La città vecchia dietro la porta Bab el-Yaman - San'a, patrimonio dell'UNESCO (Yemen) |
Itinerario: San’a, Sa’da, villaggi delle montagne centrali (Thula,
Kawkaban, Al Mahwit, Manakha, Al Hajjara, At Tawila, Hajja, Ibb, Shahara), Aden, Al Mukalla, wadi Hadhramawt (Shibam, Tarim, wadi Do’an, Say’un),
Shabwa, Marib, San’a.
Periodo: maggio 2004
Durata: 3 settimane
Ne parlo nel libro: Il confine immaginario
Yemen,
un altro paese “perduto”, di cui oggi, di fronte alle notizie che arrivano da
laggiù, parlo con profonda angoscia. In antitesi alla tragica condizione attuale
nei secoli precedenti l’avvento di Cristo e anche dopo (fino al medio evo) era
la California dell’antichità per il livello di vita e di cultura che aveva
saputo conquistarsi. Un paese, quindi, cha vanta una storia e una archeologia
forse paragonabile a quella italiana e alcune città (San’a e Shibam) che per
particolarità e fascino possono essere appaiate a Venezia. Alcune sono tutelate
dall’UNESCO, ma molti siti sono ancora non protetti o sepolti sotto la sabbia.
Conoscere
alcuni dei fondamenti della cultura yemenita aiuta in parte a capire questo
paese spesso destabilizzato e attraversato da lotte che scoppiano improvvise
tra i diversi clan. Certo che quando queste frizioni minacciano gli stranieri,
allora capire aiuta poco chi vorrebbe semplicemente visitare lo Yemen senza
essere costretto a rischiare l’incolumità, senza dover rinunciare alla visita
di luoghi unici per motivi di sicurezza, senza doversi spostare incolonnati in
convogli di auto protetti dai militari.
Dopo
almeno due rinvii finalmente era arrivato l’anno giusto per visitare lo Yemen,
l’anno in cui il paese era calmo, non c’erano limitazioni nei percorsi e la
libertà di movimento sembrava possibile. Rimanemmo quindi sorpresi quando,
usciti dalla capitale e diretti a nord verso Sadah, le nostre auto furono
fermate da un posto di controllo della polizia e la sorpresa aumentò quando
alla ripartenza vedemmo un fuoristrada seguirci, inaspettata scorta, con due
poliziotti a bordo. Alla fine, contrariamente alle previsioni, la scorta ci
accompagnò quasi tutti i giorni ed il numero dei militari che la componevano e
le armi a loro diposizione ci indicavano, giorno dopo giorno, la pericolosità della tappa. (Tratto dal mio libro “Il confine immaginario”, 2011)
Leggere
queste parole oggi mi stringe il cuore. Lo Yemen è sempre stato un
paese difficile, lo si capisce da quanto scrivevo sul paese dieci anni fa. Riguardo al tema della sicurezza ricordo anche un episodio che ci mise in all’erta più del dovuto a dimostrazione della preoccupazione che aleggiava tra di noi. Tac, tac, tac, tac … Il piccolo rumore si presentò monotono e sommesso. A metà pomeriggio percorrevamo la strada che dal mar Rosso sale verso Manakah sugli altipiani centrali dello Yemen. Cercammo di decifrare la natura del rumore e dalla cadenza regolare capimmo che aveva a che fare con una ruota. Mohamed, l’autista, rallentò e fermò la Toyota a lato della strada fuori dall’asfalto. Scendemmo tutti dalle auto, approfittando della sosta per sgranchirci un po’ le gambe.
paese difficile, lo si capisce da quanto scrivevo sul paese dieci anni fa. Riguardo al tema della sicurezza ricordo anche un episodio che ci mise in all’erta più del dovuto a dimostrazione della preoccupazione che aleggiava tra di noi. Tac, tac, tac, tac … Il piccolo rumore si presentò monotono e sommesso. A metà pomeriggio percorrevamo la strada che dal mar Rosso sale verso Manakah sugli altipiani centrali dello Yemen. Cercammo di decifrare la natura del rumore e dalla cadenza regolare capimmo che aveva a che fare con una ruota. Mohamed, l’autista, rallentò e fermò la Toyota a lato della strada fuori dall’asfalto. Scendemmo tutti dalle auto, approfittando della sosta per sgranchirci un po’ le gambe.
