domenica 21 giugno 2015

Viaggio in YEMEN

La città vecchia dietro la porta Bab el-Yaman -
San'a, patrimonio dell'UNESCO (Yemen)
Paese attraversato: Yemen
Itinerario: San’a, Sa’da, villaggi delle montagne centrali (Thula, Kawkaban, Al Mahwit, Manakha, Al Hajjara, At Tawila, Hajja, Ibb, Shahara), Aden, Al Mukalla, wadi Hadhramawt (Shibam, Tarim, wadi Do’an, Say’un), Shabwa, Marib, San’a.
Periodo: maggio 2004
Durata: 3 settimane
Ne parlo nel libro: Il confine immaginario

Yemen, un altro paese “perduto”, di cui oggi, di fronte alle notizie che arrivano da laggiù, parlo con profonda angoscia. In antitesi alla tragica condizione attuale
nei secoli precedenti l’avvento di Cristo e anche dopo (fino al medio evo) era la California dell’antichità per il livello di vita e di cultura che aveva saputo conquistarsi. Un paese, quindi, cha vanta una storia e una archeologia forse paragonabile a quella italiana e alcune città (San’a e Shibam) che per particolarità e fascino possono essere appaiate a Venezia. Alcune sono tutelate dall’UNESCO, ma molti siti sono ancora non protetti o sepolti sotto la sabbia.
 
“Nonostante l’uguaglianza predicata dall’Islam, la società tradizionale yemenita è in effetti gerarchica, basata sia sul potere tribale che sulle caste. Tutte le attività economiche, militari e politiche ruotano intorno al clan. La popolazione dello Yemen conserva gelosamente il codice d’onore tribale le cui regole principali sono: il coraggio nel combattimento, il rispetto della parola data, il divieto di colpire un nemico alle spalle, l’impossibilità di perdonare un insulto, il dovere di vendetta per il sangue versato da un nemico, la protezione del debole, della donna, delle genti delle scritture (ebrei e cristiani), del vicino, del cliente e dell’ospite o di colui che domanda rifugio e asilo; tutte le mancanze commesse verso queste persone portano l’onta sul clan, disgrazia che deve essere riscattata.[1]
Conoscere alcuni dei fondamenti della cultura yemenita aiuta in parte a capire questo paese spesso destabilizzato e attraversato da lotte che scoppiano improvvise tra i diversi clan. Certo che quando queste frizioni minacciano gli stranieri, allora capire aiuta poco chi vorrebbe semplicemente visitare lo Yemen senza essere costretto a rischiare l’incolumità, senza dover rinunciare alla visita di luoghi unici per motivi di sicurezza, senza doversi spostare incolonnati in convogli di auto protetti dai militari.
Dopo almeno due rinvii finalmente era arrivato l’anno giusto per visitare lo Yemen, l’anno in cui il paese era calmo, non c’erano limitazioni nei percorsi e la libertà di movimento sembrava possibile. Rimanemmo quindi sorpresi quando, usciti dalla capitale e diretti a nord verso Sadah, le nostre auto furono fermate da un posto di controllo della polizia e la sorpresa aumentò quando alla ripartenza vedemmo un fuoristrada seguirci, inaspettata scorta, con due poliziotti a bordo. Alla fine, contrariamente alle previsioni, la scorta ci accompagnò quasi tutti i giorni ed il numero dei militari che la componevano e le armi a loro diposizione ci indicavano, giorno dopo giorno, la pericolosità della tappa. (Tratto dal mio libro “Il confine immaginario”, 2011)

