sabato 8 febbraio 2014

Viaggio in ARGENTINA NordEst + Brasile, Paraguay, Uruguay

Paesi attraversati: Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay
Itinerario: 
Le cascate dell'Iguaazù (lato Brasiliano)
in Argentina: cascate dell’Iguazzù (lato argentino), missione gesuitica di San Ignacio Minì, Posadas,  Resistencia, Chaco,  mausoleo del gauchito Gil, Mercedes, Colonia Pellegrini, riserva Esteros del Iberà, saltos del Moconà, Iguazù, Buenos Aires
in Brasile: cascate dell’Iguazzù (lato brasiliano); 
in Paraguay: Encarnaciòn, missioni gesuitiche di Trinidad e di Jesùs de Taravangüe
in Uruguay: Colonia del Sacramento
Periodo: marzo-aprile 2012
Durata: 3 settimane
Ne parlo nei libri: Il Confine Immaginario e 
Il gatto buddhista

Un viaggio sorprendente perché di questa regione poco conoscevo oltre alle cascate dell’Iguazù. Non conoscevo la grande e fantastica riserva Esteros del Iberà, circondata da pianure punteggiate da mandrie di bestiame al pascolo seguite dai gauchos a cavallo. Pensavo che tutto questo fosse prerogativa delle pampas delle pianure centrali e solo di quelle.
Avevo scoperto poco prima di partire i Saltos del Moconà, un fenomeno naturale a mio avviso unico.
Conoscevo già la manifestazione culturale e religiosa delle animitas, ma non immaginavo che potesse assumere  le dimensioni riscontrate nel mausoleo del gauchito Gil, dalla parti di Mercedes.
E soprattutto non avevo mai conosciuto una prova di convivenza  tra gli immigrati europei e i popoli che abitavano  la regione prima del loro arrivo. Un tentativo facilitato, certo, dalla dimensione di un territorio impervio e isolato e forse aiutato dal caso. Forse quando si scoprirà il petrolio da queste parti o l’industria del legname si interesserà anche del Chaco oltre che delle foreste dell’Amazzonia e dell’Africa equatoriale, sarà la fine del tentativo. Allora i Toba, i Wichi e Mocovì dovranno andarsene o finiranno nelle riserve come i nativi dell’America del nord.
Ma per fortuna al momento non ho visto discriminazioni evidenti, a parte la povertà e l’isolamento, nei loro riguardi. E’ già qualcosa. 
A conclusione del viaggio, o all’inizio, almeno tre giorni a Buenos Aires non possono mancare.

Le cascate dell’Iguazù: cosa si può aggiungere a quanto già detto su questa meraviglia della natura, se non banali ripetizioni? Si può aggiungere una triste notizia, poco nota, riportatami dagli abitanti di Puerto Iguazù. La stagione migliore per visitare le cascate, quella delle piene, quella che le mostra nelle loro massimo splendore, quella nella quale sfoggiano la maestosa bellezza che abbiamo ammirato nel film Mission pare non esista più. Andrebbe da marzo e aprile, periodo nel quale le piogge del Brasile ingrossano il fiume Iguazù. 

Cascate di Iguazù - Argentina
Ma purtroppo in Brasile, a monte delle cascate, sono state costruite  negli ultimi anni una serie di dighe che regolano il flusso delle acque e così addio alle piene che formavano il fronte delle cascate, teoricamente lungo più di due km. Dopo questo viaggio continuo a chiedere a quanti sono andati alle cascate (e sono molti) quanta acqua ci fosse al momento della loro visita. In tanti mi dicono: “In effetti non ce n’era molta”. Siamo stati sulle cascate sia all’inizio che alla fine del viaggio e, a distanza di una ventina di giorni, la differenza di portata si vedeva a occhio. Le foto che ho scattato, poi, sono la prova inconfutabile. Spero solo che chi mi ha raccontato tutto questo fosse un tantino pessimista e che le scene di Mission possano ripetersi di fronte ad altri occhi. Comunque, con poca o tanta acqua, rimane una visita indimenticabile, da non perdere, anche se ormai troppo turisticizzata. Ad esempio, la passerella che porta anche i più pigri fin sopra la Garganta del Diablo offre una vista mozzafiato, ma è un vero e proprio oltraggio estetico. E i voli degli elicotteri che dalla parte brasiliana trasportano sopra le cascate i turisti più facoltosi e ancora più pigri, sono veramente indisponenti. Un motivo sufficiente per dichiarare guerra al paese vicino, secondo me, visto che l’Argentina li ha sospesi da tempo.Rimane un dubbio amletico: è più bello il lato argentino o quello brasiliano? Quale scegliere? La risposta per me è ovvia e non pone dubbi, ma non la esprimo, perché vanno visitate entrambe, in quanto molto diverse tra di loro. Per passare da una parte all’altra, cioè dall’Argentina al Brasile o viceversa, basta un taxi e mezz’ora di tempo. Il ponte c’è già e per gli italiani non serve il visto. Per cui… perché porsi la domanda?

