Itinerario: Addis Abeba, Debre Libanos, cascate del Nilo azzurro, Bahr Dar, Gondar, lago Tana, grandi laghi della Rift Valley, Soddo, Arba Minch, Konso, Jinka, Mago Nat. Park.
Periodo: marzo-aprile 1985
Durata: 25 giorni
Ne parlo nel libro: Il Confine Immaginario
Ricordo il viaggio in Etiopia con nostalgia e un po' di rimpianto, nonostante la sua durezza.
L’Etiopia in quegli anni era un paese quasi sconosciuto, privo di strutture di accoglienza, dominato da un regime di stampo comunista molto repressivo e stremato da siccità e carestie che andavano avanti dalla fine degli anni ’70, quando, in un paese in prevalenza agricolo, alle condizioni climatiche sfavorevoli si aggiunsero le rovine portate dalla guerra che l’Etiopia combatteva contro l’Eritrea.
L’Etiopia in quegli anni era un paese quasi sconosciuto, privo di strutture di accoglienza, dominato da un regime di stampo comunista molto repressivo e stremato da siccità e carestie che andavano avanti dalla fine degli anni ’70, quando, in un paese in prevalenza agricolo, alle condizioni climatiche sfavorevoli si aggiunsero le rovine portate dalla guerra che l’Etiopia combatteva contro l’Eritrea.
Quando raggiungemmo Addis Abeba trovammo una città e un
paese in stato di
assedio, evidente soprattutto nelle provincie del nord, dove i
nostri spostamenti erano soggetti ad un controllo asfissiante da parte
dei militari, nonostante viaggiassimo con l’unica agenzia di viaggi governativa
operante in Etiopia in quegli anni. Più ci avvicinavamo all’Eritrea, più si
intensificava la presenza dei soldati, con le divise malmesse e l’aspetto poco
rassicurante. E questi erano gli incontri più tranquilli perché almeno le
divise sembravano garantire una certa sicurezza. Invece i picchetti di giovani, armati fino ai
denti e vestiti di stracci, che ci fermavano sia all’entrata che all’uscita di
ogni paese incontrato lungo la strada, si potevano scambiare per bande di
delinquenti. Una sbarra abbassata ci obbligava a fermarci e a sottoporci a
controlli muti e minuziosi, sotto gli sguardi severi di Marx, Engels e Lenin,
dipinti a mano su pannelli disseminati da ogni parte.
Il primo autobus che incontrammo era giallo, sembrava uno scuolabus.
Attirò la nostra attenzione perché era diverso da quelli che vedevamo lungo le
strade. Non era tanto sgangherato e dentro mancava la solita confusione di
persone e masserizie. Riuscimmo a sapere – notizia poi confermata al nostro
ritorno in Italia – che per fronteggiare l’ennesima crisi alimentare il governo
etiope aveva preso la più criminale delle decisioni, mettendo in atto il
cosiddetto resettlement, ossia
deportava forzatamente in altre province del paese le popolazioni colpite dalla
carestia. La sorpresa e lo sconcerto crebbero al crescere del numero degli
autobus colorati che incontravamo procedendo verso nord. Dopo un paio di giorni
diventarono quasi due colonne, una di corriere piene di gente che viaggiavano
in una direzione e una di corriere vuote che andavano in quella opposta.
Pur
limitati negli spostamenti e circondati dalla presenza sempre più minacciosa
dei militari e da un numero crescente di pullman della disperazione, riuscimmo
a raggiungere Gondar. Ma dovemmo rinunciare ad arrivare ad Axum, la città delle
steli, tra le quali quella restituita dall’Italia all'Etiopia nei primi anni 2000 tra
mille polemiche e anche a Lalibela e alle sue chiese sotterrane. Poi fummo
costretti a far ritorno verso il sud, più tranquillo, che era anche la meta
principale del viaggio.