Uno dei
pneumatici posteriori presentava sul lato interno una lacerazione dalla quale
spuntava una bolla, un rigonfiamento che andava a colpire il parafango a ogni
giro della ruota, producendo il rumore sospetto. Niente di grave, occorreva
sostituirla, operazione che Mohamed si apprestò a compiere. Si sdraiò sulla
schiena e scivolò fino alla cintola sotto l’auto trascinando con una mano il
cric. Buuuum!!! Niente tac tac questa volta, ma un unico e spaventoso
boato. Un attimo di silenzio e poi una
violenta scarica di ghiaia, sabbia e polvere investì me e quelli che si
trovavano ancora accanto alla vettura. Subito pensai alla bomba. Che altro
poteva essere? Eravamo nello Yemen, no?”
Pensare ad una bomba non dovrebbe essere il primo pensiero che viene in mente
sentendo un boato, anche se tra Aden e Al-Mukalla avremmo incontrato
inquietanti cartelli rossi che avvertivano di non uscire dalla strada per via
del terreno minato e anche se quello stesso giorno la nostra scorta raggiunse
il livello più alto di armamento. Ci accompagnavano infatti tre militari a
bordo di un pick up che montava sul
cassone una mitragliatrice pesante.
Apprensione,
quindi, sì, tanta. Ma allora nessuno poteva immaginare che l’evoluzione sarebbe
stata quella che abbiamo oggi sotto gli occhi: un paese in guerra, preda della
violenza più insensata, devastato e ormai tagliato fuori dal mondo.
La mia
passione per i viaggi mi fa sempre definire bello il paese che visito, ma nel
caso dello Yemen devo dire che un simile giudizio è addirittura riduttivo. Lo
Yemen era, e spero che sia ancora, un paese meraviglioso e unico. Solo in alcuni
paesini del profondo sud del Marocco ho ritrovato somiglianze architettoniche altrettanto
spettacolari. Per resto il paese è unico.
Renzo Manzoni: era nipote di Alessandro, autore dei Promessi
Sposi e incubo del mio ginnasio. Su imposizione di un’insegnante arcigna avevo
dovuto leggerlo, quel romanzo, studiarlo, riassumerlo, estrarne le similitudini
e le frasi celebri. Diversamente da me, Renzo riuscì a sottrarsi
all'ingombrante presenza del nonno e si dedicò fin da giovane alla sua passione
per i viaggi e l’avventura. Non fu certo un Livingston, tuttavia poco più che
ventenne tra il 1877 e il 1879 intraprese alcuni viaggi nello Yemen. Partendo
da Aden raggiunse più di una volta la capitale San’a dove soggiornò parecchi
mesi. Riportò del paese e della città descrizioni precise e di gradevole
lettura su molti argomenti, dalla storia all'architettura, dall’agricoltura ai
costumi. I suoi resoconti (Renzo Manzoni, El
Yèmen, EDT, 1991) furono una fonte importante di informazioni per organizzare, più di
cento anni dopo, il nostro viaggio nel regno della regina di Saba, lo Yemen
appunto.