Villaggio a nord si Sa'da, Yemen

Leggere queste parole oggi mi stringe il cuore. Lo Yemen è sempre stato un
paese difficile, lo si capisce da quanto scrivevo sul paese dieci anni fa. Riguardo al tema della sicurezza ricordo anche un episodio che ci mise in all’erta più del dovuto a dimostrazione della preoccupazione che aleggiava tra di noi. Tac, tac, tac, tac … Il piccolo rumore si presentò monotono e sommesso. A metà pomeriggio percorrevamo la strada che dal mar Rosso sale verso Manakah sugli altipiani centrali dello Yemen. Cercammo di decifrare la natura del rumore e dalla cadenza regolare capimmo che aveva a che fare con una ruota. Mohamed, l’autista, rallentò e fermò la Toyota a lato della strada fuori dall’asfalto. Scendemmo tutti dalle auto, approfittando della sosta per sgranchirci un po’ le gambe.
Uno dei pneumatici posteriori presentava sul lato interno una lacerazione dalla quale spuntava una bolla, un rigonfiamento che andava a colpire il parafango a ogni giro della ruota, producendo il rumore sospetto. Niente di grave, occorreva sostituirla, operazione che Mohamed si apprestò a compiere. Si sdraiò sulla schiena e scivolò fino alla cintola sotto l’auto trascinando con una mano il cric. Buuuum!!! Niente tac tac questa volta, ma un unico e spaventoso boato.  Un attimo di silenzio e poi una violenta scarica di ghiaia, sabbia e polvere investì me e quelli che si trovavano ancora accanto alla vettura. Subito pensai alla bomba. Che altro poteva essere?  Eravamo nello Yemen, no?” Pensare ad una bomba non dovrebbe essere il primo pensiero che viene in mente sentendo un boato, anche se tra Aden e Al-Mukalla avremmo incontrato inquietanti cartelli rossi che avvertivano di non uscire dalla strada per via del terreno minato e anche se quello stesso giorno la nostra scorta raggiunse il livello più alto di armamento. Ci accompagnavano infatti tre militari a bordo di un pick up che montava sul cassone una mitragliatrice pesante.
Apprensione, quindi, sì, tanta. Ma allora nessuno poteva immaginare che l’evoluzione sarebbe stata quella che abbiamo oggi sotto gli occhi: un paese in guerra, preda della violenza più insensata, devastato e ormai tagliato fuori dal mondo.

La mia passione per i viaggi mi fa sempre definire bello il paese che visito, ma nel caso dello Yemen devo dire che un simile giudizio è addirittura riduttivo. Lo Yemen era, e spero che sia ancora, un paese meraviglioso e unico. Solo in alcuni paesini del profondo sud del Marocco ho ritrovato somiglianze architettoniche altrettanto spettacolari. Per resto il paese è unico.

Renzo Manzoni: era nipote di Alessandro, autore dei Promessi Sposi e incubo del mio ginnasio. Su imposizione di un’insegnante arcigna avevo dovuto leggerlo, quel romanzo, studiarlo, riassumerlo, estrarne le similitudini e le frasi celebri. Diversamente da me, Renzo riuscì a sottrarsi all'ingombrante presenza del nonno e si dedicò fin da giovane alla sua passione per i viaggi e l’avventura. Non fu certo un Livingston, tuttavia poco più che ventenne tra il 1877 e il 1879 intraprese alcuni viaggi nello Yemen. Partendo da Aden raggiunse più di una volta la capitale San’a dove soggiornò parecchi mesi. Riportò del paese e della città descrizioni precise e di gradevole lettura su molti argomenti, dalla storia all'architettura, dall’agricoltura ai costumi. I suoi resoconti (Renzo Manzoni, El Yèmen, EDT, 1991) furono una fonte importante di informazioni per organizzare, più di cento anni dopo, il nostro viaggio nel regno della regina di Saba, lo Yemen appunto.

