Il Golden Gate, San Francisco, California |
Paesi toccati: USA
Itinerario: San
Francisco, Point Reyes Nat.Park, Gold Country, Yosemite Nat. Park, King
Canyon & Sequoia Nat. Park, Death Valley Nat. Park, Mojave Nat. Preserve,
Joshua Tree Nat. Park, Los Angeles, Santa Barbara, Big Sur, Monterey, San
Francisco.
Periodo: ottobre
2012
Durata: 25 giorni
Ne parlo nel libro: IL GATTO BUDDHISTA
La California va ben oltre San Francisco, Hollywood,
Yosemite e quant’altro i film e la letteratura ci fanno immaginare. La California è uno stato in uno stato, tanto vasto, diverso e vario da lasciare stupiti. Soprattutto ha una natura clamorosa con alcune punte (Death Valley, ad esempio) di livello planetario.
Mi ha stupito soprattutto la fauna incontrata che non avrei mai pensato di trovare in un paese tra i più industrializzati del mondo. E questo dimostra come, con possibilità economiche, certo, ma, soprattutto, con cultura e senso civico, si possa godere della natura senza distruggere tutto. In questo gli Stati Uniti (che per il resto non mi sono simpatici) sono grandi e ammirevoli. Anche la cura con la quale mantengono le poche tracce di un passato tanto recente da non avere quasi diritto ad entrare nella storia, dovrebbe insegnare molto a noi che non riusciamo nemmeno a mantenere decentemente un patrimonio come Pompei.
Cartello indicatore della mitica Route 66, S. Bernardino, California |
Bisogna uscire dalle città
e prendere una highway qualsiasi, accendere la radio e ascoltare San Francisco (Scott McKenzie, "ciao, ti sia
lieve la terra”) o California Dreamin’
(Mamas & Papas) e andare. Si
viaggia a fianco dei clamorosi camion scintillanti e multicolori che troviamo
solo in Nordamerica e si sorpassano le improbabili stazioni di servizio dove
manca solo che a riempirti il serbatoio arrivi Quentin Tarantino. Ci sono molti
homeless in centro a San
Francisco e anche le periferie di Los Angeles sono a rischio, ma, nonostante tutto,
si respira un’aria diversa in California, aperta, libera, come se il cielo
fosse a portata di mano. Ma forse questa sensazione dipende dalla musica che
sto ascoltando mentre scrivo, accompagnata dal ricordo di un altro viaggio a
San Francisco fatto trent’anni fa, quando il mondo e il futuro mi
apparivano meno cupi di quelli attuali.
Murale a Mission, S. Francisco, California |
San Francisco: Difficile parlare
di San Francisco, troppo si sa e si è già visto. Dirò solo delle mie
impressioni. La San Francisco che avevo conosciuto un tempo questa volta non
l’ho ritrovata, a dimostrazione di come tutto, soprattutto le città, cambia nel
tempo. Allora mi apparve la capitale del mondo, il crocevia di tutte le nuove
idee e tendenze, della musica e di un nuovo mondo possibile. Questa volta mi è
apparsa niente più che una città tranquilla e appagata dalla sua Silicon Valley, da Harward e dalla sua natura unica. Una città quasi normale, insomma, non una metropoli cosmopolita, imparagonabile a
Londra, Parigi o New York. Rimane tuttavia splendida e rilassata, che ha lasciato
ai leoni di mare un intero molo. Se Fisherman
Warf ormai è una caotica Disneyland fagocitata dal turismo che più di massa
non si può, rimangono altre “chicche” fantastiche a cui rivolgersi. Ad esempio
il Musée Mecanique (all’inizio del
Pier 45) dove con pochi spiccioli si possono mettere in funzione una quantità
di fantastici e antichi giochi meccanici. Se Sausalitio è anch’esso ormai invasa
da orde di turisti, andarci in bici attraverso il Golden Gate compensa per la
perdita dello spirito originale che qui diede vita al movimento hyppie negli anni 60 e 70. Le boathouse, a cercarle bene, ci sono ancora ancorate ai pontili ai margini del porto turistico, ma gli abitanti attuali ormai sembrano le caricature di quelli di allora. Fantastici i murales che tappezzano i muri di molte
strade del quartiere Mission (da passarci un giorno intero per andare a cercarli
tutti, ad uno ad uno). Potrebbero insegnare ai detestabili cialtroni che