Subimmo qualche sovrapposizione tra le
piccole e le grandi piogge e così il viaggio fu difficile anche dal punto di
vista meteorologico, con pioggia e cielo spesso coperto, un clima assai diverso da
quello presentato dai pochi opuscoli turistici allora disponibili che
promettevano ai visitatori tredici mesi di sole l’anno. Era una falsa
promessa perché in Etiopia, come potemmo verificare di persona, non c’è sempre il
sole, anche se i mesi sono davvero tredici. Il calendario copto in vigore nel
paese prevede, infatti, un anno di dodici mesi di trenta giorni ciascuno,
seguiti da un tredicesimo che è di sei o cinque giorni a seconda che l'anno sia
o no bisestile.
In Etiopia provai anche l'imbarazzante sensazione di essere "osservato
In Etiopia provai anche l'imbarazzante sensazione di essere "osservato
speciale", in quanto Italiano, e quindi figlio di un paese coloniale e invasore. E responsabile di atrocità che di solito noi Italiani ("brava gente") siamo riusciti a far passare sotto silenzio. Nel monastero di Debre Libanos, dove al nostro arrivo trovammo un vivacissimo mercato, nel maggio del 1937 furono trucidati dagli Italiani circa 400 monaci come rappresaglia per un attentato subito dal generale Graziani, allora viceré d'Etiopia. La Lonely Planet riporta che solo nel 1996 il Ministero della Difesa italiano ammise che, durante l'occupazione del paese (1936-1941), l'Italia condusse nel paese una vera e propria "sporca guerra" con uso, oltre che delle armi convenzionali, di sostanze incendiarie e gas proibiti a livello internazionale.
Una esperienza terribile
Ho visto cose dure nella mia vita e l'esperienza vissuta a Soddo (200 km a sud di Addis Abeba) fu una di queste. Arrivammo verso sera dopo un lunghissimo viaggio iniziato all’alba nella capitale. Chiedemmo ospitalità ai Frati Minori Cappucini che mandavano avanti una missione nella cittadina. La fortuna ci sorrise perché i frati ci ospitarono, nonostante le difficoltà del momento. Nel buio della sera padre Carlo ci condusse di fronte ad un edificio che in quel momento non riuscimmo a riconoscere e indicando l’entrata disse:
“Stanotte potete dormire qui dentro. Avete materassini e sacchi a pelo?”
“Sì!”
“Allora potete sistemarvi sul pavimento, non possiamo fare di più” aggiunse con il tono deciso di chi non ha tempo da perdere. E ci informò che entro un’ora sarebbe stata servita la cena alla quale eravamo invitati.
Entrando nell’edificio che ci era stato assegnato, alla luce fioca di alcune lampade, scorgemmo un ampio spazio occupato da cataste di prodotti alimentari di vario genere. C’erano scatolette di carne, pacchi di zucchero, barattoli di latte in polvere e altro cibo. In fondo alla stanza c’era un altare e sopra, appeso alla parete, un crocefisso. Di fianco una piccola fonte battesimale. Sulle pareti laterali erano appese alcune tele di probabili santi e martiri che la debole luce non riusciva a rischiarare e quattordici quadretti, tutti in fila ad uguale distanza l’uno dall’altro: le stazioni della Via Crucis. Era chiaro, avremmo dormito nella chiesa della missione, una chiesa che sembrava fuori uso da tempo. Vicino alla porta c’era un po’ di spazio libero per i nostri materassini gonfiabili.
A cena trovammo intorno al tavolo visi più stanchi dei nostri. Mangiammo in silenzio, noi e i religiosi, sotto un grande quadro che raffigurava una Madonna con Bambino, entrambi neri. Potenza della Chiesa, pensai. Alla fine della cena padre Carlo ci chiese notizie del nostro viaggio e noi ci informammo sulla vita della missione. Durante la chiacchierata la mia stanchezza cominciò a svanire, scacciata a poco a poco dalla durezza del racconto. A qualche chilometro di distanza i missionari avevano allestito un campo di accoglienza nel quale fornivano assistenza alimentare e sanitaria alla gente del posto, soprattutto alle madri e ai bambini. Ci raccontarono dei loro tentativi di salvare dalla morte i derelitti della carestia. Allora compresi la sistemazione nella chiesa della missione, anche se c’era poco da capire. Era l’ambiente più ampio che avevano a disposizione e quindi la utilizzavano come magazzino per raccogliere gli aiuti in attesa di trasferirli al campo. E comunque, ci dissero, in quei mesi non trovavano certo il tempo per le funzioni religiose, né c’erano fedeli disponibili a partecipare. Infine ci proposero, se eravamo interessati, di accompagnarli il giorno seguente al campo per una visita. Non era nei piani del viaggio, ma accettammo, anche se sapevamo di andare incontro ad un’esperienza dolorosa.
