

Dato che l’accesso al Monte è proibito alle donne, a Uranopoli il nostro gruppo si divise per genere, Stefano ed io ci imbarcammo per Dafni, Laura e Sandra si fermarono a Uranopoli in attesa del nostro ritorno. Ci furono controlli alla partenza per verificare che a bordo non ci fossero femmine - sembra che il divieto valga anche per gli animali - controlli che furono ripetuti anche allo sbarco a Dafni.

Durante la navigazione ebbi modo di osservare gli aspri fianchi della penisola, coperti da una vegetazione molto più rigogliosa e verde di quella incontrata i giorni precedenti nelle regioni circostanti. Segno che su Monte Athos piove parecchio e, infatti, in lontananza la montagna appariva alta e severa, con la cima avvolta da nubi insolitamente minacciose per essere agosto. Si poteva capire come lo scenario avesse tanto preoccupato Serse da spingerlo a ordinare lo scavo del canale. Per me, invece, più delle nuvole addensate attorno alla cima del Monte, erano preoccupanti i fianchi scoscesi del promontorio sui quali sapevo che si arrampicavano i sentieri che avremmo percorso per raggiungere i monasteri. Sarebbe stato faticoso.

Viaggiando verso Dafni costeggiammo i primi tre dei venti monasteri principali della penisola e dalla barca ottenni una prima visione d’insieme della struttura di un monastero di Monte Athos. Prima Dochiarìou, poi Xenofòntos e infine San Pantelèimonos mi apparvero come piccoli villaggi fortificati e di solito una torre di guardia, eretta al fine di allargare la vista sui dintorni, si innalzava nel punto più alto del monastero. Anche questa a scopo difensivo. Infatti, nonostante siano stati fin dalla fondazione luoghi di meditazione, di cultura e di preghiera, la loro architettura - quasi militare - mostra che hanno dovuto sopportare nei secoli aggressioni e distruzioni, anche se hanno sempre goduto della protezione di qualche stato dell’Europa orientale. Ma, come sappiamo, i poteri temporali si formano e si sgretolano e così anche i monasteri nei secoli hanno seguito la sorte dei loro protettori ed hanno spesso avuto la necessità di difendersi. A volte senza riuscirci.

Sbarcati a Dafni, un pullman ci prese in consegna e ci condusse sulle montagne al centro della penisola, a Karye, la piccola capitale dello stato. Qui hanno sede le istituzioni della repubblica monastica oltre a qualche servizio pubblico e qui ricevemmo il Diamonitìrion, il permesso per spostarci tra i monasteri di Monte Athos per quattro giorni. Il tempo di prepararci e lasciammo Karye diretti a sud, verso il Grande Lavra. Da quel momento eravamo pellegrini e quindi viaggiavamo a piedi, come tutti.

Prima dell’arrivo a Monte Athos la nostra permanenza in Grecia era trascorsa tra sole, mare e archeologia, una vacanza insomma. Anche i brevi viaggi della mattinata, quello in barca e quello in corriera, potevano far parte della vacanza, come anche camminare da un monastero all’altro. Che c’era di diverso? Arrivati a Karye, invece, mi resi conto che il contesto era mutato, non ero più in vacanza. Mi trovavo in un altro ambiente, la vacanza era sospesa. L’atmosfera era più sobria e composta. Andavo incontro a un mondo semplice e lento, protetto e isolato dal mare e dalla sottile striscia di terra che Serse un tempo aveva reciso. Sentivo intorno a me pacatezza e calma, a cominciare dalle parole del monaco che ci aveva rilasciato il Diamonitìrion, per arrivare ai passi lenti e misurati dei religiosi che camminavano lungo le strade della cittadina. Tutto ciò che mi circondava m’invitava alla concentrazione e mi prometteva un’esperienza alla quale, per la prima volta, temetti di non essere preparato. Perché a quel tempo di Monte Athos conoscevo solo l’ovvio e il banale, oltre a ciò che ero riuscito a capire di fronte ai monasteri di Meteora,[4] appollaiati su rocce scolpite dall’erosione, e a qualche monaco dalla folta barba incontrato sulle strade della Grecia. Nel lasciare Karye mi portai dietro questa incertezza.

