Pastori, Siria |
In Siria: Damasco, Bosra, Malula, Homs, Krak dei Cavalieri, Ugarit,
Apamea, Hamah, Serjilla, Maarrat an-Numan, Ebla, Qalb Lawzah, Qalah Siman,
Aleppo, Rusafah, Dayr az-Zawr, Palmira
In Libano: Beirut
Periodo: aprile-maggio 2000
Durata: 2 settimane
Il Venerdi di Repubblica n.1364
(09.05.2014) riportava un articolo dal titolo angosciante: Primavera araba, inverno dei monumenti. Si trattava di una documentata
rassegna sui danni e i furti che il patrimonio archeologico di Tunisia, Libia,
Egitto e, soprattutto, Siria sta subendo da quando sono in atto in questi paesi,
con alterne vicessitudini, le cosiddette “primavere arabe.” Uno scenario
agghiacciante, particolarmente amaro per me.
Sono paesi che ho visitato prima di questi sconvolgimenti che tante speranze e
altrettante delusioni hanno suscitato, quando, nonostante le evidenti storture
di società antidemocratiche e corrotte, almeno il patrimonio storico e
culturale sembrava preservato, se non altro per evidenti interessi economici. Quasi
metà dell’Egitto vive di turismo e il turismo in Egitto, a parte il mar
Rosso, che va a fare se non ad ammirare
gli antichi siti dei faraoni e i musei? E la Libia? Chi andrà mai più in questo
paese se saranno irrimediabilmente danneggiate Leptis Magna o Sabratha? E le
città e i mosaici romani della Tunisia? E la Siria, con Palmira bombardata nel
2013 e usata come base militare dalle truppe – diciamo orde - di Assad?
La cittadella, Aleppo, Siria |
Non mi
permetto di giudicare io che vengo dall’Italia dove, anche senza la scusante
della guerra, non si riesce nemmeno a mantenere decentemente Pompei. Dico solo
che chi bombarda – per errore, tra l’altro - l’abbazia di Montecassino
(febbraio 1944), distruggendo un monastero del VI secolo o abbatte a cannonate per
sfida all’Occidente i Buddha di Bamiyan antichi di 1.500 anni, non merita di
appartenere al genere umano. Perché credo che non sia mai vero che il fine
giustifica i mezzi. Punto.
Così ho deciso di raccontare un po’ di questo paese come l'ho visto e di riportare qualche foto. Può sembrare un malinconico “come era” e nel racconto userò tristemente il passato, ma in effetti può darsi che oggi molto di quello che ho avuto la fortuna di ammirare (penso ad Aleppo, ad esempio) non esista più o possa scomparire a breve. E tutto per colpa della stupidità umana.
La città
moderna era invasa da turisti e paccottiglia varia. Il giorno dopo ci
organizzammo la giornata in modo da visitare Palmira nelle migliori condizioni
di luce, cioè al tramonto. Iniziammo pertanto dalle tombe a torre,
costruzioni alte 4 o 5 piani che davano riparo a molti loculi. Assomigliavano
ai nostri moderni cimiteri. Nella piana desertica a fianco della città ce n’erano
molte, alcune ben conservate, altre manomesse dai tombaroli. Al loro interno erano
anguste e soffocanti, difficile camminare o salire da un piano all’altro. Più
comode da visitare risultarono invece le tombe a ipogeo, scavate nel
terreno. Con il solito sistema “italiano” una giuda del posto ci offrì di visitarne
a “umma umma” un paio al momento ancora chiuse al pubblico. Erano quelle di Artaban
e Argan (spero di aver capito bene) che le nostre guide cartacee nemmeno
nominavano. Tra le tombe “ufficiali” la più bella era senz’altro quella dei Tre
Fratelli. Tutte comunque molto interessanti, perché presentavano le lapidi
di chiusura scolpite con temi spesso ripetitivi e stereotipati, come se fossero
state prodotte in serie e a volte con qualità ridotta. Segno che a Palmira
duemila anni fa una fetta non irrilevante di persone, oltre ai nobili e ai
reali, si poteva forse permettere una sepoltura in una tomba. Chiudemmo la
mattinata con la visita al museo, non eclatante, ma interessante.
Così ho deciso di raccontare un po’ di questo paese come l'ho visto e di riportare qualche foto. Può sembrare un malinconico “come era” e nel racconto userò tristemente il passato, ma in effetti può darsi che oggi molto di quello che ho avuto la fortuna di ammirare (penso ad Aleppo, ad esempio) non esista più o possa scomparire a breve. E tutto per colpa della stupidità umana.