Il qat
(catha edulis):
è una pianta diffusissima in Yemen dove viene usata come droga. Le foglie
contengono un alcaloide dall'azione stimolante che causa stati di eccitazione e
di euforia e che provoca forme di dipendenza. E’ talmente diffusa e usata che
viene tollerata ovunque e ormai è diventata forse la coltivazione più diffusa e
redditizia nel paese. Le terrazze che coprono i fianchi delle montagne fino ad
altezze vertiginose sono di tre colori:
verdi quelle coltivazione a qat, scure quelle dissodate di fresco e
gialle quelle coltivate a grano. E quelle verdi non sono le meno numerose. Il
qat si assume masticando le foglie verdi e, ovunque, tutti gli uomini vanno in
giro con il tipico bolo in bocca che deforma le loro guance. Da straniero posso
dire che qualsiasi servizio si possa chiedere nel paese, conviene farlo in
mattinata. Più la giornata va avanti, infatti, e più la lucidità di tutti
diminuisce. Soprattutto conviene controllare quella degli autisti, anche se va
detto che il qat è una droga leggera, non è eroina. Tanto leggera che
per ottenere qualche effetto occorre masticare tutto il giorno e al mercato si
trova a fasci, come se fosse fieno. Ogni yemenita maschio che si rispetti
(almeno adolescente) ne compra una dose al giorno che si porta in giro dentro
un sacchetto di plastica di piccole dimensione (la metà di un normale sacchetto
della spesa).
Un incubo di plastica: facciamo il
conto della serva: 25 milioni di abitanti, 12,5 milioni di maschi, consideriamo
8 milioni di uomini adulti che ogni giorno comprano un sacchetto di plastica pieno
di qat. Gli yemeniti sono un popolo povero abituato da sempre a fare un attento
riciclo e risparmio delle risorse, l’acqua prima di tutto. Ma un giorno arrivò
la plastica e, con essa, i maledetti sacchetti… Al momento del mio viaggio (ma
non credo che da allora sia cambiato molto) quasi tutte le regioni del paese
erano impestate da milioni di questi sacchetti, soprattutto nella prime
periferia dei paesi. Il vento costante non faceva che peggiorare la situazione
sparpagliando sacchetti dappertutto che per la maggior parte finivano
appiccicati alle siepi e ai muretti che delimitavano terrazze e giardini. Fichi
e agavi erano particolarmente umiliati da questo incubo.
San’a: San’a, la capitale del paese, non affascinò solo
Renzo Manzoni, ma anche Pier Paolo Pasolini che vi girò alcune scene del Fiore delle Mille
e una notte e soprattutto la rese protagonista nei primi anni ’70 di un
cortometraggio che trasformò in appello all’UNESCO per salvare le sue mura
millenarie. Era un intento encomiabile perché negli anni sessanta il governo
dello Yemen si trovò di fronte ad un paese medioevale, carico di storia ma
poverissimo e con l’obiettivo della modernizzazione si diede a progettare la
sua ricostruzione. Nelle scene girate da Pasolini si possono ammirare le
solenni mura di San’a ancora erette a ricordare al mondo la storia della città,
crocevia delle carovane delle spezie, dei profumi e degli incensi. Ma nelle
stesse scene possiamo già intravedere i primi angoscianti squarci aperti per
far posto ad un'architettura di bassa qualità,
“casermoni bulgaro-coreani” li
definì qualcuno. Per fortuna, raccontava Pasolini, “la vecchia città
entro le mura di cinta è ancora completamente intatta” e aggiungeva “la sua
bellezza ha una forma di perfezione irreale, quasi eccessiva ed
esaltante”. E questo giudizio, che
condividevo, sembrava essere lo stesso di Manzoni. Le case, i negozi, la gente
che mi scorrevano davanti agli occhi erano esattamente quelli che Renzo aveva
raccontato più di cento anni prima, con parole che sembravano appena scritte:
“Le altissime case, a fondo grigio della pietra e rosso bruno dei mattoni a
vista, colle finestre, i frontoni, le sagome a ricamo in bianco fanno un
effetto magico, sorprendente al chiaro di luna”. Oppure: “Il bazar arabo
assomiglia a quello del Marocco: le stesse piccole botteghe a un metro e mezzo
dal suolo, con dentro l’Arabo talmente circondato dalla mercanzia, che non si
capisce come possa muoversi”. O infine: “Non incontro che donne velate; e ciò
mi fa grande dispiacere”. Solo un dettaglio, non di poco conto, rendeva la mia
esperienza diversa da quella di Renzo, che racconta: “Ammiro la vastità di
alcune moschee”. Io al contrario le moschee potevo ammirarle sono dall’esterno,
perché a me non mussulmano erano vietate, a volte con durezza e ostilità, a
dimostrazione che anche nello Yemen la tolleranza non è di casa.
