sabato 14 dicembre 2013

Viaggio in CALIFORNIA

Il Golden Gate, San Francisco,
California
Paesi toccati: USA
Itinerario: San Francisco, Point Reyes Nat.Park, Gold Country, Yosemite Nat. Park, King Canyon & Sequoia Nat. Park, Death Valley Nat. Park, Mojave Nat. Preserve, Joshua Tree Nat. Park, Los Angeles, Santa Barbara, Big Sur, Monterey, San Francisco.
Periodo: ottobre 2012
Durata: 25 giorni
Ne parlo nel libro: IL GATTO BUDDHISTA 

La California va ben oltre San Francisco, Hollywood, Yosemite e quant’altro i film e la letteratura ci fanno immaginare. La California è uno stato in uno stato, tanto vasto, diverso e vario da lasciare stupiti. Soprattutto ha una natura clamorosa con alcune punte (Death Valley, ad esempio) di livello planetario.

Mi ha stupito soprattutto la fauna incontrata che non avrei mai pensato di trovare in un paese tra i più industrializzati del mondo. E questo dimostra come, con possibilità economiche, certo, ma, soprattutto, con cultura e senso civico, si possa godere della natura senza distruggere tutto. In questo gli Stati Uniti (che per il resto non mi sono simpatici) sono grandi e ammirevoli. Anche la cura con la quale mantengono le poche tracce di un passato tanto recente da non avere quasi diritto ad entrare nella storia, dovrebbe insegnare molto a noi che non riusciamo nemmeno a mantenere decentemente un patrimonio come Pompei.

Cartello indicatore della mitica Route 66,
S. Bernardino, California

Bisogna uscire dalle città e prendere una highway qualsiasi, accendere la radio e ascoltare San Francisco (Scott McKenzie, "ciao, ti sia lieve la terra”) o California Dreamin’ (Mamas & Papas) e andare. Si viaggia a fianco dei clamorosi camion scintillanti e multicolori che troviamo solo in Nordamerica e si sorpassano le improbabili stazioni di servizio dove manca solo che a riempirti il serbatoio arrivi Quentin Tarantino. Ci sono molti homeless in centro a San Francisco e anche le periferie di Los Angeles sono a rischio, ma, nonostante tutto, si respira un’aria diversa in California, aperta, libera, come se il cielo fosse a portata di mano. Ma forse questa sensazione dipende dalla musica che sto ascoltando mentre scrivo, accompagnata dal ricordo di un altro viaggio a San Francisco fatto trent’anni fa, quando il mondo e il futuro mi apparivano meno cupi di quelli attuali.

P.S: Los Angeles e Hollywood ce li siamo persi di proposito e volentieri.

Murale a Mission, S. Francisco, California

San Francisco: Difficile parlare di San Francisco, troppo si sa e si è già visto. Dirò solo delle mie impressioni. La San Francisco che avevo conosciuto un tempo questa volta non l’ho ritrovata, a dimostrazione di come tutto, soprattutto le città, cambia nel tempo. Allora mi apparve la capitale del mondo, il crocevia di tutte le nuove idee e tendenze, della musica e di un nuovo mondo possibile. Questa volta mi è apparsa niente più che una città tranquilla e appagata dalla sua Silicon Valley, da Harward e dalla sua natura unica. Una città quasi normale, insomma, non una metropoli cosmopolita, imparagonabile a Londra, Parigi o New York. Rimane tuttavia splendida e rilassata, che ha lasciato ai leoni di mare un intero molo. Se Fisherman Warf ormai è una caotica Disneyland fagocitata dal turismo che più di massa non si può, rimangono altre “chicche” fantastiche a cui rivolgersi. Ad esempio il Musée Mecanique (all’inizio del Pier 45) dove con pochi spiccioli si possono mettere in funzione una quantità di fantastici e antichi giochi meccanici. Se Sausalitio è anch’esso ormai invasa da orde di turisti, andarci in bici attraverso il Golden Gate compensa per la perdita dello spirito originale che qui diede vita al movimento hyppie negli anni 60 e 70. Le boathouse, a cercarle bene, ci sono ancora ancorate ai pontili ai margini del porto turistico, ma gli abitanti attuali ormai sembrano le caricature di quelli di allora. Fantastici i murales che tappezzano i muri di molte strade del quartiere Mission (da passarci un giorno intero per andare a cercarli tutti, ad uno ad uno). Potrebbero insegnare ai detestabili cialtroni che impataccano i muri e i portoni di Bologna come potrebbero essere le nostre strade se loro sapessero disegnare e fossero meno… (mettete voi l’aggettivo). E del sistema delle Cable car che diciamo? Non è un sistema fantastico e ingegnoso per trasportare le persone in una città piena di colline, anche ripide? Se uno rimane affascinato da questo sistema geniale e complicato e vuole capire nei dettagli come funziona, non può mancare di visitare il Cable Car Museum. Nonostante tutte le attenzioni non sfuggimmo all’immancabile “americanata”, roba da Guiness. A Fisherman Warf incappammo in un grande gazebo montato dal corpo dei Marines per fare proseliti e convincere i giovani ad arruolarsi. Avevano portato alcuni mezzi pieni di armi pesanti da mostrare al pubblico (“venghino signori, venghino!”), avevano gonfiato un marine di gomma alto cinque metri. Erano tutti in alta uniforme, con berretto e colletto chiuso, nonostante ci fossero 35 gradi. Alcuni istruttori sottoponevano ad una prova preselettiva di forza i possibili candidati. La prova richiedeva venti sollevamenti da eseguire con le braccia appese ad un’asta orizzontale. Chi non ce la faceva veniva liquidato tra i “Buuuu” dei presenti. Il coordinatore della prove era un palestratissimo rasato a zero con una maglietta nera di tre misure più piccole del dovuto su cui splendeva un motto: il dolore è paura che lascia il corpo. Tutto documentato.

