in Zimbabwe: Harare, Old Zimbabwe, Matopos N.P., Hwange N.P., Victoria Falls e Zambesi N.P., Chizarira N.P., lago Kariba, Mana Pools N.P.
in Botswana: Chobe N.P., paludi di Savuti, riserva naturalistica Moremi, delta dell’Okavango, Maun, Nxai Pan N.P. e baobab di Baines, Magkadikgati Pan, Nata
Periodo: agosto-settembre 1992
Durata: 1 mese
Ne parlo nel libro: Il confine immaginario
Un mese immersi nell’autentica natura africana, un mese intero vissuto attraversando alcuni dei parchi più belli dell’Africa. Un viaggio in tempi nei quali il turismo non aveva ancora assunto le dimensioni attuali e quindi non proponeva lodge in ogni angolo. Ce n’erano alcuni, ovvio, ma il desiderio mio e di quelli che viaggiavano con me era, ed è ancora, quello di “vivere” l’Africa, a contatto davvero con la natura e gli animali. Quindi anche dove c’erano lodge, noi ne usavamo solo i servizi piantando comunque le nostre tende.
Di norma ci preparavamo
da noi i pasti e questo significava cercare ogni giorno la legna per il
fuoco. E ci dava la possibilità, appunto, di vivere a stretto contatto con gli animali.
Per esempio, era un problema difendere la cambusa dall’interesse dei babbuini,
ho visto un ippopotamo, che attraversava brucando il nostro campeggio non recintato, agganciare con
i denti una tenda e portarsela via lentamente. Capitava anche di osservare, con apprensione, gli elefanti avvicinarsi pericolosamente alle nostre tende. Emozione vera.
Great Zimbabwe (XI-XV secolo): Nella sua storia l’Africa
a sud del Sahara non ha mai potuto praticare davvero l’agricoltura. Il suolo
troppo arido e roccioso ne ha consentito uno sviluppo limitato. Per questo
motivo nessun popolo africano ha mai “inventato” l’aratro. I popoli africani
hanno praticato soprattutto la raccolta dei prodotti offerti dalla natura e la
caccia. Il che li ha costretti a un nomadismo più meno allargato e a lasciare poche
tracce di insediamenti stabili. Le antiche città del nord del continente non
contano, perché sono state costruite da popoli che venivano da fuori (Romani e
Arabi). E quindi di fronte alle imponenti rovine di Great Zimbabwe
rimasi meravigliato e stupito, non me l’aspettavo. A parte le dimensioni,
tutt’altro che trascurabili, mi colpirono per la ricchezza e le capacità
architettoniche testimoniate.
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Le rovine di Great Zimbabwe - Zimbabwe |
Le
imponenti mura di granito, le scale scolpite nella roccia, le torri e le piattaforme
un tempo avevano probabilmente uno scopo difensivo e ospitavano un popolo di
allevatori e forgiatori di metalli.
Tuttavia
molto delle origini e della storia di Great Zimbabwe rimane avvolto nel
mistero, il che me la rendeva ancora più affascinante.
Una tomba fuori posto: Chi osservasse una carta geografica
dell’Africa precedente agli anni ottanta, vi troverebbe la Rhodesia del nord e
la Rhodesia del sud che oggi si chiamano Zambia e Zimbabwe. Ancora nel 1992 le
scorte dei vecchi biglietti di ingresso ai parchi naturali dello Zimbabwe non
erano esaurite ed io ne ebbi uno sul quale si poteva ancora leggere Rhodesia.
Rhodesia, dal nome dell’inglese Cecil
John Rhodes, imprenditore, uomo d’affari, trafficante,
politico e molto altro, che ebbe un ruolo artefice di molti, violenti soprusi
sulla gente della regione. Nel parco
di Matopos, di fronte alla sua tomba, ripercorrevo una storia già sentita,
quella di un avventuriero che in Africa operò per sé e per una potenza
coloniale europea. Brutalità, violenza, inganno, sopraffazione. Una delle tante
nei secoli. Ma più della vita era per me inaccettabile la morte di Rodhes. Non
accettavo l’idea che avesse voluto essere sepolto in quel luogo per mettere in
atto un ultimo e definitivo sopruso: rimanere per sempre su quelle colline,
anche dopo la morte, vicino ai suoi possedimenti, alla sua roba. Nonostante
quel luogo fosse sacro agli Ndebele, che lo chiamavano Malindidzimu, la dimora
degli spiriti benevoli, Rhodes volle farne il suo mausoleo e gli cambiò perfino
il nome in View of the World, per il
fantastico panorama che da lassù si può ammirare.