La mattina seguente salimmo su un fuoristrada e dopo mezz’ora raggiungemmo il campo che si materializzò all’orizzonte con una gran ressa di persone. La calca sollevava una soffice polvere rossastra che fluttuava nell’aria di un mattino che aveva bandito tutti i colori tranne il grigio del cielo e il rosso della terra. Il campo era circondato da un recinto costruito con pali di legno e all’interno c’erano diverse baracche con il tetto e le pareti di lamiera: il dispensario, l’infermeria, i magazzini e la chiesa, anche questa adibita a magazzino.
Quando entrai nel recinto la massa si dileguò e mi apparvero le persone. Erano distribuite in varie fila in attesa di accostarsi ai diversi servizi ed erano diventate persone in carne ed ossa. Pensare alla gente che soffre, entità generica e globale, non è come trovarsi di fronte a donne, vecchi e bambini, ognuno con occhi, mani e visi diversi da quelli del vicino, ognuno con le proprie sofferenze e i propri bisogni. Mi colpiva il silenzio che regnava intorno, rotto di tanto in tanto dal pianto che giungeva dal dispensario dove i più piccoli venivano visitati e pesati. Alle madri veniva consegnato il cibo necessario per la giornata, veniva loro insegnato come cucinarlo e loro dovevano consumarlo sul posto. Era l’unico modo, ci dissero i frati, per essere certi che fossero i bambini ad alimentarsi, perché, quando il cibo veniva consegnato per essere consumato altrove, accadeva troppo spesso che venisse ceduto ad altri componenti della famiglia, oppure venduto.
I religiosi erano presi dalle loro incombenze e non potevano accompagnarci nella visita e questo ci lasciava liberi di muoverci per il campo a nostro piacimento. Liberi di guardare i particolari di quella sofferenza. La ragazza seduta a terra con il volto tra le mani di cui ricordo il vestito lacero che un tempo era stato rosso a righe bianche. La giovane donna, già vecchia da tempo, accucciata a terra con i suoi tre bambini in grembo, scheletrici e con le pance gonfie. Il vecchio, che in realtà vecchio ancora non era, appoggiato al bastone e vestito di stracci. E le altre infinite miserie.
Alzando gli occhi vedevo il recinto che ci circondava e proteggeva lo spazio interno dall’assalto di quelli che premevano da fuori. Era l’aspetto più terribile della tragedia. Chi controllava l’ingresso doveva valutare ogni persona e decidere chi poteva entrare e chi doveva attendere, perché dentro il personale era limitato e gli aiuti erano scarsi rispetto ai bisogni. Era evidente che nel campo non si poteva aiutare tutti e subito e si doveva scegliere tra chi era possibile soccorrere immediatamente e chi doveva aspettare. Gli esclusi tendevano le braccia e le mani attraverso il recinto e volgevano lo sguardo verso quelli che erano dentro, consapevoli che per il momento quella barriera era invalicabile. Nonostante fossero all’esterno sembravano loro rinchiusi in una gabbia dalla quale tentassero inutilmente di fuggire.
Mi risuonavano nella mente la musica e le parole di Temple in una delle scene più drammatiche di Jesus Christ Superstar. In essa Cristo viene avvicinato e sommerso dai lebbrosi che lo supplicano di prendersi cura di loro e di guarirli. Strisciando verso di lui e tendendogli le braccia, lo travolgono e quasi lo soffocano. Ma sono troppi, pure per il figlio di Dio, che grida la sua impotenza ad aiutarli tutti. Anche nel campo di accoglienza di Soddo i bisognosi erano troppi e in più nel recinto non c’era Gesù Cristo. C’erano solo pochi uomini che facevano del loro meglio.