impataccano i muri e i portoni di Bologna come potrebbero essere le nostre
strade se loro sapessero disegnare e fossero meno… (mettete voi l’aggettivo). E
del sistema delle Cable car che
diciamo? Non è un sistema fantastico e ingegnoso per trasportare le persone in
una città piena di colline, anche ripide? Se uno rimane affascinato da questo
sistema geniale e complicato e vuole capire nei dettagli come funziona, non può
mancare di visitare il Cable Car Museum. Nonostante tutte le attenzioni non
sfuggimmo all’immancabile “americanata”, roba da Guiness. A Fisherman Warf
incappammo in un grande gazebo montato dal corpo dei Marines per fare proseliti
e convincere i giovani ad arruolarsi. Avevano portato alcuni mezzi pieni di armi pesanti da mostrare al pubblico (“venghino signori, venghino!”), avevano gonfiato un
marine di gomma alto cinque metri. Erano tutti in alta uniforme, con berretto e
colletto chiuso, nonostante ci fossero 35 gradi. Alcuni istruttori sottoponevano ad una prova preselettiva di forza i possibili candidati. La prova richiedeva venti sollevamenti da eseguire con le braccia appese ad un’asta
orizzontale. Chi non ce la faceva veniva liquidato tra i “Buuuu” dei presenti. Il
coordinatore della prove era un palestratissimo rasato a zero con una maglietta
nera di tre misure più piccole del dovuto su cui splendeva un motto: il dolore è paura che lascia il corpo. Tutto
documentato.
Murale a Mission, S. Francisco, California |
La ricerca dei miti (in buona parte perduti). Cominciamo con il Gold Country. In quale posto
al mondo, alle 6 di un pomeriggio di ottobre del 2012 si può incontrare un pistolero
che potrebbe essere scambiato per John Wayne? Può capitare a Columbia, cuore
del Gold Country alle pendici della
Sierra Nevada. E non siamo in un film, anche se il nostro Cowboy è un
figurante incaricato di divertire grandi e bambini in visita al paese. In questa regione della California, prima che nel Klondike, si
scatenò alla fine dell’800 la corsa all’oro. Sorsero così molte città che
hanno conservato gelosamente le abitazioni e i negozi originali, come Columbia o Nevada
City. E nel centro di Columbia incontrammo, oltre al pistolero, anche molti
gestori di negozi abbigliati con i costumi dell’800. Un tuffo nel passato e nel
mito della frontiera americana. E il Baghdad Cafè? Ricordate Baghdad cafe, il film diretto da Percy Adlon? Racconta le vicende che capitano in
un caffè collocato sulla vecchia Route 66
e fu girato nell’area di Newberry Springs nel deserto californiano di Mojave. Quello
che si vede nel film non è l’originale
Baghdad Cafè, che si trova invece a Baghdad, appunto, tra Amboy e Ludlow. Ci siamo passati, ma, tristezza delle tristezze, nulla rimane
del vecchio caffè a Bagdad. Un mito perduto. Provai dolore anche per la Route 66. Usata per la migrazione verso
Ovest, fu una delle prime highway statunitensi, aperta nel 1926.
Collegava Chicago alla spiaggia di Santa Monica, di fronte a Los
Angeles. La distanza complessiva era di
3.755 km. Un altro mito americano, un sogno che, come altri, avevo pensato di inseguire prima o poi, dall’Illinois fino alle spiagge del Pacifico. Quando, sbagliando strada, raggiungemmo
Ludlow, un incrocio perso nel Mojave Desert tra Los Angeles e Las Vegas,
scoprimmo di essere arrivati per caso di fronte al punto di arrivo, o di
partenza, di uno egli ultimi brandelli ancora esistenti della mitica Route 66,
percorsa nel ‘900 da migliaia di emigranti e sognatori. Per riparare all’errore
stradale, avremmo dovuto percorrere in senso contrario una cinquantina di
chilometri sulla 40, ma non resistemmo al richiamo della 66 e la imboccammo
proprio a Ludlow, lasciandoci alle spalle lo sbrecciato guard rail di cemento che impediva di continuare il viaggio verso
ovest. Oltre il guard rail ciò che
rimaneva della gloriosa 66, umiliata e abbandonata, proseguiva solitario verso
la costa del Pacifico, invaso da buche e ciuffi d’erba che spuntavano dall’asfalto.