Le missioni dei Gesuiti: richiamo ancora alla memoria Mission, perché la visita alle più belle missioni (o Riduzioni) gesuitiche del Sudamerica non poteva avvenire senza avere negli occhi le scene del film e nel cuore le struggenti musiche di Moricone. Rimando a questo sito per le notizie su una delle pagine più vergognose della politica europea in Sudamerica, nella quale ebbe un importante ruolo anche la Chiesa di Roma: missioni gesuitiche. Le missioni sono parecchie, sparse tra l’Argentina, il Brasile, il Paraguay e la Bolivia. Nel tempo hanno subito devastazioni e incuria e molte sono ormai poco più di macerie o luoghi della memoria. Ma alcune sono rimaste e, dopo essere state restaurate con cura, si stagliano tra i campi massicce ed eleganti. Contrastano il verde della campagna con il rosso vivo delle loro pietre, mostrano un’architettura raffinata, una vera e propria derivazione locale del barocco spagnolo. Altari, colonne, nicchie e pulpiti di pietra hanno poco da invidiare alle cattedrali europee dello stesso periodo. 


La missione gesuitica di San Ignacio Minì - Agentina
Delle missioni rimaste in buono stato di conservazione solo una si trova in Argentina, quella di San Ignacio Minì, a nord di Posadas. Le altre due si trovano in Paraguay. Sono quella di Jesùs de Taravangüe e la più bella, quella di Trinidad, entrambe facilmente raggiungibili in auto da Posadas. In mezza giornata si può andare e tornare. Noi prendemmo il taxi per evitare il caos e le interminabili file di auto, camion e persone in attesa di attraversare il confine tra Argentina e Paraguay, in un senso e nell’altro. Fu una scelta intelligente.
Scultura a Resistencia - Argentina

Resistencia: Non sembravano esserci ragioni per fermarsi a Resistencia. Nelle nostre intenzioni era solo una tappa, invece la città si dimostrò vivace e accogliente, molto verde e ordinata. Al turista convenzionale non ha molte attrazioni da offrire, ma la prospettiva cambia quando si scopre che Resistencia si caratterizza, ufficialmente, come la Città delle sculture.  Perché ogni due anni, a luglio, vi si tiene la Bienal Internacional de Esculturas. Per l’occasione vi giungono artisti da ogni parte dell’Argentina e anche dall’estero. Quando la manifestazione chiude, poche delle loro opere vengono raccolte nel Museo de Escultura o in qualche altro ad esse destinato. Ormai sono troppo numerose. Di solito quindi rimangono sui marciapiedi e nelle piazze della città che proprio per questo viene chiamata La Città delle sculture

Quello che meraviglia non è che ci siano sculture a Resistencia – ce ne sono in ogni città – ma il loro numero: sono ormai più di cinquecento. E cinquecento sculture nel centro di una città di medie dimensioni significano presenza constante in ogni angolo di strada. Diventano una componente ineludibile del panorama cittadino e dove c’è gente ci sono sculture e dove ci sono sculture c’è gente. Discrete e silenziose invecchiano tra persone che vanno e vengono, ormai abituate alla loro presenza.