Qualche pianto si udiva ancora nel dispensario. “E quando piangono, è già un buon segno”, qualcuno disse alle mie spalle. Era padre Carlo che sopraggiungeva con un bambino esanime tra le braccia, “Vuol dire che è ancora possibile salvarli. Perché quando cessa il pianto, allora è finita. Come in questo caso.”
Quanti anni poteva avere quel bambino? Quattro, cinque? Una pancia enorme, uno scheletro con un po’ di pelle sopra, il volto rugoso di un vecchio. Un vecchio di quattro o cinque anni.
Con dolcezza e rassegnazione padre Carlo accarezzò il petto del bambino. Ma la carezza fu troppo energica per l’edema ormai diffuso nell’esile corpo. Le dita affondarono leggermente nel gonfiore e per un attimo lasciarono sulla pelle alcune piccole impronte, molto più chiare del suo colore d’ebano. Il bambino ebbe un sussulto e urlò al mondo il suo dolore. Poi, prima che il grido si fosse dileguato nell’aria, si assopì di nuovo. Fissando i nostri occhi sgomenti che chiedevano spiegazioni, padre Carlo disse:
“Prima di domani morirà” e, forse per tranquillizzarmi, aggiunse: “è arrivato qua troppo tardi e per lui non possiamo più fare nulla. Ma se non lo tocchiamo non soffrirà più”.
Gondar: è chiamata anche la ‘Camelot
d’Africa’ per via della presenza di diversi e ben conservati palazzi reali, a
cominciare da quelli eretti dall’imperatore Fasiladas, fondatore della città, nel 1635. La nostra visita passò in rassegna il magnifico ‘recinto reale’ che
racchiudeva i principali monumenti storici della città: il castello di Fasiladas,
la sala dei banchetti, la cancelleria, la libreria. E poi, poco lontani, le
terme di Fasiladas e il capolavoro che vale il viaggio, la chiesa di Debre
Berhan Selassie, con i suoi spettacolari affreschi. Dall'esterno non sembrava granché, ma bastò entrare per trovarci di fronte ad una "Cappella Sistina" africana: santi e martiri, scene della Bibbia e dei Vangeli e sul soffitto una distesa di 80 teste di cherubini, ognuno con un'espressione diversa, lo sguardo intenso rivolto in basso allo spettatore. Spettacolare e inquietante, forse per la posizione subalterna e scomoda che dovevo tenere per osservarli. Avevo intorno il paradiso, rappresentato con colori verdi e blu, e l'inferno, dipinto con rossi cupi e nero. Erano scene che, a parte i soggetti, mi ricordavano le opere di Brueghel. Solo lui avrebbe potuto dipingere scene come quelle, serene e apocalittiche nello stesso tempo. Attorno alla chiesa c'era una giardino ombreggiato e piacevole, ma io non ne approfittai, rimasi in chiesa tutto il tempo che avevamo a disposizione, affascinato da tanta meraviglia e provai un'emozione così intensa che in parte mi ripagò della delusione di non poter proseguire il viaggio verso nord, verso Axun. Per ragioni di sicurezza, ci dissero. E, in effetti, il numero dei civili e dei militari (ma come distinguere gli uni dagli altri?) che andavano in giro armati era decisamente elevato. Ci affascinò anche il
mercato, animatissimo e, a quei tempi - come possiamo dire? - ancora nella sua veste originale.
Gli altopiani e i popoli
del nord. Gli altopiani del nord dell'Etiopia sono le aree più esposte alle siccità e alle conseguenti carestie. Erano fino all'inizio del '900 coperti di foreste, ma il disboscamento selvaggio e l'allevamento di milioni di capi bestiame li hanno rese quasi un deserto. Qui vivono e coltivano i loro campi (soprattutto il tef, una varietà di miglio che è base per la produzione del pane tipico del paese, l'injera) gli Amhara, il gruppo etico più importante del nord. Provetti cavalieri e abili agricoltori, hanno svolto un ruolo importante nella storia del paese. Sono molto religiosi e sono tra i principali seguaci della Chiesa Ortodossa Etiope che tante eredità architettoniche ha lasciato sulle isole del lago Tana e a Gondar. Vanno in giro accompagnati sempre dal fedele dula, un bastone che ha diverse funzioni: serve a trasportare i carichi più pesanti, a far riposare le braccia e a difendersi in caso di aggressioni.