Se il destino delle mura di San’a era in gran parte
segnato quando Pasolini faceva le riprese, almeno non si è avverata la cupa
profezia da lui enunciata per la città: “La classe dirigente yemenita se ne
vergogna, perché è povera e sporca e certo ha ormai tacitamente deciso la sua
distruzione”. Invece nel 1986, undici anni dopo la sua morte, e forse proprio
grazie al suo lavoro, l’UNESCO dichiarò San’a patrimonio dell’umanità,
salvandola dagli stessi Yemeniti.
Il fascino della città, alimentato da gente con la jambiya[2]
alla cintura e mercati colorati, da case e palazzi di pietra rosata con le
cornici delle finestre bianche di calce, la ritrovavo ovunque, in tutto il
paese e in ogni villaggio costruito sulla cima di una montagna e protetto da
mura innalzate sull’orlo di precipizi vertiginosi.
Le mura di Sa'da, Yemen |
Sa’da: di solito Sa’da, dislocata nell’estremo nord, quasi
al confine con l’Arabia Saudita, era tenuta fuori dai circuiti turistici, ma
quello era l’anno buono, dicevamo, e quindi, seppure scortati dal solito nucleo
protettivo semi-militare, eravamo arrivati. La città è stata la capitale della
resistenza all’unificazione del paese, molto turbolenta e a rischio di
rapimenti. Invece è una città bellissima, completamente ristrutturata e ancora
circondata da una cerchia di mura imponenti. Fantastici alcuni villaggi sparsi
nei suoi dintorni.
I paesi delle montagne centrali: La salita fino
ai tremila metri di Shahara, anch’esso appollaiato su uno sperone di roccia,
era organizzata dalla gente del luogo e chi voleva arrampicarsi fino al paese
doveva affidarsi ai trasporti locali. Nelle due ore che richiese la salita
dalla base della montagna fino alla piazza del villaggio, per la prima volta
nella mia vita temetti sinceramente di morire, alla mercé di un fuoristrada
decrepito e senza freni che arrancò per compiere i millecinquecento metri di
dislivello su una mulattiera scavata sull’orlo di un burrone ad ogni curva più profondo.
Al Hajjara, Yemen |
Da lassù potevo ammirare le spettacolari montagne
che si perdevano in lontananza, sulle cui cime svettavano paesi simili a torri
di guardia. La corona di monti e villaggi che mi circondava dava la sensazione
di essere al cospetto della Grande Muraglia cinese. Purtroppo spesso le
case mostravano i segni del crescente abbandono e le cisterne per la raccolta
dell’acqua piovana non erano più mantenute come un tempo.
La teoria dei villaggi è lunga: Thula, Shibam
(stesso nome ma altra rispetto a quella più famosa del wadi Hadhramawt),
Kawkaban, Al Mahwit, Manakha, Al Hajjara (per me la più spettacolare di tutte),
At Tawila, Hajja, Ibb, Shahara (che vanta l’ardito e famoso ponte in pietra che
collega da almeno 300 anni le due parti del paese superando uno strapiombo di
oltre 300 metri). Di tutti questi paesi ricordo le grandi cisterne di raccolta
dell’acqua piovana, necessarie alla sopravvivenza della popolazione e le
slanciate case di pietra alte anche 6 o 7 piani.
