mercoledì 19 giugno 2019

RACCONTO: Sorrisi di pietra

(Tratto dal mio libro: Il Gatto Buddhista)

Per concessione dell'editore POLARIS


C’era da scegliere: salire all’alba o al tramonto, in ogni caso nelle condizioni di luce più belle, sole nascente o sole calante. In ore diverse della giornata sembrava quasi sconsigliato raggiungere i 2.150 metri della cima del Nemrut Dagi tra le aspre montagne dell’Anatolia orientale.
Verso sera scoprimmo inoltre che per salire sul monte in tempo per assistere all’alba, occorreva partire da Adyaman, la città nella quale alloggiavamo, alle due del mattino, in piena notte. Questo ci fece propendere per la visita serale, anche perché la luce del tramonto rende i colori più caldi in confronto a quelli dell’alba, per me troppo azzurri e freddi.

Il giorno dopo lasciammo quindi Adyaman nella tarda mattinata per avere il tempo di visitare, lungo la pista che sale alla montagna, alcuni luoghi che ci avrebbero preparato all’incontro finale. Come tutto l’altopiano della Turchia centrale, anche la regione che avevamo intorno si presentava arida e brulla, quasi un deserto. Qualche piccolo e poverissimo villaggio curdo e qualche campo di nomadi ci accompagnarono nel viaggio, insieme con un’infinita serie di montagne che si perdevano all’orizzonte.
Più salivamo e più si allargava in lontananza, verso est, la piana dell’Eufrate. Nella valle che baluginava all’orizzonte, il serpeggiare del fiume sembrava cercare con fatica un passaggio verso il mare. Laggiù, lungo le sue rive, si erano sviluppate antiche civiltà, le prime che avevo studiato a scuola. Là era nata più di quattromila anni addietro la mia cultura occidentale, quella a cui appartengo e che a scuola mi avevano lasciato intendere, con troppa presunzione, che fosse la più grande, se non l’unica. Babilonia, la Grecia, Roma… mi sentivo in profonda sintonia con la regione che si espandeva verso oriente, arida alla vista. E sentivo il contrasto tra un glorioso passato, studiato e immaginato sui libri scuola e un presente povero e dimesso, anche dal punto di vista geografico.
Mentre salivamo lungo i fianchi del Nemrut Dagi, incontravamo alcune vestigia di quella storia. Una colonna di pietra che sorreggeva un’aquila un tempo bicefala, diventata monocefala a causa del passare del tempo. O il grande ponte di Cendere, lungo una settantina di metri e largo sette, ornato di quattro colonne poste alle due estremità. Un ponte troppo imponente per superare un ruscello oggi insignificante. Tutte opere costruite a cavallo dell’inizio dell’era cristiana. Non mi sorprendevo per la loro importanza, nelle settimane precedenti l’Asia Minore ci aveva offerto vestigia archeologiche ancora più imponenti, da Efeso a Mileto, da Afrodisias a Priene. Mi colpiva la loro collocazione su montagne aride, impervie e in apparenza inospitali.
Nel pomeriggio, alla fine della salita, raggiungemmo la meta finale, lo scopo della giornata. Arrivammo al maestoso mausoleo funerario costruito per sé da Antioco I di Commagene, un piccolo regno che alla fine dell’era pagana si trovò nell’infelice posizione di cuscinetto tra l’impero romano a ovest e il regno dei Parti a est. Non resse a lungo la duplice pressione e alla fine, dopo centocinquant’anni di incerta indipendenza, venne assorbito da Roma seguendo l’identica sorte toccata agli altri regni dell’Asia Minore.
Appena giunti di fronte al mausoleo, costatammo con sollievo che il rifiuto opposto all’alzataccia antelucana ci aveva portato alla scelta migliore, quella di arrivare al tramonto. Il sole calante inondava di morbida luce la terrazza ovest del mausoleo. Le cime brulle e degradanti delle montagne che avevamo attorno creavano un maestoso scenario al monumento, unico per la sua originalità.