La Siria evidenziò ai nostri occhi un’amara beffa del destino che a volte
riserva imprevedibili,
spesso tragiche, sorprese. Mentre visitavamo il paese eravamo inondati da un
asfissiate culto della personalità rivolto alla famiglia al-Assad. Enormi
manifesti ne ritraevano i rappresentanti di spicco: Hafiz al-Assad, il vecchio presidente
salito al potere nel 1971, alla sua destra il figlio Basil al-Assad, destinato
alla sua successione, morto in un incidente stradale nel 1994 e, forse per questo
destino, indicato sui manifesti come il
martire. Alla sua sinistra il figlio Bashar al-Assad, l’attuale presidente
siriano. Dopo un mese dalla nostra visita, il 10 maggio 2000 il vecchio Assad
morì e gli succedette il figlio Bashar, che ormai tutto il mondo ha imparato e
conoscere. Ebbene, oggi solo io, i miei compagni di viaggio e pochi altri siamo
in grado di rivelare al mondo che allora, sui manifesti sparsi in tutta la
Siria, Bashar era indicato come la
speranza! Fate voi!
Incontri, Siria |
I "must" di questo viaggio
(prima della guerra civile):
Damasco: ovvero l’archeologia “a portata di
mano”, nel senso che in Siria ci sono centinaia di siti archeologici,
soprattutto di origine romana e tali siti erano ancora utilizzati dalla gente.
Parliamo di edifici civili e religiosi (e non di resti nel senso letterale del
termine) ancora imponenti che culture precedenti hanno lasciato in eredità. E
che le popolazioni successive hanno modificato, ricostruito e
riutilizzato. E questo fenomeno era
evidente soprattutto a Damasco. Camminando per il souk (mercato) incontrammo un tempio romano utilizzato come
abitazione e negozi. Lo stesso destino toccava ad un arco romano, senza contare
le case e i palazzi che inglobavano colonne e reperti antichi nei muri e negli
stipiti. La visita del souk avrebbe
potuto essere una fotocopia di uno dei tanti che avevo visitato (Istambul, Il
Cairo, Marrakech…) invece si dimostrò molto “originale” per la quantità di
gente che la frequentava e l’incredibile varietà dei prodotti. Inoltre Damasco
non era una meta turistica molto ambita, gli stranieri erano pochi e quindi il
mercato non era orientato, se non in piccola parte, ai souvenir. Infine la presenza di vasti khan (caravanserragli) incastonati tra le case trasmettevano un
aria da mille e una notte. Stupenda la moschea degli Ommayyadi, anche se
rimaneggiata nei secoli, molto frequentata. Altrettanto magnifico il palazzo Azem,
costruito nel ‘700 da una potente membro dell’omonima famiglia.
Penso con
angoscia al Museo Archeologico Nazionale che vantava (spero ancora) una delle
più importanti collezioni archeologiche del Medio Oriente con reperti
provenienti da Mari, Ugarit, Palmira, Dura Europos e Ebla.
Bosra:il fascino di Bosra derivava dalla
eccezionale importanza dei suoi monumenti, a cominciare dal clamoroso teatro,
uno dei meglio conservati al mondo. Ma non possiamo tralasciare le strade
bordate da case basse e nere, tra le quali spuntavano ovunque vestigia di un antico
passato (capitelli, colonne) e apparivano così evidenti e ben amalgamati da
dare l’impressione di essere da sempre
inseriti nei muri delle case.
Un miscuglio creatosi nei secoli durante
epoche diverse. Per esempio attorno alla cavea del teatro romano fu eretta
dagli Arabi nel XI-XIII secolo una possente fortezza che lo inglobò
completamente. Un obbrobrio verrebbe da dire, eppure il risultato a distanza di
un millennio appariva maestoso.
I mosaici bizantini: chi è stato al museo del Bardo
(Tunisi) o villa Armerina, è rimasto certo affascinato dagli splendidi mosaici
trovati nella ville dei ricchi possidenti di venti secoli fa. Ebbene in Siria
c’era da rimanere ancora più stupiti ed estasiati davanti a centinaia di metri
quadrati di mosaici, ottimamente conservati. Stupivano per dimensione e
qualità. Quelli più belli li vedemmo ai musei di Shahba e As-Suwayda
(piccoli paesi situati tra Damasco e Bosra) presentati in modo molto intelligente.