Rio Bermejito: si tratta di un piccolo paese perso in mezzo al Chaco (vedi più avanti), dove prendemmo alloggio nell’albergo di Carlos Schumann, che fu anche la nostra guida (altamente consigliabile, il migliore). Carlos ci mise a disposizione l’unico albergo rotondo nel quale io abbia mai abitato, una specie di trullo. Rio Bermejito fu la base di partenza per le escursioni che organizzammo nella zona, tra le quali ritengo imperdibile la navigazione sul rio Bermejito (stesso nome del paese, ma questo è un fiume) verso la confluenza con il grande rio Bermejo, dove una enorme laguna ospita un grande quantità di uccelli. Come pure è imperdibile l’esplorazione della foresta del Chaco e la visita alle comunità Toba che ci vivono. Rio Bermejito sorge isolato ai bordi della foresta e per raggiungerlo bisognava allora percorrere, lasciato l’asfalto della strada che corre verso nord, quattordici chilometri di strada polverosa. Non era un limite da poco, anche se quattordici chilometri sembrano pochi, perché aveva il fondo di terra e quando arrivava un temporale si trasformava in una striscia di fango, una poltiglia tenace e appiccicosa che lasciava passare solo i 4x4 più potenti. Per tutti gli altri mezzi di trasporto c’era solo da attendere che trascorresse almeno una giornata di sole prima di potersi muovere. Tutto sperimentato personalmente. Da allora questi ultimi quattordici km saranno stati asfaltati?

Il Chaco: Chaco non è solo il nome della provincia, ma con l’aggiunta di un ‘Gran’ diventa una sterminata foresta, in parte umida e in parte secca, che si estende dal Paraguay fino all’Argentina centrale, molto più estesa dell’omonima provincia. Per comprendere cosa significhi vivere nel Gran Chaco, va aggiunta qualche informazione su questa foresta unica al mondo. C’è poca ombra nel Chaco, gli alberi di alto fusto non sono numerosi. Così la luce del sole può raggiungere il suolo e consentire la crescita di un'infinità di piante che generano un groviglio inestricabile, inaccessibile. 

Il Chaco - argentina
Fa molto caldo nel Chaco, molto, quasi tutto l’anno e, come sappiamo, le piante che devono resistere al caldo hanno più spine che foglie. Così quasi tutte le piante del Gran Chaco sono spinose, terribilmente spinose. Molte specie di cactus e di ficus dalle forme originali e sinuose - e su queste le spine sono d’obbligo - si mescolano ad alberi e cespugli rigogliosi e verdissimi, apparentemente innocui, ma dotati di spine terribili, alcune tanto piccole da risultare quasi invisibili, altre lunghe un palmo. Queste ultime, usate come pugnali, potrebbero uccidere una persona. Sembrava esserci una sola pianta senza spine nel Chaco, che assomiglia al ficus Benjamin, e Carlos – la nostra guida - ce la mostrò con orgoglio. Dopo aver fatto attenzione per giorni a dove posavamo le mani e i piedi, accarezzammo le foglie e i rami della pianta senza spine come fossero le mani e le braccia di un amico non incontrato da tempo. Ci si sposta solo su sentieri ben tracciati, non si attraversa la foresta fuori da essi, perché il Chaco è impenetrabile. El Impenetrable, come viene chiamato ufficialmente.

La gente del Chaco: Abuela – ‘nonna’ in spagnolo - Tita,” annunciò con rispetto Carlos, presentandoci la vecchia signora impegnata a filare. La donna ci sorrise, scambiò qualche parola con lui, poi riprese il suo lavoro, porgendo le mani per mostrarci la sua straordinaria bravura di filatrice. 