Il qat (catha edulis): è una pianta diffusissima in Yemen dove viene usata come droga. Le foglie contengono un alcaloide dall'azione stimolante che causa stati di eccitazione e di euforia e che provoca forme di dipendenza. E’ talmente diffusa e usata che viene tollerata ovunque e ormai è diventata forse la coltivazione più diffusa e redditizia nel paese. Le terrazze che coprono i fianchi delle montagne fino ad altezze vertiginose sono di tre colori: verdi quelle coltivazione a qat, scure quelle dissodate di fresco e gialle quelle coltivate a grano. E quelle verdi non sono le meno numerose. Il qat si assume masticando le foglie verdi e, ovunque, tutti gli uomini vanno in giro con il tipico bolo in bocca che deforma le loro guance. Da straniero posso dire che qualsiasi servizio si possa chiedere nel paese, conviene farlo in mattinata. Più la giornata va avanti, infatti, e più la lucidità di tutti diminuisce. Soprattutto conviene controllare quella degli autisti, anche se va detto che il qat è una droga leggera, non è eroina. Tanto leggera che per ottenere qualche effetto occorre masticare tutto il giorno e al mercato si trova a fasci, come se fosse fieno. Ogni yemenita maschio che si rispetti (almeno adolescente) ne compra una dose al giorno che si porta in giro dentro un sacchetto di plastica di piccole dimensione (la metà di un normale sacchetto della spesa).

Un incubo di plastica: facciamo il conto della serva: 25 milioni di abitanti, 12,5 milioni di maschi, consideriamo 8 milioni di uomini adulti che ogni giorno comprano un sacchetto di plastica pieno di qat. Gli yemeniti sono un popolo povero abituato da sempre a fare un attento riciclo e risparmio delle risorse, l’acqua prima di tutto. Ma un giorno arrivò la plastica e, con essa, i maledetti sacchetti… Al momento del mio viaggio (ma non credo che da allora sia cambiato molto) quasi tutte le regioni del paese erano impestate da milioni di questi sacchetti, soprattutto nella prime periferia dei paesi. Il vento costante non faceva che peggiorare la situazione sparpagliando sacchetti dappertutto che per la maggior parte finivano appiccicati alle siepi e ai muretti che delimitavano terrazze e giardini. Fichi e agavi erano particolarmente umiliati da questo incubo.

San’a: San’a, la capitale del paese, non affascinò solo Renzo Manzoni, ma anche Pier Paolo Pasolini che vi girò alcune scene del Fiore delle Mille e una notte e soprattutto la rese protagonista nei primi anni ’70 di un cortometraggio che trasformò in appello all’UNESCO per salvare le sue mura millenarie. Era un intento encomiabile perché negli anni sessanta il governo dello Yemen si trovò di fronte ad un paese medioevale, carico di storia ma poverissimo e con l’obiettivo della modernizzazione si diede a progettare la sua ricostruzione. Nelle scene girate da Pasolini si possono ammirare le solenni mura di San’a ancora erette a ricordare al mondo la storia della città, crocevia delle carovane delle spezie, dei profumi e degli incensi. Ma nelle stesse scene possiamo già intravedere i primi angoscianti squarci aperti per far posto ad un'architettura di bassa qualità,

Sa'na, Yemen
























“casermoni bulgaro-coreani” li definì qualcuno. Per fortuna, raccontava Pasolini, “la vecchia città entro le mura di cinta è ancora completamente intatta” e aggiungeva “la sua bellezza ha una forma di perfezione irreale, quasi eccessiva ed esaltante”.  E questo giudizio, che condividevo, sembrava essere lo stesso di Manzoni. Le case, i negozi, la gente che mi scorrevano davanti agli occhi erano esattamente quelli che Renzo aveva raccontato più di cento anni prima, con parole che sembravano appena scritte: “Le altissime case, a fondo grigio della pietra e rosso bruno dei mattoni a vista, colle finestre, i frontoni, le sagome a ricamo in bianco fanno un effetto magico, sorprendente al chiaro di luna”. Oppure: “Il bazar arabo assomiglia a quello del Marocco: le stesse piccole botteghe a un metro e mezzo dal suolo, con dentro l’Arabo talmente circondato dalla mercanzia, che non si capisce come possa muoversi”. O infine: “Non incontro che donne velate; e ciò mi fa grande dispiacere”. Solo un dettaglio, non di poco conto, rendeva la mia esperienza diversa da quella di Renzo, che racconta: “Ammiro la vastità di alcune moschee”. Io al contrario le moschee potevo ammirarle sono dall’esterno, perché a me non mussulmano erano vietate, a volte con durezza e ostilità, a dimostrazione che anche nello Yemen la tolleranza non è di casa.
Se il destino delle mura di San’a era in gran parte segnato quando Pasolini faceva le riprese, almeno non si è avverata la cupa profezia da lui enunciata per la città: “La classe dirigente yemenita se ne vergogna, perché è povera e sporca e certo ha ormai tacitamente deciso la sua distruzione”. Invece nel 1986, undici anni dopo la sua morte, e forse proprio grazie al suo lavoro, l’UNESCO dichiarò San’a patrimonio dell’umanità, salvandola dagli stessi Yemeniti.
Il fascino della città, alimentato da gente con la jambiya[2] alla cintura e mercati colorati, da case e palazzi di pietra rosata con le cornici delle finestre bianche di calce, la ritrovavo ovunque, in tutto il paese e in ogni villaggio costruito sulla cima di una montagna e protetto da mura innalzate sull’orlo di precipizi vertiginosi.