Il Nemrut Dagi è la montagna più alta della regione, ma ad Antioco I non bastò.  Non vi eresse solo un mausoleo, ma modificò pure la montagna e ne alzò la cima. Nel punto più elevato fece infatti erigere un enorme cumulo di pietre a forma conica - centocinquanta metri di diametro e cinquanta di altezza - e alla base del cono, rivolte a nord, a est e a ovest, tre terrazze monumentali. Era la sfida del re all’eternità e ai venti dell’Anatolia.
Della terrazza nord, dove un tempo confluivano le strade che portavano i pellegrini al mausoleo, rimaneva pochissimo, ma sulle terrazze a est e a ovest si ergevano ancora, in parte conservate, statue colossali, tra le quali quella di Antioco. Più che a tentare di riconoscere i personaggi rappresentati, ammiravo la loro magnificenza di custodi del riposo del re. E mi rendevo conto che per svolgere degnamente l’onorevole ma difficile compito, i guardiani di pietra avevano dovuto difendere innanzi tutto se stessi dalle offese del tempo. Avevano superato la prova e, anche se un po’ malridotti, c’erano ancora.  Scolpito alla base delle statue, un testo greco riporta il desiderio di Antioco I, per loro un ordine, di essere sepolto sul Nemrut Dagi e i riti da compiere in suo onore. Un editto regale. I riti non erano un loro compito, ma la difesa della sepoltura del sovrano sì ed erano ancora là di guardia a mantenere l’arduo impegno fin dal luglio del 61 o del 62 avanti Cristo. Immortali sentinelle della grandezza del Commagene, non avrebbero mai consentito che il sonno del re fosse disturbato.
Mausoleo é un termine riduttivo per descrivere il Nemrut Dagi, perché, forse andando oltre le sue intenzioni, Antioco non eresse solo un monumento funerario, ma un intero pantheon dedicato a se stesso, alla sua gloria e a quella degli dei venerati nel piccolo regno, di filiazione religiosa sia ellenistica che persiana. Antioco I si considerava, infatti, erede della tradizione culturale e religiosa di questi due mondi nemici e non a caso vantava una discendenza, per la verità senza fondamento storico, sia da Alessandro Magno per via di padre che da Dario, il grande re dei Persiani, per via di madre. Un pantheon che sfidava il tempo e segretamente la gloria della stessa Roma. Altrimenti perché tante statue sulla cima del Nemrut Dagi? E perché di dimensioni tanto inusitate?
Le statue erano quasi tutte acefale, poche avevano ancora la testa nella posizione naturale. Non mi sembrava una condizione normale. Ho visitato molti siti archeologici nella mia vita e non ne ricordo alcuno che lamenti un danno così diffuso e specifico: statue quasi tutte con il capo mozzato e rotolato ai loro piedi. Come se un gigante cattivo le avesse recise per dispetto.
La visita era una passeggiata tra una selva di teste alte come me: uomini barbuti, volti incorniciati da eleganti copricapo, leoni e aquile con gli occhi di pietra puntati sulle valli circostanti. Gli antichi artisti avevano voluto infondere solennità a quegli occhi e avevano scolpito volti severi e accigliati che sembravano chiedere ragione della loro separazione dal corpo.

Nonostante le imponenti dimensioni, le monumentali statue erette sulla cima di una montagna arida e spoglia rimasero nascoste nel buio dei secoli fino alla fine dell’Ottocento, quando furono riscoperte per caso. E dovettero aspettare fino al 1953 perché una spedizione archeologica le facesse riemergere dall’oblio e le riconsegnasse al mondo. La spedizione archeologica del ’53 riportò alla luce il mausoleo, ma non risolse il problema principale.
In un sito archeologico il ritrovamento di una tomba che si suppone ricca perché custode dei resti di un sovrano, rivela molte informazioni sia sul defunto che sui tempi in cui visse. Per questo la sua ricerca riveste un’importanza vitale e, per quanto possa essere nascosta, alla fine si finisce per scoprirla. E’ successo con le piramidi egizie e con le tombe dei Maya.
Sul Nemrut Dagi invece ciò non avvenne nel ’53 e non è avvenuto ancora oggi. Ancora non si conosce l’architettura interna del mausoleo, cioè non è ancora stata trovata la tomba di Antioco I di Commagene. L’editto del re dichiara che Antioco è sepolto nella cima della montagna, ma la posizione della tomba rimane un mistero e anche il significato e lo scopo del mausoleo sulla cima del Nemrut Dagi non sono ancora chiari. E credo che in questo stia il suo fascino. ‘Strano, no?’ pensavo, ‘in fondo non abbiamo di fronte gli abissi di un oceano, ma solo un mucchio di pietre alto centocinquanta metri.’

E mi spuntò nella mente un’idea fantastica. E se Antioco avesse voluto organizzare per i posteri una colossale beffa? Se la scritta che esprime la volontà del sovrano di essere sepolto lassù fosse solo un millenario depistaggio? Se la sua tomba non fosse nascosta in nessuna parte del mausoleo, ma in qualche altro luogo? Questo sì sarebbe stato un modo sicuro per non farla scoprire: erigere quel magnifico e imponente monumento e farsi seppellire altrove. Sorrisi a questa possibilità, la beffa di Antioco I di Commagene.
La luce radente del sole al tramonto aumentava i contrasti e faceva risaltare i particolari della piramide di pietre, delle sculture giganti e delle teste che avevo intorno. Con la luce del crepuscolo potevo scorgere dettagli che all’arrivo mi erano negati.
E allora, guardando con più attenzione, i volti del re e degli dei, dei leoni e delle aquile mi apparvero meno accigliati e severi. Anzi, mi sembrò che un leggero sorriso, appena appena accennato, increspasse i loro volti di pietra. Di sicuro loro sapevano e custodivano da duemila anni il fantastico segreto.

Nemrut Dagi, Turchia, agosto/settembre 1982


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