Verso est invece la strada era ancora mantenuta (ma per quanto ancora?) e noi la
seguimmo in direzione contraria al mito e, arrivati ad Amboy, l’abbandonammo al
suo destino, piegando verso sud. In quei cinquanta chilometri – c’era da
aspettarselo - non incontrammo alcun veicolo, solo un paio di nostalgici hippy sulle loro Harley Davidson. E, d’altra parte, perché percorrere quello scomodo
pezzo di storia quando, parallela e a meno di un chilometro, correva la 40,
liscia e senza curve? Un altro mito perduto. Non mi hanno deluso invece I gioiosi mastodonti. Quelli ci sono ancora, colorati e scintillanti. In un paese praticamente privo
di rete ferroviaria, incontravamo ovunque le lunghe fila di enormi, splendidi e
colorati camion che troviamo in Nord America. Troppi ne ho visti, dal vivo e
nei film, per non esserne affascinato. I più belli, inconfondibili, i più
classici, sono i Peterbilt. Mi hanno sempre stupito per il loro lindore, con
qualunque tempo e per la verniciatura sempre perfetta che ne fa luccicare i
colori sotto il sole. Le finiture cromate e scintillanti, i tubi di scappamento
puntati verso il cielo come ciminiere. Inarrestabili, sembrano a volte anche minacciosi per la
loro mole e i finestrini oscurati che non lasciano intravedere l’autista. Come
in Duel. Chi si ricorda lo splendido
film di Spielberg sa di cosa parlo. Oppure in Convoy, un’altra pellicola che vede i camion protagonisti. Ma nello
stesso tempo gioiosi, perché a volte sfoggiano colori tenui e delicati che
vanno oltre i classici rosso e nero: azzurri, grigi sfumati, nocciola, rosa,
verdi smeraldo e terre di Siena di tutte le tonalità. Non so decidermi: quale
immagine incarna meglio il mito americano? Il
cavaliere della Marlboro o un camion Peterbilt rosso fuoco che sfreccia su una highway sullo sfondo delle rocce della Monument Valley?
I Parchi naturali. Point Reyes. Nonostante copra una penisola
situata solo a un centinaio di km a nord di S. Francisco, rimane un parco poco
conosciuto e frequentato. Eppure riveste un elevato interesse, geologico e non
solo, perché entro suoi confini si possono osservare gli effetti devastanti
procurati dallo spostamento della faglia di S.Andrea in occasione del terremoto
che nel 1906 distrusse San Francisco. Lo sconvolgimento tellurico fece fare
alla penisola un balzo verso nordovest di sei metri. I risultati di questo
spostamento si possono vedere ancora oggi. Il parco offre scenari fantastici
sul pacifico (dall’alto si avvistano le balene) e una fauna invidiabile, a
cominciare dagli elefanti di mare, per finire ai rari cervi di Tule (wapiti per gli Indiani). Yosemite. In questo parco, uno dei più
famosi al mondo e frequentato da milioni di visitatori ogni anno, il re
incontrastato sarebbe l’orso. Tutti i campeggi sono attrezzati con cassoni di
ferro nei quali è obbligatorio depositare di notte ogni prodotto che profumi,
compresi i detersivi. Rimanemmo nel parco tre giorni, ma degli orsi nemmeno
l’ombra e credo che non sia stato un caso. A Yosemite c’è troppa confusione per
avere concrete speranze per riuscire a vedere il plantigrado. Una grande
delusione per gente come noi che in Alaska e in Canada ne aveva incontrati a
decine. Boschi, rocce e mammelloni di granito si alzano fino a oltre i 3000
metri, cascate (solo in primavera) e laghetti “alpini” fanno di questo parco una
meraviglia, anche se devo dire che per me non è il più bello della California.
Fantastico lo scenario della valle che si gode da Glacier Point, come la strada che attraversa la Sierra Nevada superando
il passo Tioga, a più di 3000 metri. Sequoia e King Canyon. Le foreste in questo
parco sono grandiose, così come le montagne, ma ovviamente la ragione che
spinge a visitarlo sono le sequoie. L’impressione che fa un albero alto cento
metri con un tronco largo come un camion è notevole. Azzeccata l’idea di
chiamare i più vecchi e maestosi con i nomi di due generali: Sherman e Grant. Death Valley Nat. Park. Al di là dei parchi
di montagna della Sierra Nevada, si aprono i parchi del deserto californiano.