Un’esperienza molto istruttiva a Shahara: mentre camminavo nella piazzetta di Shahara, alla ricerca delle
angolazioni migliori per le mie foto vidi camminare verso di me tre bambini di
otto o nove anni. Come gli altri compagni si stavano allontanando, quasi
fuggendo, da un punto centrale del villaggio, epicentro della loro sofferenza:
la scuola. Sorrisi pensando che la liberazione dalle costrizioni scolastiche
rimane un momento di pura felicità a tutte le latitudini. Una leggera brezza mi
portava il loro vociare festoso. I tre, con qualche quaderno sotto il braccio,
parlottavano allegramente e di tanto in tanto una risata esplodeva dalle bocche
sorridenti.
Appena
si accorsero di me alzai il braccio per un saluto che mi aspettavo di vedere
ricambiato. Ma questo non accadde. Si fermarono incerti e, quando videro che la
mia direzione mi avrebbe portato da loro, aspettarono il mio arrivo senza
muoversi. Di fronte ai tre bambini provai una strana sensazione di disagio che
mi portò a trascurare la fila di pietre che ci separava, come una sorta di
confine. I due più piccoli, immobili, tenevano gli occhi bassi come incuriositi
dalle loro scarpe, mentre il più grandicello fece un passo avanti e mi guardò
con occhi che non potrò mai più dimenticare. Erano occhi scuri, profondi ed
esprimevano un tumulto di sentimenti: sorpresa, sconcerto e, mi parve,
rimprovero. E soprattutto una profonda tristezza. Il bambino puntò l’indice
della mano verso terra e pronunciò alcune parole che non afferrai. Quando
comprese che non avevo capito le ripeté una seconda volta. A quel punto mi resi
conto che stava tentando di parlare in inglese, ma non capivo cosa voleva dirmi
e mi scusai più volte, “Sorry’, I didn’t understand”. Al terzo tentativo
finalmente intesi quello che andava ripetendo con angoscia crescente: “They
sleep”. They sleep? Dormono? Chi dorme?
Sotto il
sole di Shahara di fronte ad un bambino di nove anni che mi stava scrutando con
rimprovero mi sentivo nell’angolo, sotto i riflettori. Mi sembrava che tutto il
mondo mi guardasse e mi indicasse come il più cialtrone dei turisti, mi
mancavano solo i bermuda a fiori e i sandali per essere eletto loro
rappresentante perfetto. Perché ormai avevo capito cosa rappresentava quel
sottile confine di pietre che separava me e la mia imperdonabile stupidità dai
bambini. Di là c’erano loro a camminare su un sentiero, di qua c’ero io a
calpestare delle tombe! Stupido! Erano i morti a dormire! E dove potevano
dormire i morti, se non in un cimitero, sotto terra, come il bambino si
sforzava di indicarmi? E’ vero, si trattava di un vecchio cimitero e i tumuli,
tutti di terra, non erano più riconoscibili, livellati dalla pioggia e dal
passare del tempo. Ma sarebbe bastato poco per accorgersi che le pietre sparse
in quello spazio segnavano delle tombe, certo non dei mausolei, ma comunque
delle tombe. Solo un po’ di attenzione e di rispetto.
Un percorso a rischio:
chi visita lo Yemen
e non si limita al nord e agli altipiani che circondano San’a, ma intende
arrivare fino al wadi Hadhramawt, raggiunge Al-Mukalla attraverso il deserto in
fuoristrada e ritorna in aereo o viceversa. Pochi affrontano in auto sia
l’andata che il ritorno e quasi nessuno compie questa lunga traversata passando
da Aden. Le due città distano quasi settecento chilometri di strada, molta di
montagna, attraverso zone quasi desertiche. Per questo il percorso viene
considerato troppo lungo e faticoso e quindi si preferisce l’aereo. Ma oltre
alla lunghezza e alla fatica, uno dei motivi che rafforzano tale consuetudine è
che le zone attraversate sono state negli anni particolarmente colpite dai
sequestri di viaggiatori da parte di clan che avevano qualche ragione da
rivendicare nei confronti del governo centrale. Ed inoltre le stesse zone, come
ho detto, sono infestate ancora oggi da mine sparse in grande quantità nel
recente e bellicoso passato del paese.