La giornata, mite e soleggiata, era l’ideale per camminare, la strada non era tanto faticosa e ci lasciava il tempo di ammirare il mare azzurro che di tanto in tanto spuntava tra i pini che avevamo intorno. In poco tempo arrivammo a Ìviron che sorge sulla costa orientale, quasi in riva al mare. Giusto un’occhiata per scoprire la sua forma a quadrilatero, con gli edifici addossati alle mura e disposti intorno al cortile centrale. Uno dei monasteri forse meno conosciuti, ma in possesso di una biblioteca tra le più importanti di Monte Athos. Un monastero idiorrìtmico, scoprimmo, ma al momento non sapevamo cosa questo significasse. Anche gli studi fatti al liceo non ci furono di aiuto: idiorrìtmico, da idios (proprio, privato) e rythmòs (regola, ordine): che significava? Dopo poco tempo lasciammo il monastero diretti al Grande Lavra, ancora lontano.

Camminammo per diverse ore, sempre accompagnati dalla vista del mare, finché non giungemmo davanti all’entrata del grande monastero, il più antico dei monasteri della Montagna Santa, il più importante. Superato l’ingresso raggiungemmo il cortile, anch’esso circondato da mura. Secondo la tradizione i due cipressi altissimi che si stagliavano nel cielo furono piantati mille anni prima da Sant'Atanasio, il fondatore del monastero.

Un monaco ci accolse, controllò la regolarità del nostro Diamonitìrion e ci accompagnò nel dormitorio, una camerata da condividere con altri pellegrini, pochi per la verità. Oggi pare che occorra prenotare per essere certi di trovare posto nelle foresterie dei monasteri e che solo una parte delle richieste possa essere esaudita. Allora il problema dell’alloggio non esisteva e i pochi pellegrini che arrivavano trovavano sempre da dormire.
Dopo che ci fu assegnato un letto, fummo lasciati soli. Giusto. Chi va nei monasteri di Monte Athos deve conoscere il motivo che lo spinge ed avere coscienza di ciò che desidera o di cui ha bisogno. Nessuno ci suggeriva o ci proponeva qualcosa da fare o visite da compiere, avremmo potuto rimanere in attesa di qualche evento fino alla scadenza del Diamonitìrion.
Poi ci rendemmo conto che nessuno ci aveva obbligato a recarci sulla Montagna Santa, avevamo deciso noi di andare e questo ci costringeva a manifestare, soprattutto a noi stessi, le nostre intenzioni. Con una certezza: a Monte Athos potevamo scordarci di essere turisti o semplici camminatori. Per quanto potessimo essere poco preparati alla dimensione mistica e ascetica del luogo, non ci sarebbe stato possibile sfuggire all’attrazione che emanava. Impossibile rimanere estranei e non essere contagiati. Alla fine manifestammo i nostri desideri e quando lo facemmo sembrò che l’intero monastero si mettesse a nostra disposizione. Da dove cominciare?

Cominciammo dalla biblioteca e un monaco ci condusse nella visita. Mi aspettavo qualcosa di grande, tuttavia mai avrei potuto immaginare un ambiente simile e simili contenuti. Trentamila libri stampati, quasi duecento codici[5] e più di duemila manoscritti. Alcuni di questi erano aperti sui leggii e mostravano miniature fantastiche di immagini sacre, santi, soggetti floreali.
Quelle che apparivano all’inizio della prima riga di alcune pagine ricordavano tortuosi labirinti o intrecci di rami e fiori, ma erano semplici lettere dell’alfabeto. Si può rimanere affascinati da una ‘B’ o una ‘M’ o da una lettera greca che nel nostro alfabeto non c’è? Posso testimoniare che si può. Per i nostri occhi stupefatti il monaco sfogliava pagine di botanica, vangeli, liturgie sacre, testi filosofici e letterari. Alcuni manoscritti erano troppo preziosi e delicati per essere maneggiati per noi e rimasero dentro alle teche di protezione. Eravamo circondati da centinaia di volumi di cui potevo scorgere solo i dorsi, mortificato dal rammarico di non poterli sfogliare ad  uno ad uno. Invidiai i monaci ai quali era riservato questo privilegio.
 