Nonna Tita - regione del Chaco - Argentina
Nella  mano sinistra teneva la matassa della lana grezza, mentre tra il pollice e l’indice della destra faceva scorrere verso il basso il filo che andava ad arrotolarsi sul fuso. I gesti erano veloci, precisi e sempre uguali, gesti ‘antichi’ direbbero con parole scontate i depliant turistici. Il volto, solcato da rughe profonde, incorniciava due occhi scuri e vivaci che forse ridevano degli stranieri tanto meravigliati del suo lavoro. Aveva un chioma di capelli folti e bianchi, raccolti in uno chignon tenuto da un nastro rosso fuoco. A nonna Tita piacevano senz’altro i colori, perché portava tutto l’arcobaleno sulla giacca e sulla gonna. Un  paio di scarpe rosse completavano l’abbigliamento. Alle sue spalle sorgeva la povera casa di famiglia, accanto a lei una figlia, o una nuora, teneva in braccio un bambino di pochi anni. Gente poverissima. Attorno ai nostri piedi razzolava una cucciolata di cagnetti scheletrici. Abita poca gente nel Chaco, gli ultimi indigeni Toba, Wichi e Mocovì. A questi popoli nativi si aggiungono quelli che in passato si trasferirono qui dalla regione di Salta e che cercano di praticare un faticoso allevamento nelle aree strappate alla foresta. Li chiamano Norteños, quelli che vengono dal nord. Prima di arrivare nel Chaco conoscevo i gauchos come i mandriani della pampa e delle pianure dell’Argentina centrale. Li ricordavo a cavallo al seguito di mandrie sterminate sullo sfondo di spazi piatti e battuti dal vento. O lungo i recinti che delimitano i confini delle fattorie. Invece nel Chaco i Norteños li vedevo sbucare a cavallo da dietro un cactus con un vitello al lazo. Ma erano sempre loro, i cow boy dell’America Latina, con il cappello a tesa larga, i calzoni di cuoio e gli speroni agli stivali. E al di là della retorica, dopo aver fatto visita a una loro fattoria, non mi sembrava che conducessero un vita molto più agiata di quella di Tita e della sua famiglia. Nel Chaco vivono anche molti immigrati provenienti dagli altri continenti, come Carlos, discendente da una famiglia di origine tedesca, gran conoscitore della regione, guida specializzata e gestore di un piccolo albergo a Rio Bermejito, nel quale prendemmo alloggio. ‘Dove ho già visto questa donna?’ mi domandavo. Perché il suo volto mi sembrava noto, anche se era difficile che io potessi conoscere Tita, di etnia Toba, abitante nella provincia del Chaco, Argentina del nord. ‘Dove l’ho vista?’ continuavo a domandarmi, scrutando un po’ il suo viso e un po’ le pagine delle mie guide alla ricerca di notizie più precise sui Toba. Carlos intanto ci raccontava dei loro costumi e delle loro abitudini. I Toba erano un tempo una popolazione tradizionalmente guerriera, ma dopo l’invasione dei conquistatori spagnoli si sono trasformati in un popolo pacifico, dedito alla caccia e all'allevamento e, nelle zone più vicine alla ‘civiltà’, all'artigianato. Manca l’agricoltura tra le loro attività, perché nel Chaco non si coltiva quasi nulla a causa del terreno troppo arido e povero. Le donne producono ceste e cappelli di paglia, gli uomini vasi e oggetti di terracotta. Tita fila la lana. Parlano una lingua propria che si è mantenuta intatta nel tempo e rispettano antiche tradizioni, tramandate dagli anziani ai quali tutti riservano un riverente rispetto. Come a nonna Tita. ‘Eppure mi sembra di conoscerla.’ Non riuscivo a capacitarmi. Poi trovai la risposta. C’era una sua foto sulla Lonely Planet, una foto simile a quelle che stavo scattando io. Qualche ruga in meno, i capelli ancora più grigi che bianchi, un vestito pieno di colori diversi, ma era lei. Le mostrai la foto e lei sorrise facendomi capire che ne era a conoscenza. In mezzo alle spine del Chaco, senza volerlo, avevo incontrato una starDopo aver salutato Tita ci dirigemmo al vicino villaggio. Era domenica e potemmo così venire a contatto con l’espressione più evidente della religiosità dei Toba: la musica. Sono cristiani  pentecostali. Secondo Wikipedia il Movimento Pentecostale  è “una delle denominazioni cristiane afferenti all'evangelicismo protestante. L'aggettivo pentecostale fu usato per le prime volte intorno al 1880 tra alcune correnti interne alle chiese metodiste e battiste nord americane che ponevano speciale enfasi sull'effusione dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, come descritto negli Atti degli Apostoli.” All’arrivo, fummo accolti da un canto proveniente dalla piccola chiesa, un edificio uguale a tutte le case nelle dimensioni e nella costruzione, muri bianchi e tetto di lamiera. Sopra l’entrata una scritta sbiadita dalla pioggia diceva: ‘Iglesia de Dios Pentecostal.’ Fummo invitati ad entrare. Dietro all’altare un officiante recitava preghiere e intonava canzoni sulle note di una chitarra e una donna lo accompagnava con la voce. Nella chiesa c’era solo un’altra ragazza con due bambine. Salutammo i presenti – cinque in tutto – e ci accomodammo insieme con loro. L’officiante riprese preghiere e canti, inframmezzandoli con ringraziamenti a Dio per la nostra visita. La domenica è consacrata al Signore e avrebbero continuato le funzioni e i canti fino a al tramonto, ci disse Carlos. La sera stessa, per intercessione della nostra guida, fummo invitati ad un grande raduno delle comunità Toba della regione, una manifestazione religiosa organizzata a qualche chilometro da Rio Bermejito. Era una fortunata occasione per conoscere un po’ più a fondo questo popolo che vive mescolato alla gente di origine ispanica del Chaco e che mantiene e pratica i suoi costumi con convinzione e orgoglio. Quando arrivammo al villaggio trovammo un bel numero di persone radunate in un ampio spiazzo. Era una festa ed erano vestiti con eleganza, soprattutto le donne. I giovani indossavano camicie e pantaloni larghi da cui pendevano lunghe frappe colorate. Da una parte era stato montato un palco sul quale era schierata l’orchestra. Alle sue spella gracchiava un incerto impianto di amplificazione. Presenziavano alcune persone che, da come venivano salutate e riverite, dovevano essere importanti. Ogni tanto si aggregavano alla festa gruppetti di nuovi partecipanti che Carlos ci spiegò essere rappresentanze delle comunità Toba dei dintorni, guidati dal loro pastore. Il pastore  per i Pentecostali è, più o meno, come il parroco per i Cattolici. Ogni gruppo in arrivo passava a salutare le comunità presenti, stringendo le mani di tutti ad una ad una. Intanto sul palco si alternavano oratori diversi – molti erano pastori delle diverse comunità – che si rivolgevano ai presenti per accoglierli e ringraziarli, mentre l’orchestra taceva. Alcuni parlavano in spagnolo, ma la maggior parte si esprimeva in lingua Toba. Verso le dieci il tenore della manifestazione mutò all’improvviso. Un pastore salì sul palco e attaccò un discorso che attirò l’attenzione di tutti i presenti che tacquero all’improvviso, ma non espresse i rituali saluti, come avevano fatto quelli che l’avevano preceduto. Le sue parole, rotte dalla commozione, salivano in cielo nel silenzio della notte stellata. Erano preghiere che invocavano il perdono e la benedizione di Dio, erano confessioni pubbliche espresse in nome di tutti i fedeli per le mancanze e i peccati commessi nella vita quotidiana, pubbliche ammende per l’inadeguatezza dell’uomo al cospetto della benevolenza divina. La mia sorpresa non derivava dalle parole e dalle invocazioni del pastore, ma dal comportamento dei presenti che partecipavano all’omelia sottolineandone, con mormorii di accettazione, i passaggi che più li accusavano. Molti stavano a capo chino con le braccia alzate in atteggiamento colpevole e di  rimprovero verso se  stessi. Accettavano le reprimenda del pastore, ascoltavano a mani giunte e si battevano il petto in atto di contrizione e pentimento. Altri erano inginocchiati, le mani e la fronte nella polvere, dolendosi per le mancanze di cui erano chiamati a rendere ragione. E tutti, dico tutti, piangevano, alcuni addirittura singhiozzavano. Le lacrime rigavano i volti di vecchi e giovani, uomini e donne. Regnava in quell’angolo del Chaco una disperazione comune a cui ognuno, all’apparenza, portava il suo personale contributo di dolore e di cordoglio. Ero affascinato da quanto avveniva davanti ai miei occhi e con dubbia delicatezza mi avvicinavo a quei volti per avere conferma che le lacrime fossero vere. Per fortuna nessuno mi degnava di attenzione, sembrava che nemmeno mi vedessero. All’improvviso il pastore tacque, sembrò che accuse  e rimproveri fossero terminati. In quel preciso istante l’orchestra attaccò ad alto volume una musica allegra e scanzonata, molto ritmica, che esplose all’improvviso nella spianata. Per rendere l’idea, assomigliava ad un pezzo rock, anche se un po’ ruspante. Non fu il palco a sorprendermi ancora di più, ma la piazza. Alla prima nota della musica allegra, tutti si ripresero dal rammarico, quelli inginocchiati balzarono in piedi. Dolore finito, pianto finito. Basta rassegnazione e cordoglio. Si lanciarono tutti insieme in una corsa circolare attorno ad un immaginario punto centrale della piazza. Non era una corsa libera o disordinata, tutti correvano all’unisono, a tempo di musica, come in un ballo scandito da una coreografia precisa. Si erano raccolti in file ordinate che non si scomponevano nella corsa. Così ad ogni giro davanti a me sfilavano sempre gli stessi volti e le stesse mani alzate in segno di giubilo, sempre nello stesso ordine. I sorrisi sembravano confermare che il perdono era arrivato, dopo la confessione i peccati erano mondati. Una giornata di sole era bastata per asciugare il Chaco e, purtroppo, tanti piedi a calpestare la terra sollevavano un polverone terribile che annebbiava sempre di più il volto e la gioia di tutti, oltre che la mia vista. Dopo alcuni giri dei fedeli corridori non fui più in grado di distinguere alcunché. All’improvviso com’era partita, la musica tacque e il pastore riprese l’omelia. Quasi tutti si inginocchiarono e alzarono le braccia  in atteggiamento penitente. Come prima. E, davanti al mio stupore, ricominciarono a piangere. Tutto come prima. La sequenza cordoglio-giubilo-cordoglio-giubilo venne ripetuta una decina di volte, fino a quando qualcuno cominciò ad organizzare i tavoli per la cena e noi ce ne andammo. 