I mosaici erano installati sul pavimento e i visitatori potevano osservarli dall’alto
camminando su passerelle che sospese. Naturalmente l’imbecillità e la
cialtroneria dei turisti non aveva (e non ha) limiti. Al museo di Shaba un gruppetto di loro (non ricordo la
nazionalità, ma certamente europei) aveva dato una mancia alla guida che li
accompagnava per convincerla a gettare acqua sui mosaici. Vi chiederete perché.
Perché le tessere dei mosaici, bagnate, luccicavano e rendevano i colori più
scintillanti!!!!
Last but not least rimane da nominare anche Maarrat
an-Numan (tra Hamah e Aleppo) dove un museo un po’ malmesso custodiva una
serie di mosaici pavimentali fantastici, tra i più belli del paese.
Malula: questo piccolo e troppo famoso
villaggio a nord di Damasco meritava una visita perché si presentava come un
mosaico di piccoli cubi scavati nella roccia, dipinti con sgargianti colori.
Era inserito in uno scenario stupendo fatto di brulle montagne scolpite e
scavate dalla pioggia e dal vento, punteggiato da macchie verdi che spuntavano
tra le case (fichi e viti). Ma il villaggio era intossicato da troppi pullman
turistici che giornalmente arrivavano da Damasco, troppo vicina per consentire
a Malula di essere visitata in pace e con un po’ di criterio.
Krak dei Cavalieri: non era l’unica fortezza ancora esistente (c’erano
anche il castello di Marqab, quello di Salah ad-Din e il Qualat Sheizar), ma
senz’altro la più bella, possente e quasi intatta di tutta la Siria,
modello di perfezione in fatto di fortificazione medievale, contesa per secoli
tra Musulmani e Cristiani. Sotto un cielo azzurro, punteggiato di nuvole
bianche che un vento tagliente faceva correre verso est, dagli spalti e dai
bastioni sembrava ancora di vedere i vecchi Crociati che combattevano contro
gli “infedeli” ai piedi delle mura.
Ugarit:3500 anni di storia! Prima di
visitarla pensavo che avrei trovato solo qualche mozzicone archeologico, invece
mi sbagliavo. Naturalmente non stiamo parlando di Palmira (vedi dopo) ma le
vestigia della metà del II millennio a.C. erano tutt’altro che trascurabili. I
reperti più belli ovviamente erano (spero siano ancora) custoditi nei musei di
Aleppo e Damasco e anche al Louvre ovviamente, visto che i Francesi dominavano
nel paese quando alla fine degli anni ’20 si cominciò a scavare a Ugarit. La
scoperta della città fu importante anche per l’aiuto che diede alla
comprensione delle vicissitudini storiche del secondo secolo prima di Cristo,
in quanto qui furono rinvenute migliaia di tavolette con iscrizioni cuneiformi
riguardanti avvenimenti del XV-XIII secolo, forse la più antica lingua
alfabetica di cui si abbia traccia.
Apamea: la visita ad Apamea fu una
miniera di sorprese, un po’ perché conoscevo poco di questa città romana che fino
agli anni ’90 era solo un cumulo di rovine, ma che rovine! Un ottimo restauro l’aveva
fatta risorgere e da allora centinaia di colonne imponenti e resti di templi e di chiese si
innalzavano lungo un cardus di quasi
due km. Il tutto circondato da una cinta muraria ancora ben visibile.
Probabilmente allora anche il turismo conosceva poco Apamea e infatti eravamo in
pochi a visitare il sito.
Purtroppo
non mancavano molti ragazzotti che scorrazzavano tra le rovine in motorino,
cercando di spacciare ai più sprovveduti visitatori “patacche” per reperti
antichi. Questo era il punto dolente di Apamea, come di quasi tutti i siti
archeologici siriani: lo scarso rispetto per le vestigia delle antiche civiltà.
Oltre
all’antico c’era anche il nuovo, o quasi. Infatti, a lato delle rovine, si
ergeva una fortezza medioevale (Al-Mandiq), ancora in buono stato di
conservazione, circondata da una cinta muraria del XIII secolo. Attorno ai
monumenti di Apamea alcune famiglie di beduini avevano piantato le loro tende e
greggi di pecore e di capre scorrazzavano tra le rovine. La loro vita
all’aperto ci permise ci avvicinarli un po’ e di ammirare i loro costumi, in
modo particolare quelli coloratissimi delle donne.