Murale a Mission, S. Francisco, California

La ricerca dei miti (in buona parte perduti). Cominciamo con il Gold Country. In quale posto al mondo, alle 6 di un pomeriggio di ottobre del 2012 si può incontrare un pistolero che potrebbe essere scambiato per John Wayne? Può capitare a Columbia, cuore del Gold Country alle pendici della Sierra Nevada. E non siamo in un film, anche se il nostro Cowboy è un figurante incaricato di divertire grandi e bambini in visita al paese. In questa regione della California, prima che nel Klondike, si scatenò alla fine dell’800 la corsa all’oro. Sorsero così molte città che hanno conservato gelosamente le abitazioni e i negozi originali, come Columbia o Nevada City. E nel centro di Columbia incontrammo, oltre al pistolero, anche molti gestori di negozi abbigliati con i costumi dell’800. Un tuffo nel passato e nel mito della frontiera americana. E il Baghdad Cafè? Ricordate Baghdad cafe, il film diretto da Percy Adlon? Racconta le vicende che capitano in un caffè collocato sulla vecchia Route 66 e fu girato nell’area di Newberry Springs nel deserto californiano di Mojave. Quello che si vede nel film non è l’originale  Baghdad Cafè, che si trova invece a Baghdad, appunto, tra Amboy e Ludlow. Ci siamo passati, ma, tristezza delle tristezze, nulla rimane del vecchio caffè a Bagdad. Un mito perduto. Provai dolore anche per la Route 66. Usata per la migrazione verso Ovest, fu una delle prime highway  statunitensi, aperta nel 1926. Collegava Chicago alla spiaggia di Santa Monica, di fronte a Los Angeles. La distanza complessiva era di 3.755 km. Un altro mito americano, un sogno che, come altri, avevo pensato di inseguire prima o poi, dall’Illinois fino alle spiagge del Pacifico. Quando, sbagliando strada, raggiungemmo Ludlow, un incrocio perso nel Mojave Desert tra Los Angeles e Las Vegas, scoprimmo di essere arrivati per caso di fronte al punto di arrivo, o di partenza, di uno egli ultimi brandelli ancora esistenti della mitica Route 66, percorsa nel ‘900 da migliaia di emigranti e sognatori. Per riparare all’errore stradale, avremmo dovuto percorrere in senso contrario una cinquantina di chilometri sulla 40, ma non resistemmo al richiamo della 66 e la imboccammo proprio a Ludlow, lasciandoci alle spalle lo sbrecciato guard rail di cemento che impediva di continuare il viaggio verso ovest. Oltre il guard rail ciò che rimaneva della gloriosa 66, umiliata e abbandonata, proseguiva solitario verso la costa del Pacifico, invaso da buche e ciuffi d’erba che spuntavano dall’asfalto. Verso est invece la strada era ancora mantenuta (ma per quanto ancora?) e noi la seguimmo in direzione contraria al mito e, arrivati ad Amboy, l’abbandonammo al suo destino, piegando verso sud. In quei cinquanta chilometri – c’era da aspettarselo - non incontrammo alcun veicolo, solo un paio di nostalgici hippy sulle loro Harley Davidson. E, d’altra parte, perché percorrere quello scomodo pezzo di storia quando, parallela e a meno di un chilometro, correva la 40, liscia e senza curve? Un altro mito perduto. Non mi hanno deluso invece I gioiosi mastodonti. Quelli ci sono ancora, colorati e scintillanti. In un paese praticamente privo di rete ferroviaria, incontravamo ovunque le lunghe fila di enormi, splendidi e colorati camion che troviamo in Nord America. Troppi ne ho visti, dal vivo e nei film, per non esserne affascinato. I più belli, inconfondibili, i più classici, sono i Peterbilt. Mi hanno sempre stupito per il loro lindore, con qualunque tempo e per la verniciatura sempre perfetta che ne fa luccicare i colori sotto il sole. Le finiture cromate e scintillanti, i tubi di scappamento puntati verso il cielo come ciminiere. Inarrestabili, sembrano a volte anche minacciosi per la loro mole e i finestrini oscurati che non lasciano intravedere l’autista. Come in Duel. Chi si ricorda lo splendido film di Spielberg sa di cosa parlo. Oppure in Convoy, un’altra pellicola che vede i camion protagonisti. Ma nello stesso tempo gioiosi, perché a volte sfoggiano colori tenui e delicati che vanno oltre i classici rosso e nero: azzurri, grigi sfumati, nocciola, rosa, verdi smeraldo e terre di Siena di tutte le tonalità. Non so decidermi: quale immagine incarna meglio il mito americano? Il cavaliere della Marlboro o un camion Peterbilt rosso fuoco che sfreccia su una highway sullo sfondo delle rocce della Monument Valley?