Il più importante e, per me, il vero capolavoro della California è questo. Confesso di amare il deserto e quindi il mio giudizio è senz’altro di
parte, ma devo dire che raramente ho
incontrato in uno spazio così limitato una tale varietà di ambienti. In pratica
il parco è costituito da una depressione incassata tra due montagne alte 1600
metri, un ambiente torrido e ostile (in ottobre alle quattro di pomeriggio
c’erano 42 gradi all’ombra) per cui il meglio di sé il parco lo dà in inverno,
o meglio in marzo quando fioriscono i cactus. Dall’alto si gode una vista
impressionante della valle, un inferno. E infatti il view point dal quale si gode il panorama si chiama Dante’s view. Emozionante (secondo me da non perdere) è aspettare l’alba
(o meglio l’entrata del sole nella valle) sulla distesa salata di Bad Waters
(86 m sotto il livello del mare). La velocità con la quale la linea del sole avanza è tale che anche correndo non si riesce a seguirla. Bellissimo
è il Golden Canyon che si arrampica verso Zabriskie Point, un altro punto
spettacolare della valle, oppure il Mosaic Canyon o l’Artist Drive. Sono trekking
di diverse lunghezze che attraversano scenari rocciosi dove l’erosione nel
tempo ha creato forme fantastiche che hanno preso, dai diversi strati di roccia
che le compongono, tutte le tonalità del rosso, del giallo e del marrone. E non
mancano il verde e il nero. Poi c’è il tocco finale: le Mosquito flat sand
dunes: non sono il Sahara ma sono una serie di dune alte e morbide che la luce
del tramonto pennella con curve e chiaroscuri. Mojave National Preserve E’ il più
isolato e remoto dei parchi californiani, attraversato dai binari della mitica
Union Pacific Railroad. Cactus di tutte le specie, rocce dalle forme più strane
ci accompagnarono durante tutto il tragitto. Anche qui non manca una vasta zona
di dune di sabbia. Joshua Tree National Park. E’ il parco più a sud, non
molto distante da Los Angeles ed è il più sorprendente. La natura qui si è
sbizzarrita a creare forme rocciose e grandi massi rossi che sembrano
accatastati a casaccio da giganti ubriachi. Un ambiente, aspro e dolce nello
stesso tempo, che affascinò anche gli U2 che intitolarono un loro album del 1987
appunto “The Joshua Tree”. Il protagonista assoluto dal parco è il Joshua Tree (Yucca brevifolia), l’albero di Giosuè, così chiamato dai primi
pionieri Mormoni che, arrivando qui, pensarono che i suoi rami assomigliassero
alle braccia del profeta Giosuè in preghiera. Coprono quasi tutto il parco
istituito proprio per salvaguardarli. Ci sono poi molti specie di cactus, come il
fantastico Cholla o l’Ocotillo. Tra le rocce una sera
scorgemmo tre roadrunner. Cosa sono? Ma sono i beep-beep,
quelli che fanno impazzire Willy il coyote! Buffi uccelletti bianchi e neri alti un palmo che corrono (in effetti non volano) come pazzi
tra i cactus. Posso testimoniare: esistono davvero! E, come ci mostrano i cartoni
animati, dove ci sono loro non mancano i coyote: infatti un colpo di fortuna
incredibile ce ne portò uno di fronte al camper. La sua sagoma nera di fianco
a quella di un Joshua Tree si stagliò di fronte al tramonto per un po’. Cosa
si poteva chiedere di più al Joshua?
Big Sur. Ci sono alcune meraviglie naturali
lungo questi 200 km di strada panoramica, stretta e tortuosa, che corre lungo la costa del
Pacifico a sud di Monterey. Mi riferisco alla nutrita colonia di elefanti di
mare di Piedras Blancas e alla piccola
riserva di Point Lobos. Qui, oltre
agli scogli coperti di leoni di mare e otarie, potemmo osservare anche una
famiglia di lontre di mare (non è poco, è un mammifero marino tra i più rari ed elusivi al
mondo). Big Sur (Grande Sud), tuttavia, forse più che per le meraviglie
naturali va vissuto come un’esperienza di vita. Perché vi si respira ancora
l’atmosfera degli anni 50 e 60 che affascinò artisti e scrittori, tra cui Henry
Miller e quelli della beat generation
(Jack Kerouac, in primis). Divenne loro meta e rifugio. Molto è cambiato da
allora, certamente, tuttavia la costa rimane selvaggia e poco praticata, non si
è costruito e la zona mantiene ancora una natura rigogliosa e poco sfruttata.
Nessun commento:
Posta un commento