Hamah: questa antica città (ovviamente di antichissime
origine), una che più delle altre nel paese aveva mantenuto quasi inalterato il
tessuto urbano del centro storico, è quella che più di tutte mi ferisce il
cuore quando mi arrivano le notizie della sua attuale condizione al tempo della
guerra. Perché quando arrivammo noi era in pieno svolgimento la festa di
primavera. La gente passeggiava lungo il fiume Oronte, i bambini si
rincorrevano con grida e sorrisi smaglianti. Una festa e una fiera allegra e
gioiosa che aveva occupato tutto il centro.
La caratteristica
principale di Hamah era però costituta da una quindicina di norie ancora in funzione dal tardo
medioevo. Enormi (la più grande ha una circonferenza di 21 metri!), lente,
inarrestabili. Da secoli sollevavano acqua dal fiume per irrigare campi ed
orti. Davano veramente il senso dell’incessante trascorrere del tempo. Ne avevo
viste poche ancora in funzione nei miei viaggi precedenti (le ricordo in
Egitto) e trovarmene tante, innalzate a gruppetti di 4 o 5, una di fianco all’altra,
mi dava un senso di sbalordita sorpresa.
Illuminate con perizia, di notte emanavano
un fascino ancora più toccante e perfino il loro perenne cigolio sembrava
musica più che rumore fastidioso. Una di esse alimentava ancora il laboratorio
di un falegname che costruiva, oltre ai mobili, anche piccoli modellini di
norie, fantastici. Lo scoprimmo quando ormai era già chiuso e il mattino dopo,
quando lasciammo Hamah, era ancora chiuso. Peccato! Avrei pagato per uno di
quei meravigliosi modellini di legno “qualsiasi” cifra.
Ebla: pochi resti e molto ancora da
scavare facevano di Ebla un sito quasi trascurabile, se non fosse che
riveste molta importanza per noi Italiani in quanto la sua scoperta, una delle
più importanti del secolo scorso, è dovuta alle missioni effettuate sul posto dall’italiano
Paolo Matthiae (Università di Roma). Le ricerche furono indirizzate più a
ricostruire un quadro attendibile sulle culture che si susseguirono nell’area
nei millenni precedenti l’era cristiana che a trovare manufatti da esporre nei
musei. Missione compiuta in pieno, perché, negli “archivi” della città che gli
scavi portarono alla luce vennero rinvenute migliaia e migliaia di tavolette di
argilla scritte in caratteri cuneiformi che consentirono di ricostruire il
quadro storico, economico e sociale dell’area mediorientale e anche di ampliare le conoscenze sulla
Mesopotamia e l’Egitto di allora.
Qalah Simam (San Simeone): 1500 anni e non li dimostrava.
Molti manufatti erano ancora a terra, ma molto era stato restaurato. Il
risultato era un enorme complesso ancora straordinariamente ben conservato,
costituito da un battistero, una lunga via sacra e quattro basiliche a tre
navate che si dipartivano da uno spazio ottagonale comune. Nel centrodi questo
spazio si innalzavano i resti della colonna su cui visse il celebre santo
stilita, ormai ridotta ad un blocco informe alto non più di metri, dai quindici
dell’origine. Anche per un non credente fu una esperienza mistica d’impatto.
Le città morte: si tratta di centinaia di
insediamenti risalenti V-VIII secolo, sparsi a nord-ovest del Paese. Alcune
veramente imponenti. Colpivano perché non presentavano monumenti spettacolari e
isolati, ma interi quartieri ancora ben individuabili e il loro alto livello di
conservazione dimostrava che furono abbandonate più o meno nello stesso periodo
storico. Perché? Se anche al tempo della mia visita erano dislocate in uno
territorio abbastanza inospitale, ai tempi di Bisanzio avevano un produzione di
vino e olio d’olio eccellente. Fu perché cambiò l’economia e i prezzi dell’olio
e del vino diminuirono drasticamente? Oppure i terremoti spinsero la
popolazione a trasferirsi altrove? Non si sa.
Ovviamente
andammo in cerca delle città morte più importanti, a cominciare da Serjilla,
adagiata tra due costoni di granito. Impressionava passeggiare tra gli edifici
quasi intatti della città e tra le sue chiese, occupati dai beduini che ne
avevano fatto magazzini e ovili per le loro greggi. Anche noi facemmo il picnic
di mezzogiorno tra le rovine, osservando un contadino che dissodava un orto
aiutato da un trattore, un orto del IV o V secolo! Particolarmente ben
conservato era il grande complesso delle terme.