Verso sera ci recammo in chiesa per i Vespri.[6] Fu per me una funzione criptica per via della lingua sconosciuta e della diversità dei riti a cui stavo assistendo, ma questo limite, se non mi permetteva di seguire con cognizione, mi lasciava più tempo per ammirare lo splendore della chiesa.
Mi sembrava che dall’alto dell’abside Cristo Pantocrator[7] mi guardasse con occhi indulgenti e uno sguardo di commiserazione per la mia inadeguatezza al luogo e che il libro aperto che teneva nella mano mi invitasse ad emendare l'ignoranza di cui avevo dovuto prendere atto in biblioteca. Ma mi consolava la bellezza dei tesori che avevo intorno. Secoli di storia e di opulenza avevano arricchito la chiesa di molte opere d’arte preziose, a cominciare dalle icone. E poi c’erano candelabri e lampadari in oro e paramenti sacri confezionati con stoffe preziosamente ricamate e all’apparenza molto pesanti.

Finita la funzione ci incamminammo verso il refettorio per la cena. Un po’ presto per le nostre abitudini, ma nei monasteri di Monte Athos la vita di studio e di preghiera è scandita da ritmi diversi dai nostri ed occupa anche molta parte della notte. Per questo le attività e i pasti si susseguono nella giornata con cadenze orarie inconsuete per i laici.
La cena la consumammo insieme con i religiosi, mentre un monaco leggeva brani delle Sacre Scritture. Il cibo distrae dalla concentrazione e quindi il tempo dedicato alla cena fu esiguo, meno di mezz’ora, e anche la quantità non fu abbondante. Mi trovai ancora impegnato nello sforzo di godere dell’esperienza che stavo vivendo senza capire la lingua.
Finita la cena, il sole non era ancora tramontato e i monaci tornarono alle loro mansioni, mentre noi ci trasferimmo nel cortile del monastero ad aspettare il tramonto.
Seduti sotto il cipresso millenario, mentre aspettavamo l’ora di andare a dormire, mi misi a osservare il piccolo mondo che mi circondava, fondato e mantenuto nei secoli per la gloria di Dio: il cortile, gli edifici, la chiesa, la porta e le mura. Un mondo che non mi appariva molto diverso da quello dei paesini delle nostre montagne che risentono dell’abbandono degli abitanti, con qualche casa lasciata andare e qualche altra che avrebbe bisogno di un po’ di cure. Come questi anche il Grande Lavra sembrava troppo vasto per i monaci che l’abitavano ed era evidente che il monastero in passato ne aveva ospitato un numero ben superiore e quasi tutti gli edifici, compresa la chiesa, reclamavano po’ di manutenzione.
Il sole si nascose dietro al Monte Athos, ma prima di scomparire, imporporò le cime dei vecchi cipressi. Fu un attimo, poi anche queste si spensero e in cambio cominciarono ad accendersi le luci negli edifici e nella chiesa. Nella penombra del cortile le ombre fugaci dei monaci scivolavano via lentamente, sole o in piccoli gruppi, in silenzio o conversando. Una visione che infondeva serenità, anche se ero quasi intimorito al cospetto delle mura del Grande Lavra, erette a difesa della Chiesa e della fede. Molti anni dopo a Ponferrada, lungo il cammino di Santiago di Compostela, di fronte al possente castello dei Templari, i monaci guerrieri, avrei ricordato il Grande Lavra.
Dopo la lunga camminata i nostri corpi reclamarono un po’ di riposo e andammo a dormire. Nulla e nessuno disturbò il nostro sonno fino all’alba, perché anche il Grande Lavra é un monastero idiorrìtmico.