Le mura di Sa'da, Yemen


























Sa’da: di solito Sa’da, dislocata nell’estremo nord, quasi al confine con l’Arabia Saudita, era tenuta fuori dai circuiti turistici, ma quello era l’anno buono, dicevamo, e quindi, seppure scortati dal solito nucleo protettivo semi-militare, eravamo arrivati. La città è stata la capitale della resistenza all’unificazione del paese, molto turbolenta e a rischio di rapimenti. Invece è una città bellissima, completamente ristrutturata e ancora circondata da una cerchia di mura imponenti. Fantastici alcuni villaggi sparsi nei suoi dintorni.

I paesi delle montagne centrali: La salita fino ai tremila metri di Shahara, anch’esso appollaiato su uno sperone di roccia, era organizzata dalla gente del luogo e chi voleva arrampicarsi fino al paese doveva affidarsi ai trasporti locali. Nelle due ore che richiese la salita dalla base della montagna fino alla piazza del villaggio, per la prima volta nella mia vita temetti sinceramente di morire, alla mercé di un fuoristrada decrepito e senza freni che arrancò per compiere i millecinquecento metri di dislivello su una mulattiera scavata sull’orlo di un burrone ad ogni curva più profondo.

Al Hajjara, Yemen
La salita agli altri, spettacolari paesi delle montagne centrali del paese, quelli più famosi e turisticizzati (tutti tra i 2.000 e i 3.000 mt di altitudine) non fu tanto angosciante come quella di Shahara (tra l’altro le strade erano asfaltate) ma il risultato alla fine era il medesimo: panorami scenografici (l’aggettivo troppo abusato sarebbe: mozzafiato) e paesi in pietra appollaiati su cime e speroni di roccia imprendibili, circondati da mura che presentavano porte ancora in funzione che a sera venivano chiuse per essere riaperte il mattino dopo.
Da lassù potevo ammirare le spettacolari montagne che si perdevano in lontananza, sulle cui cime svettavano paesi simili a torri di guardia. La corona di monti e villaggi che mi circondava dava la sensazione di essere al cospetto della Grande Muraglia cinese. Purtroppo spesso le case mostravano i segni del crescente abbandono e le cisterne per la raccolta dell’acqua piovana non erano più mantenute come un tempo.
La teoria dei villaggi è lunga: Thula, Shibam (stesso nome ma altra rispetto a quella più famosa del wadi Hadhramawt), Kawkaban, Al Mahwit, Manakha, Al Hajjara (per me la più spettacolare di tutte), At Tawila, Hajja, Ibb, Shahara (che vanta l’ardito e famoso ponte in pietra che collega da almeno 300 anni le due parti del paese superando uno strapiombo di oltre 300 metri). Di tutti questi paesi ricordo le grandi cisterne di raccolta dell’acqua piovana, necessarie alla sopravvivenza della popolazione e le slanciate case di pietra alte anche 6 o 7 piani.