Un’altra
città morta molto ben conservata era Al-Barah, molto estesa su una
collina punteggiata di ulivi, con muretti a secco che dividevano gli
appezzamenti ben arati, come nel nostro sud. Ma i muretti erano costruiti
soprattutto con reperti romani, capitelli e architravi che da noi farebbero la
felicità di qualsiasi museo. Eravamo Al-Barah per visitare le straordinarie tombe
a piramide, la cui copertura si stringeva verso l’alto lasciando in cima
un’apertura, come un camino.
Non
tralasciammo anche ad-Duna con una tomba a piramide preceduta da un
portico di straordinaria fattura e conservazione.
Qalb Lawzah: la vera città morta sarebbe Qirq
Biza a meno di un km di distanza, ma non si poteva tralasciare questo
villaggio che mostrava una della più belle e antiche basiliche bizantine a tre
navate alla quale mancava solo il tetto e dalla quale si godeva un bel panorama.
La visita fu infastidita da nugoli di bambini e donne che cercavano di venderci
dei ricami artigianali di discutibile fattura. Oltre alla splendida basilica,
potemmo apprezzare la assoluta assenza di turisti che ci permise di parlare,
tramite la nostra guida, con un gruppo di donne che stavano dissodando piante
di tabacco e di bambini che le aiutavano attingendo acqua da una fonte.
Qalb
Lawzah mi rimarrà
nel cuore anche per un’altra incredibile circostanza. Eravamo vicini al confine
con la Turchia, arrivando avevamo sfiorato la frontiera, non c’erano dubbi.
Tuttavia nella nostra cartina geografica di produzione siriana il confine
appariva molto lontano. In pratica la provincia di Antiochia, che si estende poco più ad est e che da tempo è contesa da Siria e Turchia, sarebbe stata,
secondo i Siriani, in Siria, mentre per tutto il mondo si trova in Turchia,
come dimostrava l’altra cartina (Bern & Freitag) che avevamo con noi. Era
un po’ come se su una carta francese comprata a Lione, la Valle d’Aosta fosse in
territorio francese. Da non credere!
Aleppo: dopo aver smesso di fumare da almeno
dieci anni, ad Aleppo ho fumato per la prima volta il narghilè dopo cena, in un ottimo ristorante del quartiere armeno,
il quartiere più ricco di tradizione e storia della città. Oltre a noi erano
soprattutto le donne a fumarlo. Sensazione strana ma piacevole il fumo freddo.
Ovviamente
grande attenzione dedicammo alla visita alla cittadella, una fortezza
inespugnabile costruita nel centro della città, circondata da un fossato e
dotata di una porta d’accesso fantastica.
L’interno non era all’altezza dell’esterno, ma dai suoi spalti si poteva godere
una vista spettacolare della città.
Seguì una
deludente visita al museo dove troppi capolavori erano buttati là alla rinfusa
e coperti di polvere. Ancora una volta valeva il detto: non dare perle ai
porci! Molto apprezzata fu invece una mostra di icone bizantine degli ultimi
tre secoli, esposta nelle sale del museo.
Non poteva
mancare un salto al hotel Baron, lo storico e fascinoso albergo di lusso
dove hanno albergato tutti i personaggi famosi che in passato sono arrivati in
città e che è stato set cinematografico di molti film di spionaggio e avventure
galanti: Lawrence d’Arabia, Agatha Christie, Rockfeller,
il maresciallo Montgomery, Kemal Ataturk, il principe Gustavo di Svezia, De
Gaulle, Nasser, Ceausescu, Tito, Re Feisal e Hafez al-Assad (padre di Bashar).
Nel 1968, Pierpaolo Pasolini, impegnato nelle riprese di Medea, vi trascorse
alcune settimane. Era anche l’albergo dove scendevano i facoltosi
viaggiatori che nei primi decenni del ‘900 arrivavano in città con l’Orient Express. Nella hall si potevano ancora cogliere i segni
dell’antico splendore, ma ormai i tempi d’oro erano passati e il Baron poteva
solo lasciare immaginare come era stato un tempo. Com’era davvero un tempo l’ho
potuto ammirare, invece, nelle foto storiche presentate a Parigi nella mostra
dedicata appunto all’Orient Express. Tutta un’altra cosa.