Le animitas e il mausoleo del gauchito Gil: Nel luogo dove capita una morte crudele o ingiusta - una mala muerte - nasce in America Latina un'animita. Sorta per misericordia e pietà della gente, una'animita è un cenotafio popolare che serve ad onorare l’anima di un defunto. Dove il morto terminò incolpevole la vita terrena, là sorge una piccola casa o un tempietto, costruiti dai congiunti ad immagine delle case e delle chiese dei vivi. A volte sorgono veri e propri mausolei. Vi abbondano bandiere, croci e candele che mani pietose cercano di mettere al riparo dal vento e dalla pioggia. Nelle animitas messaggi e scritte trasmettono le suppliche e le richieste di aiuto all’anima del defunto che la mala muerte ha elevato al cielo e al privilegio di poter intercedere presso Dio in favore dei devoti che lo onorano. Ex voto di ogni forma e dimensione, piccoli doni, rosari, corone e targhe di legno, marmo, metallo e plastica si moltiplicano nel tempo attorno ai luoghi venerati, per ringraziare il defunto delle grazie ricevute. Tanti sono i fiori che adornano le animitas, rinnovati di continuo da fedeli, parenti e amici. La gente di fronte alle animitas parla con il defunto, lo prega, piange, sistema i fiori e le candele. Le animitas si possono trovare in ogni luogo: di fianco ad un cimitero, ai lati della strada, nella pianura assolata o su una collina. Scoprite qui la storia del Gauchito Gil. Ovunque. Lungo le strade della regione incontravamo molte animitas del Gauchito (piccolo gaucho) Gil, numerose perché nacque e morì in questa regione, vicino a Marcedes. 