Non vanno dimenticati i Falascia (gli Ebrei neri), ormai scomparsi - cioè trasferiti - dal paese. Non si distinguono dalle popolazioni che li circondano né per la lingua né per i tratti somatici, ma solo per la religione professata, l'ebraismo. Vivevano allora soprattutto di artigianato, principalmente terrecotte. La visita a uno dei loro villaggi, nei paraggi di Gondar, fu interessante per conoscere un po’ la storia e la cultura di questa gente sulla quale esistono testimonianze storiche e letterarie fin dal XV secolo e le cui vicessitudini recenti meritano di essere conosciute. A seguito delle carestie e delle repressioni del governo etiope subite alla fine degli anni '80, Israele decise di trasferirli nel proprio paese, attraverso un ponte aereo: si susseguirono così, fino al 1991, le tre operazioni denominate Mosé, Giosuè e Salomone. Vennero trasferiti in Israele circa 90.000 ebrei Falascia, l'85% della comunità presente in Etiopia.
Non vanno dimenticati i Falascia (gli Ebrei neri), ormai scomparsi - cioè trasferiti - dal paese. Non si distinguono dalle popolazioni che li circondano né per la lingua né per i tratti somatici, ma solo per la religione professata, l'ebraismo. Vivevano allora soprattutto di artigianato, principalmente terrecotte. La visita a uno dei loro villaggi, nei paraggi di Gondar, fu interessante per conoscere un po’ la storia e la cultura di questa gente sulla quale esistono testimonianze storiche e letterarie fin dal XV secolo e le cui vicessitudini recenti meritano di essere conosciute. A seguito delle carestie e delle repressioni del governo etiope subite alla fine degli anni '80, Israele decise di trasferirli nel proprio paese, attraverso un ponte aereo: si susseguirono così, fino al 1991, le tre operazioni denominate Mosé, Giosuè e Salomone. Vennero trasferiti in Israele circa 90.000 ebrei Falascia, l'85% della comunità presente in Etiopia.
I monasteri ortodossi
del lago Tana. Navigare sulle acque del lago Tana, circondati dalla tankwa cariche di legna dei locali che rientravano verso Bahr Dar dalle isole sparse in mezzo al lago, fu un'esperienza piacevole e rilassante. Le tankwa sono canoe costruite con fasci di piante di papiro legate insieme, fragili all'apparenza, ma leggere e in grado di trasportare carichi considerevoli. Noi non navigavamo per trasportare legna, come quasi tutte quelle che avevano attorno, ma per raggiungere alcune chiese, di grande importanza storica e religiosa, che furono costruite sulle isole del lago. Il lago Tana è enorme e la navigazione era lenta e quindi non avevamo certo il tempo per vistarle tutte. Scegliemmo le più vicine al luogo d'imbarco (Bahr Dar) e, tra queste, la più importante: Ura Kidane Meret, sulla penisola di Zege. La penisola si presentò nel suo massimo
splendore, sembrava addirittura di essere in una altro paese: foresta rigogliosa, molti uccelli, pace e silenzio, veramente molto bella. Ancora una volta potemmo godere dei vantaggi della difficile situazione politica: come al solito nella visita eravamo soli con la nostra guida. I preti aprirono la porta della chiesa solo per noi e, come in quella di Debre Berhan Selassie a Gondar, ci trovammo di fronte all'intero compendio della iconografia religiosa ortodossa. La chiesa custodiva anche una vasta collezione di corone e croci antiche in argento e molti altri strumenti sacri, come turiboli e ostensori. Ci mostrarono paramenti sacri e una nutrita serie di testi e manoscritti. Visitammo poi altri due monasteri sulla penisola di Zede, ma onestamente non ricordo i loro nomi. Ricordo però di aver provato la stesse emozioni.