Il mattino seguente lo stesso monaco che ci aveva accolti ci accompagnò alla porta del monastero, ci benedisse con un ampio sorriso ed il segno della Croce disegnato nell’aria di fronte ai nostri occhi e ci augurò buona fortuna per il viaggio. Notai che era molto vecchio.
La camminata di quel giorno fu la più lunga e faticosa dell’intero pellegrinaggio, dal Grande Lavra ad est fino al monastero di Simonas Petras a ovest della montagna. Il sentiero scavato sui fianchi scoscesi del Monte Athos era tutto salite e discese, solo in parte addolcite dal profumo dei pini che ci accompagnò per tutta la giornata. Anche il sole ci fu amico, splendente fin dal primo mattino e le nuvole scure che il giorno prima si ammassavano attorno alla cima della montagna, per fortuna si erano dissolte nella notte.

Il sentiero che collega  i due monasteri è il più remoto di tutti ed allora era anche il meno battuto, e, a quel che ricordo, privo di qualsiasi segnalazione. Per questo qualche incertezza sul percorso aggiunse un po’ di inquietudine al cammino. In realtà non c’erano reali pericoli di perdersi, bastava mantenere il mare a sinistra e la montagna a destra per essere sicuri della direzione da seguire. Ma anche il più piccolo errore di percorso che ci avesse costretto ad un giretto inutile o ad allungare un po’ il cammino in quel sali-scendi continuo, andava evitato con grande attenzione o rischiavamo di non arrivare al monastero prima di sera.

A metà del pomeriggio, consultando la carta geografica della penisola, pensammo di essere quasi arrivati. Errore. Sulla cartina non erano riportate le altimetrie. Sollevando gli occhi al cielo riuscimmo a scorgerlo, il monastero, sopra di noi, appeso alle nuvole, appollaiato su uno sperone di roccia che ci sembrò altissimo. Simonas Petras, la roccia di Simone, dove il monaco Simone ebbe l’ardita idea di costruire un monastero, avendo visto, la notte di Natale, una stella ferma su quella roccia a strapiombo sul mare. Diverse centinaia di metri in verticale sopra le nostre teste.
Dopo tanto camminare ricordo la salita al monastero – in realtà un’unica, interminabile scalinata - come una penitenza. Se mai avevo commesso peccati gravi prima di allora, nella scalata a Simonas Petras sono sicuro si averli espiati tutti. E non bastò a consolarmi la vista dell’Egeo che si allargava, sempre più maestosa, mentre salivamo faticosamente gradino dopo gradino. E nemmeno quella delle vigne che crescevano rigogliose sulle terrazze ai lati degli ultimi tornanti del sentiero.

La gioia per essere finalmente arrivati - una vera e propria conquista - ricompensò la fatica sopportata per arrivarci, perché da lassù la vista era davvero fantastica. Più degli altri monasteri Simonas Petras sembrava una fortezza. Costruito, distrutto, ricostruito, incendiato, ricostruito ancora, sempre nello stesso luogo e con lo stesso stile, con i ballatoi  e i porticati sporgenti sul vuoto. Sconsigliati  a chi soffra di vertigini.
Purtroppo Simonas Petras, oltre alla inarrivabile posizione, non aveva molto da proporre, perché nei secoli distruzioni e incendi hanno lasciato tracce evidenti e gli edifici originali sono andati perduti. Nel 1891 l’ultimo incendio distrusse addirittura l’intera biblioteca.
La fatica per la lunga camminata aveva forse fatto scemare in me la tensione per la Montagna Santa, forse ero appagato dall’esperienza unica vissuta al Grande Lavra, forse la bellezza più sobria di Simonas Petras stemperò un poco l’emozione della visita. Anche là incontrammo i monaci, visitammo la chiesa e consumammo i pasti con loro, accompagnati ancora dalle parole delle Sacre Scritture. Ma il ricordo più nitido che mi rimane di Simonas Petras fu la visita al piccolo cimitero che custodiva la pace di monaci morti quasi tutti a più di novant’anni.
A Simonas Petras andammo a dormire quando il sole non era ancora tramontato. Eravamo distrutti dalla stanchezza e il giorno dopo ci aspettava un’altra lunga camminata che ci avrebbe riportato a Karye e alla fine del pellegrinaggio.