Una Animita del gauchito Gil sulla statale 16 - Argentina
Bandiere rosse annunciavano da lontano una cappella (a volte piccola, a volte enorme) che qualcuno aveva costruito per lui, con ritratti, immagini, statue, offerte e fiori di ogni tipo e dimensione. Ex voto, targhe e preghiere, deposti da mani pietose dentro la cappella, lo ringraziavano per le grazie ricevute. Passando davanti a loro i camionisti suonavano il clacson, segno di buon augurio. E così facevo anch’io. Spettacolare è infine il suo mausoleo, dove si dice ci sia la sua tomba. Si tratta di un minuscolo agglomerato di capanne e casette piene di negozi che vendono cibi e ogni sorta di cianfrusaglie dedicate al Gauchito Gil: candele, ritratti, statue, rosari, bandiere, magliette, saponi, scatole. Non c’erano solo vecchi a manifestare la loro devozione al gaucho, ma tanti giovani, anche famiglie con figli al seguito. Si avvicinavano riverenti alla sua presunta tomba, accendevano candele e ceri e si fermavano in raccoglimento e preghiera. Poi se ne andavano dopo aver fatto una carezza alla sua statua. Molti avevano gli occhi lucidi. Una manifestazione popolare genuina e sincera. Il gauchito Gil gode nella regione di una popolarità enorme e con la venerazione, non ufficiale, quasi pagana  che gli rivolge la gente (Gil non è un santo o un beato, non rappresenta nulla nell’agiografia cristiana) anche la Chiesa ha dovuto venire a patti. 