Da ultima la
visita al souq, l’immenso e labirintico
mercato coperto che occupava gran parte del centro della città. Per certi
aspetti potrebbe assomigliare a tanti altri già visto, ma, aggirandosi nel
dedalo di viuzze strette che lo compongono, nella penombra rotta
improvvisamente dagli squarci di sole che filtrava da qualche buco del soffitto
e dalle finestrelle che si aprivano al centro delle volte del soffitto, si
scoprivano monumenti molto antichi. Già il souq
nella forma attuale aveva quasi mille anni di storia, ma poi, oltre ai resti
romani, si potevano trovare madrase
(scuole coraniche) di cui una del 1168 o moschee di epoca ottomana. Infine l’altra
caratteristica che per me rendeva il mercato di Aleppo più affascinante degli
altri visti in precedenza: i caravanserragli che accoglievano nei loro
recinti le carovane in arrivo in città (il più grande, quello della Dogana, del
secolo XVII). Erano usati anche come sede delle rappresentanze commerciali e
dei consolati dei più importanti paesi europei. Nel più piccolo Khan
al-Nahuasin fin dal XV secolo i Veneziani
tenevano la loro sede. Passeggiare nelle stradine del souq era fare un pellegrinaggio tra aree dedicate alle più
disparate tipologie dei prodotti: calzature, tappeti, oggetti di rame, tessuti
(soprattutto cotone), oggetti in argento, mobili, oggetti di plastica, vetro…
Rusafah e l’Eufrate: questa città ancora circondata
dalle alte mura di pietra rosata che brillavano al sole ci apparve di lontano,
un punto sulla piatta distesa desertica. L’antica Sergiopoli, già
nominata nella Bibbia. Attraverso la splendida porta nord superammo la ancora
ben messa cinta muraria per arrivare in faccia alla basilica di San Sergio, il
capolavoro della città, che presentava una struttura a tre navate ancora ben
conservata. La visita a questa città abbandonata da tempo, persa nel deserto
dell’est siriano fu molto emozionante e la giornata mantenne un elevato impatto
emotivo perché ci portò fino all’estremo oriente del paese, fin sulle rive
dell’Eufrate, il fiume che nell’antichità segnava i confini estremo del mondo allora
conosciuto da Alessandro Magno e che lui ebbe il coraggio di attraversare per
andare verso quella che oggi chiamiamo India, verso l’ignoto. Avevo già visto il
grande fiume molti anni prima da lontano, dalle montagne del Tauro in Turchia,
ma ora ce l’avevo di fronte e potevo immergere le mani nelle sue acque. Sarà
stata la luce stupenda del pomeriggio, la temperatura mite, il vento leggero
che soffiava da est… mi sembrava di essere in una regione bellissima e molto
diversa dalla Siria dell’ovest. Un altopiano desertico che improvvisamente
precipitava in una valle stretta al centro della quale scorreva lento il grande
fiume. Che ormai grande non era più, privato di molta della sua acqua dalle
dighe costruite dai Turchi, furto di acqua al quale si era aggiunto anche
quello perpetrato dalla grande diga di Assad costruita più a monte dagli stessi
Siriani. Ma anche se molto depauperato l’Eufrate era ancora in grado di
irrigare due strisce di terreno fertilissimo che lo fiancheggiavano verso nord
e verso sud. E in queste strisce ogni metro era coltivato con attenzione e su
ogni piccolo appezzamento un pastore pascolava le sue greggi oppure un gruppo
di donne lavava i panni in un ruscello o preparava il terreno per la prossima
semina. Mi ricordavano le mondine che fino a cinquant’anni fa lavoravano nelle
risaie delle nostre valli. Uno sguardo al vecchio, grande ponte costruito dai
Francesi, che attraversava l’Eufrate a Dayr az-Zawr e ripartimmo verso ovest,
diretti a Palmira, con un grande rammarico: la regione ci aveva sorpreso per la
sua bellezza e meritava più tempo.
Palmira: arrivando dal deserto quando ormai
era buio, il primo impatto fu sgradevole. Anche se era illuminata in modo
suggestivo, la città apparve assediata dalle case e dalle auto. La strada
principale che portava a Damasco attraversava addirittura il famoso e
spettacolare colonnato tra l’arco monumentale e il santuario di Baal!
Insisto: mai dare le perle ai porci!