Era
l’alba di un giorno che si annunciava limpido e assolato quando lasciammo Aden
in direzione di Al-Mukalla. Fin dalle prime ore di viaggio mi resi conto di
quale fantastico scenario si perda chi rinuncia a questo percorso. La strada
corre verso est lungo la costa dell’oceano Indiano lambendo spiagge
incontaminate e prive di qualsiasi presenza umana, interrotte di tanto in tanto
da qualche villaggio di pescatori. Poi gira verso l’interno per raggiungere
villaggi in pietra annidati all’interno di canyon scolpiti dall’acqua e dal
vento in migliaia di anni di paziente erosione. Uno scenario stupendo.
Verso
mezzogiorno in uno di questi villaggi, Habban, ci fermammo per il pranzo. Ci
dirigemmo verso un piccolo ristorante sulla strada principale, convinti che
anche nello Yemen valesse la regola che giudica di buona qualità i ristoranti
con molti camion in sosta nel piazzale. Quello scelto rispondeva a questo
requisito e ci avvicinammo. La giornata era calda ed il ristorante aveva
distribuito i tavoli all’aperto sotto una tettoia di lamiera che avrebbe
riparato gli avventori nel caso di un’improbabile pioggia. I tavoli, di ferro,
erano molto ampi e avrebbero potuto fare posto ad almeno venti commensali, ma
nessuno era del tutto libero. Ci accomodammo pertanto su tavoli diversi in
piccoli gruppi separati ed aspettammo che il cameriere si presentasse per
l’ordinazione.
Nell’attesa
avevo il tempo per guardarmi intorno e mi misi ad osservare i due commensali
che sedevano al mio stesso tavolo di fronte a me. Non si poteva dire che fossero molto diversi
tra di loro o dai commensali seduti agli altri tavoli. Tutti indossavano il
turbante o la kefiah a quadretti rossi e bianchi e il classico camicione a
maniche lunghe che arriva alla gamba, abbottonato sul davanti e indossato sotto
la giacca. Tutti portavano in cintura la jambiya
e sfoggiavano lunghe barbe incolte. Di tanto in tanto mi sembrava che i loro
occhi scurissimi mi fissassero più severi che curiosi, mentre consumavano il
pasto continuando una conversazione con parole per me incomprensibili.
Quando
ebbero terminato il pranzo si accesero una sigaretta e ordinarono un caffè,
allungandosi all’indietro sulle sedie alla ricerca di una posizione più comoda.
Però qualcosa che in precedenza non avevo notato ostacolava il movimento,
qualcosa li intralciava dietro le spalle. Estrassero la cosa dalle pieghe della
giacca e del camicione e la appoggiarono sul tavolo di fianco a loro. Ferro
contro ferro l’oggetto recuperato produsse un colpo secco che mi fece
sobbalzare. Non potevo credere ai miei occhi! Avevano appoggiato sul tavolo,
entrambi e nello stesso momento, due kalashnikov! Tutti noi ci guardammo l’un
l’altro come a chiedere conferma della visione, quindi volgemmo gli sguardi
intorno e notammo che ai tavoli circostanti quasi tutti gli avventori avevano
il kalashnikov di fianco al piatto. C’era addirittura chi ne aveva due. E che
anche quelli che camminavano indaffarati sulla strada di fronte a noi ne
avevano uno appeso alla spalla. Lo sapevo già: in molti villaggi dello Yemen,
fuori dai tragitti più turistici, quella era una consuetudine consolidata.