La riserva Esteros del Iberà: è stata una delle più clamorose sorprese della mia vita. Credo di conoscere abbastanza bene la geografia e se mi avessero detto dell’esistenza di una riserva naturale di tale bellezza e dimensione senza che io ne fossi a conoscenza prima di cominciare la progettazione del viaggio, mi sarei messo a ridere. E la mia ignoranza mi ha fatto prevedere una permanenza nella riserva di soli due giorni, decisamente pochi. Gli Esteros del Iberá sono un sistema di paludi, acquitrini, stagni, canali e torbiere che vanno a formare una enorme zona umida, dicono la seconda più grande zona umida della terra dopo il Pantanal brasiliano. La notizia più sorprendente è che le acque degli Esteros sono di origine pluviale, non ci sono fiumi immissari o emissari. La superficie degli Esteros è enorme: 20.000 km², il che significa che occupano un buona parte della provincia di Corrientes. Ovviamente un simile paradiso ospita una quantità incredibile di specie animali, molte delle quali endemiche e proprio per questo più esposte al rischio di estinzione. Infatti, se l’ecosistema delicatissimo degli Esteros dovesse alterarsi (e ovviamente le minacce sono tantissime) la fauna che dipende da questo habitat sarebbe condannata. 


Caimano nell'Esteros del Iberà - Argentina
Arrivare a Colonia Pellegrini – piccolo ed ecologico paese punto di partenza delle visite alla riserva – allora era dura perché la strada non era asfaltata e più di 100 km di strada sterrata, che diventa fango quasi insuperabile se piove, era un buon “filtro” all’accesso dei visitatori. Ma stavano cominciando ad asfaltarla… Ribadisco: in pochi luoghi al mondo ho visto una tale diversità biologica. Il numero di specie rappresentate nelle paludi degli Esteros e a portata delle nostre macchine fotografiche era altissimo e comprendeva mammiferi, uccelli, rettili, per noi parlare dei fiori, soprattutto orchidee. 

I Saltos del Moconà: un’altra grande sorpresa. Se le cascate dell’Iguazù sono spettacolari e famose, queste cascate (i Saltos) sconosciute ai più sono quasi altrettanto spettacolari. Difficile descriverle, perché sono il risultato di sconvolgimenti tellurici che in epoche lontane hanno “spaccato” il letto del fiume Uruguay per una lunghezza di più di 3 km. Il risultato è che oggi una cascata di 3 km fa precipitare l’acqua dalla metà di sinistra del fiume (se così possiamo dire) rimasta in alto a quella di destra, precipitata in basso con un salto di una ventina si metri. Un spettacolo straordinario e unico. 


I saltos del Moconà - Argentina
Colonia del Sacramento (Uruguay): una cittadina molto, molto carina, piazzata al di là del rìo de la Plata, proprio di fronte a Buenos Aires. Ha avuto una storia travagliatissima che l’ha rimbalzata dalla dominazione del Brasile e quella Argentina almeno una decina di volte, prima di entrare a far parte definitivamente del territorio dell’Uruguay. Presenta l’architettura tipica del ‘600, con strade acciottolate racchiuse all’interno di una cerchia di mura di cui rimangono ampie vestigia. Pur senza vantare palazzi importanti, il suo centro storico è costituito da un impianto di dimore originali del secolo XVII e soprattutto vanta due piazze, molto vaste per le dimensione della città, che ospitano una fantastica collezione di alberi secolari. Vale sicuramente la visita di una giornata, partendo dal molo di Puerto Madero (il vecchio porto di Buenos Aires.) Basta un’ora di traghetto veloce per andare e un’altra per tornare. 

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