Il monastero di Ura Kidane Meret |
I grandi laghi della Rift Valley. La Rift Valley con i suoi laghi non è una prerogativa del solo Kenya. A nord del Kenya la Rift prosegue in territorio etiopico e, anzi, proprio in Etiopia dà origine, dopo il Vittoria, ai laghi più estesi. I danni arrecati dalla siccità che imperversava nel paese da alcuni anni erano evidenti: le rive si erano ritirate di diverse decine di metri e avevano lasciato scoperte aride distese di terra che fino a poco tempo prima erano sommerse. Non mancavano tuttavia i soliti abitanti dei laghi africani: gli uccelli (aironi, aquile di mare, cormorani, pellicani, fenicotteri), i coccodrilli e gli ippopotami. Purtroppo pochissimi di questi laghi sono immuni dal flagello della bilharzia. Da nord a sud visitammo Ziway, Langano, Abiata e Shala, Awasa, Abaya, Chamo. Tra tutti quest'ultimo, che navigammo per alcune ore circondato da nervosi ippopotami e placidi coccodrilli, mi sembrò il più bello.
I popoli del sud e della valle dell'Omo. Il sud dell'Etiopia è un paese a parte rispetto la nord, o viceversa. In ogni caso tra nord e sud tutto cambiava: il paesaggio diventava più verde, c'era più vegetazione, pioveva di più, decisamente troppo. E cambiava soprattutto la gente. Il sud del paese, in modo particolare la valle del fiume Omo, ci appariva davvero come un "crogiolo di razze" diverse. Non dico che le regioni del sud che attraversavamo apparissero come le aveva conosciute Vittorio Bottego, che vi condusse spedizioni di ricerca fin dalla fine dell'800, tuttavia gli stranieri bianchi che allora transitavano da quelle parti erano veramente rari, e suscitavano nella gente curiosità e interesse. Oggi chi si reca in quella regione lamenta a volte ostilità e sempre esose richieste di denaro per entrare nei villaggi o per poter scattare foto.
Dopo l'esperienza vissuta al campo profughi di Soddo ci spingemmo verso sud giungendo ad Arba Minch (Quaranta Sorgenti) e quindi a Konso, dove venimmo in contatto con l'omonima popolazione: i Konso. Hanno villaggi bellissimi e sono ottimi agricoltori e artigiani. Coltivano mais, sorgo, fagioli, patate, banane, caffè e cotone, prodotti che vendono nei grossi e animati mercati dove si incontrano con le popolazioni vicine, dedite alla pastorizia. I Konso sono anche bravi artigiani: carpentieri, fabbri, abile e fantasiosi tessitori, vasai, lavorano, con abilità, anche la pietra. Una manifestazione caratteristica dei Konso che ci colpì profondamente furono i Waga, piccoli totem che si innalzano nei campi negli incroci dei sentieri. Sono statue di legno corrose dalla pioggia e del tempo e rappresentano la manifestazione più evidente del culto degli antenati. Raccontano la vita, la storia, il passato di un morto importante, di un eroe. L'antenato è al centro del gruppo di statue, circondato dalle mogli. I nemici e gli animali feroci uccisi dall'eroe sono ai margini del gruppetto di statue.
A Jinka vedemmo gli Ari vendere i loro prodotti. Sono agricoltori e artigiani, ma, soprattutto provetti apicoltori.
I Karo mostravano i volti affrescati con ocra, calce bianca, con brace di carbone e di legno.
Ci stupirono i costumi degli Hamer, soprattutto delle donne, che in realtà reputano i vestiti quasi inutili. Si abbigliano infatti di sole pelli lucidate e si adornano il corpo con conchiglie provenienti dal lontano mar Rosso. Portano elaborate acconciature.