I Parchi naturali. Point Reyes. Nonostante copra una penisola situata solo a un centinaio di km a nord di S. Francisco, rimane un parco poco conosciuto e frequentato. Eppure riveste un elevato interesse, geologico e non solo, perché entro suoi confini si possono osservare gli effetti devastanti procurati dallo spostamento della faglia di S.Andrea in occasione del terremoto che nel 1906 distrusse San Francisco. Lo sconvolgimento tellurico fece fare alla penisola un balzo verso nordovest di sei metri. I risultati di questo spostamento si possono vedere ancora oggi. Il parco offre scenari fantastici sul pacifico (dall’alto si avvistano le balene) e una fauna invidiabile, a cominciare dagli elefanti di mare, per finire ai rari cervi di Tule (wapiti per gli Indiani). Yosemite. In questo parco, uno dei più famosi al mondo e frequentato da milioni di visitatori ogni anno, il re incontrastato sarebbe l’orso. Tutti i campeggi sono attrezzati con cassoni di ferro nei quali è obbligatorio depositare di notte ogni prodotto che profumi, compresi i detersivi. Rimanemmo nel parco tre giorni, ma degli orsi nemmeno l’ombra e credo che non sia stato un caso. A Yosemite c’è troppa confusione per avere concrete speranze per riuscire a vedere il plantigrado. Una grande delusione per gente come noi che in Alaska e in Canada ne aveva incontrati a decine. Boschi, rocce e mammelloni di granito si alzano fino a oltre i 3000 metri, cascate (solo in primavera) e laghetti “alpini” fanno di questo parco una meraviglia, anche se devo dire che per me non è il più bello della California. Fantastico lo scenario della valle che si gode da Glacier Point, come la strada che attraversa la Sierra Nevada superando il passo Tioga, a più di 3000 metri. Sequoia e King Canyon. Le foreste in questo parco sono grandiose, così come le montagne, ma ovviamente la ragione che spinge a visitarlo sono le sequoie. L’impressione che fa un albero alto cento metri con un tronco largo come un camion è notevole. Azzeccata l’idea di chiamare i più vecchi e maestosi con i nomi di due generali: Sherman e Grant. Death Valley Nat. Park. Al di là dei parchi di montagna della Sierra Nevada, si aprono i parchi del deserto californiano. Il più importante e, per me, il vero capolavoro della California è questo. Confesso di amare il deserto e quindi il mio giudizio è senz’altro di parte, ma devo dire che raramente  ho incontrato in uno spazio così limitato una tale varietà di ambienti. In pratica il parco è costituito da una depressione incassata tra due montagne alte 1600 metri, un ambiente torrido e ostile (in ottobre alle quattro di pomeriggio c’erano 42 gradi all’ombra) per cui il meglio di sé il parco lo dà in inverno, o meglio in marzo quando fioriscono i cactus. Dall’alto si gode una vista impressionante della valle, un inferno. E infatti il view point dal quale si gode il panorama si chiama Dante’s view. Emozionante (secondo me da non perdere) è aspettare l’alba (o meglio l’entrata del sole nella valle) sulla distesa salata di Bad Waters (86 m sotto il livello del mare). La velocità con la quale la linea del sole avanza è tale che anche correndo non si riesce a seguirla. Bellissimo è il Golden Canyon che si