Un’esperienza molto istruttiva a Shahara: mentre camminavo nella piazzetta di Shahara, alla ricerca delle angolazioni migliori per le mie foto vidi camminare verso di me tre bambini di otto o nove anni. Come gli altri compagni si stavano allontanando, quasi fuggendo, da un punto centrale del villaggio, epicentro della loro sofferenza: la scuola. Sorrisi pensando che la liberazione dalle costrizioni scolastiche rimane un momento di pura felicità a tutte le latitudini. Una leggera brezza mi portava il loro vociare festoso. I tre, con qualche quaderno sotto il braccio, parlottavano allegramente e di tanto in tanto una risata esplodeva dalle bocche sorridenti.
Appena si accorsero di me alzai il braccio per un saluto che mi aspettavo di vedere ricambiato. Ma questo non accadde. Si fermarono incerti e, quando videro che la mia direzione mi avrebbe portato da loro, aspettarono il mio arrivo senza muoversi. Di fronte ai tre bambini provai una strana sensazione di disagio che mi portò a trascurare la fila di pietre che ci separava, come una sorta di confine. I due più piccoli, immobili, tenevano gli occhi bassi come incuriositi dalle loro scarpe, mentre il più grandicello fece un passo avanti e mi guardò con occhi che non potrò mai più dimenticare. Erano occhi scuri, profondi ed esprimevano un tumulto di sentimenti: sorpresa, sconcerto e, mi parve, rimprovero. E soprattutto una profonda tristezza. Il bambino puntò l’indice della mano verso terra e pronunciò alcune parole che non afferrai. Quando comprese che non avevo capito le ripeté una seconda volta. A quel punto mi resi conto che stava tentando di parlare in inglese, ma non capivo cosa voleva dirmi e mi scusai più volte, “Sorry’, I didn’t understand”. Al terzo tentativo finalmente intesi quello che andava ripetendo con angoscia crescente: “They sleep”. They sleep? Dormono? Chi dorme?
Sotto il sole di Shahara di fronte ad un bambino di nove anni che mi stava scrutando con rimprovero mi sentivo nell’angolo, sotto i riflettori. Mi sembrava che tutto il mondo mi guardasse e mi indicasse come il più cialtrone dei turisti, mi mancavano solo i bermuda a fiori e i sandali per essere eletto loro rappresentante perfetto. Perché ormai avevo capito cosa rappresentava quel sottile confine di pietre che separava me e la mia imperdonabile stupidità dai bambini. Di là c’erano loro a camminare su un sentiero, di qua c’ero io a calpestare delle tombe! Stupido! Erano i morti a dormire! E dove potevano dormire i morti, se non in un cimitero, sotto terra, come il bambino si sforzava di indicarmi? E’ vero, si trattava di un vecchio cimitero e i tumuli, tutti di terra, non erano più riconoscibili, livellati dalla pioggia e dal passare del tempo. Ma sarebbe bastato poco per accorgersi che le pietre sparse in quello spazio segnavano delle tombe, certo non dei mausolei, ma comunque delle tombe. Solo un po’ di attenzione e di rispetto.  

Un percorso a rischio: chi visita lo Yemen e non si limita al nord e agli altipiani che circondano San’a, ma intende arrivare fino al wadi Hadhramawt, raggiunge Al-Mukalla attraverso il deserto in fuoristrada e ritorna in aereo o viceversa. Pochi affrontano in auto sia l’andata che il ritorno e quasi nessuno compie questa lunga traversata passando da Aden. Le due città distano quasi settecento chilometri di strada, molta di montagna, attraverso zone quasi desertiche. Per questo il percorso viene considerato troppo lungo e faticoso e quindi si preferisce l’aereo. Ma oltre alla lunghezza e alla fatica, uno dei motivi che rafforzano tale consuetudine è che le zone attraversate sono state negli anni particolarmente colpite dai sequestri di viaggiatori da parte di clan che avevano qualche ragione da rivendicare nei confronti del governo centrale. Ed inoltre le stesse zone, come ho detto, sono infestate ancora oggi da mine sparse in grande quantità nel recente e bellicoso passato del paese.
Era l’alba di un giorno che si annunciava limpido e assolato quando lasciammo Aden in direzione di Al-Mukalla. Fin dalle prime ore di viaggio mi resi conto di quale fantastico scenario si perda chi rinuncia a questo percorso. La strada corre verso est lungo la costa dell’oceano Indiano lambendo spiagge incontaminate e prive di qualsiasi presenza umana, interrotte di tanto in tanto da qualche villaggio di pescatori. Poi gira verso l’interno per raggiungere villaggi in pietra annidati all’interno di canyon scolpiti dall’acqua e dal vento in migliaia di anni di paziente erosione. Uno scenario stupendo.