Palmira, Siria |
Nel
pomeriggio ci inoltrammo nella città vera e propria di Palmira. Di questa città
clamorosa, che non ha paragoni al mondo (neanche Leptis Magna, secondo me) non ho molto da aggiungere a quanto tutti
sappiamo. Il suo lungo colonnato, la posizione in mezzo al deserto ai piedi di
una collina dalla quale si gode una vista spettacolare delle rovine, lasciano
nell’animo del visitatore un minimo attento tracce indelebili, come capitò a
me. Sulla collina alle spalle della città gli Arabi costruirono un forte e
dagli spalti del forte aspettai che il sole calasse lentamente sul maestoso
colonnato, sulla tombe della necropoli che avevamo visitato al mattino, sul
santuario di Baal. E mentre ai miei piedi si accendevano le luci di una festa
che aveva radunato moltissima gente a Palmira – ecco perché non si trovava un
camera libera il tutta la città! – mandavo un accorato appello a qualcuno (lo
stato siriano? L’Unesco? Il Padre Eterno?): “ma, cazzo, volete costruire una
specie di tangenziale e smetterla di far passare macchine e TIR tra il
santuario di Baal e l’arco monumentale?” Hanno retto duemila anni di storia e
rischiano di crollare sotto l’assalto del traffico!” Ma temo che, per come si
sono messe oggi le vicende del paese, sia già molto se Palmira esisterà ancora.
Beirut: avevamo un giorno in più a
disposizione prima della partenza. Decidemmo per una escursione in Libano e,
deciso questo, a cosa dedicarci? Lo spirito del viaggio avrebbe suggerito di
completare le visite archeologiche mediorientali andando a Baalbek, uno dei
siti archeologici più importanti del vicino oriente,
dichiarato nel 1984 parimonio dell'Umanità. Baalbeck è famosa per le monumentali rovine di
alcuni templi romani risalenti al II e III secolo dell'era moderna, quando con il nome di Heliopolis ospitava un importante santuario
dedicato a Giove nella provincia romana di Siria. Invece, dopo tanti scavi e tante rovine e dopo
un’accesa discussione, optammo per una visita a Beirut.
Per trasferirci quel giorno in Libano dovemmo affrontare un’esperienza
allucinante alle prese con la burocrazie di uno stato medievale per i permessi
(avevamo il visto per una sola entrata in Siria e la trasferta in Libano, con
relativo rientro, avrebbe comportato una seconda entrata nel paese). Con
l’aiuto (e la corruzione) messi in campo dalla nostra guida bypassammo – ingiustamente
e, soprattutto, in quanto bianchi - file di poveretti che aspettavano da ore di
poter accedere a non so quale sportello. Da vergognarsi. Alla fine riuscimmo a
metterci in viaggio verso il Libano.
Appena passata la frontiera ci trovammo improvvisamente in una specie di
Disneyland, una sorta di assurdo porto franco dove lungo la strada sorgevano
un’infinità di negozi che vendevano di tutto. La nostra guida ne approfittò per
comparsi un mucchio di roba (forse i prezzi erano buoni per un Siriano) e ci
istigò a comprare scarpe in un negozio di un suo amico. Invito declinato. Meno
eccentriche, ma più minacciose e squallide le tante postazioni militari siriane
che controllavano la strada (in Libano!).
Un lunga discesa dai monti dell’Atlante, lungo la quale tutti
sorpassavano all’impazzata, ci portò a Beirut, dove, ancora una volta, apparve
con cruda evidenza la differenza tra ricchi e poveri. Mentre nei quartieri
bianchi e cristiani le tracce della guerra non si vedevano e sul lungomare la
gente sciamava tranquillamente gustando un gelato, nei quartieri musulmani i
palazzi portavano ancora sul muri i segni della cannonate. In molti casi le
esplosioni e le bombe, se non avevano demolito per intero un edificio, avevano
fatto crollare i muri delle facciate. Il risultato era che gli abitanti rimasti
(intere famiglie con bambini) abitavano ancora stanze e locali che davano sul
vuoto al quinto o all’ottavo piano. Ed io potevo osservarli dalla strada a
tavola o seduti davanti ai televisori, cioè condurre la loro dura esistenza, come
in una macabra casa di bambole. Per concludere una giornata molto impegnativa
dal punto di vista emotivo, al rientro in Siria dovemmo anche affrontare
parecchi problemi burocratici nel ripassare la dogana, forse per giustificare
la troppa roba che la nostra guida aveva comprato la mattina.
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