Tuttavia cominciò a crescere in me un’ansia profonda e mi sorpresi a scatenare
la mente in una cavalcata attraverso le paure e i pregiudizi più ovvi e comuni
ed in quel ristorante non avevo che l’imbarazzo della scelta. Tra lo Yemen e la
sua storia recente, quella provincia a rischio di rapimenti, la città fuori dai
circuiti turistici più battuti, le persone barbute sedute di fronte a me con il
kalashnikov a portata di mano e la jambiya alla cintura, potevo scegliere
tra una rosa molto ampia. E, nonostante gli sforzi per dissimularla, l’ansia
non mi abbandonò fino a quando non ce ne andammo dal ristorante.
Wadi Hadhramawt: nel centro del deserto yemenita del
sudest, al bordo meridionale del più inospitale deserto del mondo (il Rub al-Khali, ossia "Il quarto
vuoto", "quarto" inteso come "quarta parte) ancora ampiamente inesplorato e praticamente disabitato,
si apre un’ampia
fenditura dove c’è acqua sufficiente a permettere la pratica dell’agricoltura:
il wadi Hadhramawt. Qui si sono succedute nei secoli fiorenti sultanati e da
qui passava l’antica via dell’incenso. E’ una delle regioni più abitate del
paese, la popolazione è dedita all’agricoltura e soprattutto all’allevamento,
entrambe le attività praticate, come al solito, prevalentemente dalla donne. Le
si scorgevano al seguito della greggi di capre o chine nei campi, vestite di
nero e sotto gli altissimi cappelli di paglia.
A sud si
apre una altro wadi più piccolo (wadi Do’an), il ramo più bello
dell’Hadhramawt, con gli spettacolari paesini abbarbicati sui suoi fianchi a
strapiombo.
Nell’Hadhramawt
si incontrano tre bellissime, antiche città:
- Say’un
con il suo fantastico palazzo del sultano, che noi trovammo in stato malmesso,
anche se in teoria era stato trasformato in museo;
Shibam, Yemen |
- Tarim,
città religiosa, che mostra una serie di fastosi palazzo, oggi quasi in
abbandono, che dimostrano il livello dello splendore di un tempo e i tristi
risultati di una pesante emigrazione. La città vanta anche un incredibile serie
di moschee. Il numero ufficiale nel 2000 era 365, una per ogni giorno! La più
bella quella di al-Muhdar.
- Shibam:
merita una menzione particolare per l’incredibile fascino che emana e che deve la sua
fama allo specifico stile architettonico che qui si è sviluppato e che ora è
posto sotto la protezione dell'UNESCO. Anche se tutte le case di Shibam sono state costruite con
mattoni di fango, ci sono circa 500 palazzi che raggiungono l'altezza di 5-9
piani. Quelle più vecchie risalgono al XVI secolo, anche se il sito è abitato
da oltre 2.000 anni. La città è famosa
per noi Italiani anche perché alla sua salvaguardia e allo studio del suo
ingegnoso sistema di sfruttamento delle acque e del riciclo degli scarti umani
e animali che nei secoli permise a Shibam di mantenere un’oasi rigogliosa
(Yemen 1990), partecipò anche un architetto
italiano (Pietro Laureano) presente nella lista dei consulenti Unesco come
esperto delle zone aride, della civiltà islamica e degli ecosistemi in
pericolo.
Il tempio del Sole, Marib, Yemen |
Per le sue caratteristiche Shibam è
anche chiamata la più vecchia città-grattacielo del mondo, o la Manhattan del deserto.
Marib: è il sito archeologico più
importante e famoso del paese, capitale del regno di Saba fino al VI secolo
d.C. La fine dell’antica Marib fu causata da un disastro naturale. Piogge
eccezionali, che gli abitanti raccoglievano in un enorme bacino artificiale creato
da una diga di quasi un km di lunghezza, alta una ventina di metri. Fu questa
diga a garantire per secoli il grande sviluppo agricolo della città e il
conseguente benessere. Nel 570 la diga crollò riducendo la città a misero villaggio.
A
ricordare l’antico splendore rimangono oggi i resti degli straordinari templi
Sabei: i cinque pilastri (quadrati) del Tempio della Luna e, ancora più
grandioso, il Tempio del Sole.
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