Verso Al Mukalla, Yemen

Verso mezzogiorno in uno di questi villaggi, Habban, ci fermammo per il pranzo. Ci dirigemmo verso un piccolo ristorante sulla strada principale, convinti che anche nello Yemen valesse la regola che giudica di buona qualità i ristoranti con molti camion in sosta nel piazzale. Quello scelto rispondeva a questo requisito e ci avvicinammo. La giornata era calda ed il ristorante aveva distribuito i tavoli all’aperto sotto una tettoia di lamiera che avrebbe riparato gli avventori nel caso di un’improbabile pioggia. I tavoli, di ferro, erano molto ampi e avrebbero potuto fare posto ad almeno venti commensali, ma nessuno era del tutto libero. Ci accomodammo pertanto su tavoli diversi in piccoli gruppi separati ed aspettammo che il cameriere si presentasse per l’ordinazione. 
Nell’attesa avevo il tempo per guardarmi intorno e mi misi ad osservare i due commensali che sedevano al mio stesso tavolo di fronte a me.  Non si poteva dire che fossero molto diversi tra di loro o dai commensali seduti agli altri tavoli. Tutti indossavano il turbante o la kefiah a quadretti rossi e bianchi e il classico camicione a maniche lunghe che arriva alla gamba, abbottonato sul davanti e indossato sotto la giacca. Tutti portavano in cintura la jambiya e sfoggiavano lunghe barbe incolte. Di tanto in tanto mi sembrava che i loro occhi scurissimi mi fissassero più severi che curiosi, mentre consumavano il pasto continuando una conversazione con parole per me incomprensibili.
Quando ebbero terminato il pranzo si accesero una sigaretta e ordinarono un caffè, allungandosi all’indietro sulle sedie alla ricerca di una posizione più comoda. Però qualcosa che in precedenza non avevo notato ostacolava il movimento, qualcosa li intralciava dietro le spalle. Estrassero la cosa dalle pieghe della giacca e del camicione e la appoggiarono sul tavolo di fianco a loro. Ferro contro ferro l’oggetto recuperato produsse un colpo secco che mi fece sobbalzare. Non potevo credere ai miei occhi! Avevano appoggiato sul tavolo, entrambi e nello stesso momento, due kalashnikov! Tutti noi ci guardammo l’un l’altro come a chiedere conferma della visione, quindi volgemmo gli sguardi intorno e notammo che ai tavoli circostanti quasi tutti gli avventori avevano il kalashnikov di fianco al piatto. C’era addirittura chi ne aveva due. E che anche quelli che camminavano indaffarati sulla strada di fronte a noi ne avevano uno appeso alla spalla. Lo sapevo già: in molti villaggi dello Yemen, fuori dai tragitti più turistici, quella era una consuetudine consolidata. Tuttavia cominciò a crescere in me un’ansia profonda e mi sorpresi a scatenare la mente in una cavalcata attraverso le paure e i pregiudizi più ovvi e comuni ed in quel ristorante non avevo che l’imbarazzo della scelta. Tra lo Yemen e la sua storia recente, quella provincia a rischio di rapimenti, la città fuori dai circuiti turistici più battuti, le persone barbute sedute di fronte a me con il kalashnikov a portata di mano e la jambiya alla cintura, potevo scegliere tra una rosa molto ampia. E, nonostante gli sforzi per dissimularla, l’ansia non mi abbandonò fino a quando non ce ne andammo dal ristorante.