Le piogge ci sorpresero nella bassa valle dell'Omo, in particolare al parco nazionale Mago, una riserva che ospita una fauna selvatica molto particolare: molte specie di uccelli, grandi kudu e scimmie Kolobus (le grandi scimmie bianche e nere). Le piogge ci resero pressoché impossibili gli spostamenti in fuoristrada nel parco, impedendoci di raggiungere il villaggio Mursi più vicino. L'unico rappresentate della famosa etnia le cui donne si inseriscono un grande disco di legno nel labbro inferiore e nei lobi delle orecchie, fu un giovane, armato di fucile, che ci aiutò a tirar fuori il nostro fuoristrada da una buca fangosa nella quale era sprofondato. Dopo giorni di pioggia battente fummo costretti a far ritorno al nord e anche risalire dalla piana alluvionale dell'Omo ai 1.500 metri di Jinka fu un'impresa.
Nel ritorno verso Addis Abeba esplorammo l'area attorno ad Awasa e all'omonimo lago, il più frequentato dagli uccelli migratori. Incontrammo numerose steli di pietra sparse qua e là, con incisioni che raffiguravano guerrieri a cavallo. Coprivano tombe di eroi e persone importanti.
Dopo l'esperienza vissuta al campo profughi di Soddo ci spingemmo verso sud giungendo ad Arba Minch (Quaranta Sorgenti) e quindi a Konso, dove venimmo in contatto con l'omonima popolazione: i Konso. Hanno villaggi bellissimi e sono ottimi agricoltori e artigiani. Coltivano mais, sorgo, fagioli, patate, banane, caffè e cotone, prodotti che vendono nei grossi e animati mercati dove si incontrano con le popolazioni vicine, dedite alla pastorizia. I Konso sono anche bravi artigiani: carpentieri, fabbri, abile e fantasiosi tessitori, vasai, lavorano, con abilità, anche la pietra. Una manifestazione caratteristica dei Konso che ci colpì profondamente furono i Waga, piccoli totem che si innalzano nei campi negli incroci dei sentieri. Sono statue di legno corrose dalla pioggia e del tempo e rappresentano la manifestazione più evidente del culto degli antenati. Raccontano la vita, la storia, il passato di un morto importante, di un eroe. L'antenato è al centro del gruppo di statue, circondato dalle mogli. I nemici e gli animali feroci uccisi dall'eroe sono ai margini del gruppetto di statue.
A Jinka vedemmo gli Ari vendere i loro prodotti. Sono agricoltori e artigiani, ma, soprattutto provetti apicoltori.
I Karo mostravano i volti affrescati con ocra, calce bianca, con brace di carbone e di legno.
Ci stupirono i costumi degli Hamer, soprattutto delle donne, che in realtà reputano i vestiti quasi inutili. Si abbigliano infatti di sole pelli lucidate e si adornano il corpo con conchiglie provenienti dal lontano mar Rosso. Portano elaborate acconciature.
Le piogge ci sorpresero nella bassa valle dell'Omo, in particolare al parco nazionale Mago, una riserva che ospita una fauna selvatica molto particolare: molte specie di uccelli, grandi kudu e scimmie Kolobus (le grandi scimmie bianche e nere). Le piogge ci resero pressoché impossibili gli spostamenti in fuoristrada nel parco, impedendoci di raggiungere il villaggio Mursi più vicino. L'unico rappresentate della famosa etnia le cui donne si inseriscono un grande disco di legno nel labbro inferiore e nei lobi delle orecchie, fu un giovane, armato di fucile, che ci aiutò a tirar fuori il nostro fuoristrada da una buca fangosa nella quale era sprofondato. Dopo giorni di pioggia battente fummo costretti a far ritorno al nord e anche risalire dalla piana alluvionale dell'Omo ai 1.500 metri di Jinka fu un'impresa.
Nel ritorno verso Addis Abeba esplorammo l'area attorno ad Awasa e all'omonimo lago, il più frequentato dagli uccelli migratori. Incontrammo numerose steli di pietra sparse qua e là, con incisioni che raffiguravano guerrieri a cavallo. Coprivano tombe di eroi e persone importanti.
Nessun commento:
Posta un commento