arrampica verso Zabriskie Point, un altro punto spettacolare della valle, oppure il Mosaic Canyon o l’Artist Drive. Sono trekking di diverse lunghezze che attraversano scenari rocciosi dove l’erosione nel tempo ha creato forme fantastiche che hanno preso, dai diversi strati di roccia che le compongono, tutte le tonalità del rosso, del giallo e del marrone. E non mancano il verde e il nero. Poi c’è il tocco finale: le Mosquito flat sand dunes: non sono il Sahara ma sono una serie di dune alte e morbide che la luce del tramonto pennella con curve e chiaroscuri. Mojave National Preserve E’ il più isolato e remoto dei parchi californiani, attraversato dai binari della mitica Union Pacific Railroad. Cactus di tutte le specie, rocce dalle forme più strane ci accompagnarono durante tutto il tragitto. Anche qui non manca una vasta zona di dune di sabbia. Joshua Tree National Park. E’ il parco più a sud, non molto distante da Los Angeles ed è il più sorprendente. La natura qui si è sbizzarrita a creare forme rocciose e grandi massi rossi che sembrano accatastati a casaccio da giganti ubriachi. Un ambiente, aspro e dolce nello stesso tempo, che affascinò anche gli U2 che intitolarono un loro album del 1987 appunto “The Joshua Tree”. Il protagonista assoluto dal parco è il Joshua Tree (Yucca brevifolia), l’albero di Giosuè, così chiamato dai primi pionieri Mormoni che, arrivando qui, pensarono che i suoi rami assomigliassero alle braccia del profeta Giosuè in preghiera. Coprono quasi tutto il parco istituito proprio per salvaguardarli. Ci sono poi molti specie di cactus, come il fantastico Cholla o l’Ocotillo. Tra le rocce una sera scorgemmo tre roadrunner. Cosa sono?  Ma sono i beep-beep, quelli che fanno impazzire Willy il coyote! Buffi uccelletti bianchi  e neri alti un palmo che corrono (in effetti non volano) come pazzi tra i cactus. Posso testimoniare: esistono davvero! E, come ci mostrano i cartoni animati, dove ci sono loro non mancano i coyote: infatti un colpo di fortuna incredibile ce ne portò uno di fronte al camper. La sua sagoma nera di fianco a quella di un Joshua Tree si stagliò di fronte al tramonto per un po’. Cosa si poteva chiedere di più al Joshua?

Big Sur. Ci sono alcune meraviglie naturali lungo questi 200 km di strada panoramica, stretta  e tortuosa, che corre lungo la costa del Pacifico a sud di Monterey. Mi riferisco alla nutrita colonia di elefanti di mare di Piedras Blancas e alla piccola riserva di Point Lobos. Qui, oltre agli scogli coperti di leoni di mare e otarie, potemmo osservare anche una famiglia di lontre di mare (non è poco, è un mammifero marino tra i più rari ed elusivi al mondo). Big Sur (Grande Sud), tuttavia, forse più che per le meraviglie naturali va vissuto come un’esperienza di vita. Perché vi si respira ancora l’atmosfera degli anni 50 e 60 che affascinò artisti e scrittori, tra cui Henry Miller e quelli della beat generation (Jack Kerouac, in primis). Divenne loro meta e rifugio. Molto è cambiato da allora, certamente, tuttavia la costa rimane selvaggia e poco praticata, non si è costruito e la zona mantiene ancora una natura rigogliosa e poco sfruttata.

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