Un villaggio del Wadi Do'an, Yemen

Wadi Hadhramawt: nel centro del deserto yemenita del sudest, al bordo meridionale del più inospitale deserto del mondo (il Rub al-Khali, ossia "Il quarto vuoto", "quarto" inteso come "quarta parte) ancora ampiamente inesplorato e praticamente disabitato, si apre un’ampia fenditura dove c’è acqua sufficiente a permettere la pratica dell’agricoltura: il wadi Hadhramawt. Qui si sono succedute nei secoli fiorenti sultanati e da qui passava l’antica via dell’incenso. E’ una delle regioni più abitate del paese, la popolazione è dedita all’agricoltura e soprattutto all’allevamento, entrambe le attività praticate, come al solito, prevalentemente dalla donne. Le si scorgevano al seguito della greggi di capre o chine nei campi, vestite di nero e sotto gli altissimi cappelli di paglia.
A sud si apre una altro wadi più piccolo (wadi Do’an), il ramo più bello dell’Hadhramawt, con gli spettacolari paesini abbarbicati sui suoi fianchi a strapiombo.
Nell’Hadhramawt si incontrano tre bellissime, antiche città:
- Say’un con il suo fantastico palazzo del sultano, che noi trovammo in stato malmesso, anche se in teoria era stato trasformato in museo;

Shibam, Yemen


























- Tarim, città religiosa, che mostra una serie di fastosi palazzo, oggi quasi in abbandono, che dimostrano il livello dello splendore di un tempo e i tristi risultati di una pesante emigrazione. La città vanta anche un incredibile serie di moschee. Il numero ufficiale nel 2000 era 365, una per ogni giorno! La più bella quella di al-Muhdar.
- Shibam: merita una menzione particolare per l’incredibile fascino che emana e che deve la sua fama allo specifico stile architettonico che qui si è sviluppato e che ora è posto sotto la protezione dell'UNESCO. Anche se tutte le case di Shibam sono state costruite con mattoni di fango, ci sono circa 500 palazzi che raggiungono l'altezza di 5-9 piani. Quelle più vecchie risalgono al XVI secolo, anche se il sito è abitato da oltre 2.000 anni. La città è famosa per noi Italiani anche perché alla sua salvaguardia e allo studio del suo ingegnoso sistema di sfruttamento delle acque e del riciclo degli scarti umani e animali che nei secoli permise a Shibam di mantenere un’oasi rigogliosa
Il tempio del Sole, Marib, Yemen
(Yemen 1990), partecipò anche un architetto italiano (Pietro Laureano) presente nella lista dei consulenti Unesco come esperto delle zone aride, della civiltà islamica e degli ecosistemi in pericolo.
Per le sue caratteristiche Shibam è anche chiamata la più vecchia città-grattacielo del mondo, o la Manhattan del deserto.

Marib: è il sito archeologico più importante e famoso del paese, capitale del regno di Saba fino al VI secolo d.C. La fine dell’antica Marib fu causata da un disastro naturale. Piogge eccezionali, che gli abitanti raccoglievano in un enorme bacino artificiale creato da una diga di quasi un km di lunghezza, alta una ventina di metri. Fu questa diga a garantire per secoli il grande sviluppo agricolo della città e il conseguente benessere. Nel 570 la diga crollò riducendo la città a misero villaggio.
A ricordare l’antico splendore rimangono oggi i resti degli straordinari templi Sabei: i cinque pilastri (quadrati) del Tempio della Luna e, ancora più grandioso, il Tempio del Sole.




[1] Jalel Bougga, Le Yemen, Pueples du Monde et Itinérances, 1988

[2] Jambiya è il nome di un pugnale con una corta lama ricurva che si abbina ad un fodero ancor più marcatamente ricurvo. Benché la jambiya sia di origine araba, viene principalmente associata alle genti dello Yemen

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