Ma il riposo a Simonas Petras non fu sereno come al Grande Lavra, perché in piena notte, verso l’una o le due, fummo svegliati di soprassalto da un rumore sordo e fastidioso. Un monaco stava chiamando i confratelli battendo ritmicamente con un martello un asse di legno chiamato simàndron, come ho scoperto in seguito. Non avrei mai immaginato che un martelletto picchiato su un’asse di legno potesse fare tanto rumore. Vero: i tempi dei monaci non erano i nostri. Quel suono era il richiamo per la comunità a dedicarsi alla preghiera notturna. Anche noi eravamo invitati, ma in silenzio e senza consultarci, declinammo istintivamente l’invito.
I colpi ritmati e insistenti significavano anche che eravamo in un monastero cenobìtico e non idiorrìtmico come il Grande Lavra o Ìviron. In quel momento, con gli occhi sbarrati nel buio della notte, gli studi classici ci vennero finalmente in aiuto e scoprimmo la differenza. Cenobìtico: dal latino cenòbium che a sua volta deriva dal greco koinòs (comune) e bìos (vita). Vita in comune. Già! Bastava rendersene conto prima e magari farsi accogliere per la notte in un altro monastero idiorrìtmico. Ma Simonas Petras è un monastero cenobìtico,  dove  i tempi e i ritmi sono scanditi dal simàndron, di giorno e di notte, come constatammo di nuovo prima dell’alba.

Anche quando il mattino seguente lasciammo il monastero, incamminandoci sul sentiero che ci avrebbe ricondotti a Karye, il richiamo del simàndron ci ricordava una nuova scadenza nel ritmo di vita e di preghiera dei monaci di Simonas Petras.

Monte Athos, agosto 1976

(Tratto dal libro Il gatto buddhista)



[1] Accadde nell’anno 480 a.C.
[2] A proposito del canale di Serse si dubitò anche della credibilità di Erodoto, che l’aveva descritto nelle sue opere, fino a quando negli anni ’90 del secolo scorso prospezioni geologiche e immagini satellitari dimostrarono che era esistito davvero e non era stato un’invenzione del grande storico greco.
[3] La Repubblica monastica del Monte Athos è  un territorio autonomo nella Repubblica Greca dotato di uno statuto speciale di autogoverno.  
[4] Meteora è sede di uno dei principali raggruppamenti di monasteri della Grecia, secondo solo a quello del Monte Athos. Vi furono edificati, in cima a falesie di arenaria, più di venti monasteri in parte ancora abitati. (Wikipedia)
[5] Un codice è un manoscritto antico di più carte riunite a libro. (Devoto-Oli)
[6] I vespri o vesperi sono la preghiera del tramonto, una delle maggiori ore canoniche della Chiesa. (Wikipedia)
[7] Il Cristo Pantocratore (dal greco pantocrator, "sovrano di tutte le cose") è una raffigurazione di Gesù tipica dell' arte bizantina ed in genere paleocristiana e medioevale, soprattutto presente nei mosaici e affreschi absidali. Egli è ritratto in atteggiamento maestoso e severo, seduto su un trono, nell'atto di benedire con le tre dita della mano destra, secondo l'uso ortodosso. (Wikipedia)

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