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La tomba di Cecil John Rodes nel Matopos N. P. - Botswana |
A
spingerci a Matopos non era stata la tomba di Rhodes. Eravamo là per visitare
il parco alla ricerca dei rinoceronti a quei tempi quasi scomparsi dal paese.
Mentre ammiravo le colline e il caos di rocce che mi circondavano, come
accumulate per gioco da una forza superiore, in lontananza le antilopi al
pascolo tra le acacie mi ricordavano che ero in un parco africano. Anche i
rinoceronti che alcune ore prima avevamo scovato dopo lunghe ricerche erano
laggiù, da qualche parte.
Ma
in quel momento la mia mente rincorreva la storia dell’uomo che giaceva sotto
la pesante lastra tagliata in due dalla mia ombra. Il sole calava rapido, come
fa in Africa, come se avesse fretta di fuggire dall’altra parte del mondo e le
ombre delle rocce che avevo intorno si allungavano, si allargavano, si
fondevano, conquistavano spazio e spegnevano i colori del giorno. Forse prima
di morire Rhodes aveva scelto di persona anche il punto esatto nel quale
scavare la tomba e forse non fu un caso che quello fosse proprio l’ultimo su cui
il sole indugiò prima di calare dietro le rocce, come per un saluto serale. Ero
sorpreso e anche arrabbiato con il sole. Mi sembrava un segno immeritato di
delicatezza e di indulgenza verso un personaggio a cui andava tutta la mia
ostilità per le infamie compiute da quelle parti.
Ma
poi, lentamente, mi lasciai conquistare dalla dolcezza del crepuscolo e dalla
grandiosità del panorama e a poco a poco mi convinsi che persino per Rhodes, a
un secolo dalla morte, forse non valeva più la pena di provare astio. Questo mi
sembrava il punto di vista dell’Africa e in quel momento anch’io potevo essere
d’accordo ed interpretai quell’ultimo raggio di sole come un messaggio
di pace, forse di perdono. Nella serenità del tramonto sembrava che con la luce
si affievolisse anche l’importanza delle sue imprese, dei suoi intrallazzi,
eventi miserabili al cospetto della maestosità del continente. Sentivo che il
grande cuore dell’Africa poteva anche accettare con magnanimità e benevolenza
le spoglie del piccolo avventuriero venuto dal nord. Gli uomini passano, ma
l’Africa resta. Poi su quella fetta di mondo calò la sera.
Ai
funerali di Rhodes gli Ndebele chiesero che almeno non si sparassero i rituali
colpi di fucile in suo onore, per non disturbare gli spiriti che riposavano a
Malindidzimu. Chiesero e ottennero il silenzio, lo stesso silenzio che in quel
momento andava a poco a poco rasserenando il mio animo. Il silenzio di Malindidzimu, la sola
concessione che gli Ndebele ottennero da Cecil John Rhodes in tutta la sua
vita, quella che forse gli aveva assicurato il diritto di riposare lassù per
sempre, fra le rocce di Matopos.
Il fumo che tuona (le cascate
Vittoria): chissà
se l’emozione provata da David Livingstone quando arrivò qui nel 1855 fu
paragonabile alla mia quando mi affacciai per la seconda volta (la prima fu due
anni alla conclusione del viaggio in Namibia) sul precipizio che dà, come un
vertiginoso balcone, sul salto principale. Per me fu di nuovo veramente
profonda.
Il rombo assordante dello Zambesi, la nebbia creata dall’acqua che
precipita (da cui il nome locale: ‘il fumo che tuona’), gli arcobaleni che si
formano di continuo generano un contrasto impressionante con la calma placida
del fiume a monte del gran balzo. Gli ippopotami in queste acque calme
trascorrono la loro vita, poco attenti ai rischi che corrono. Qualcuno infatti
ogni tanto perde la gara con la corrente e viene trascinato via in fondo alle
rapide. Questo fu il racconto (un po’ preoccupante) del barcaiolo che ci
condusse sul fiume a monte delle rapide, a poca distanza dalla cascata. Ricordo
l’impressione che mi fece arrivare in barca a un centinaio di metri dal salto
nel vuoto: davanti ai miei occhi avevo il fronte placido del grande fiume,
largo più di un km, che scompariva sotto una linea immaginaria oltre la quale
c’era solo cielo: l’immenso fiume infatti improvvisamente svaniva nel nulla. Da
batticuore.
“Acqua sprecata” (Il delta
dell’Okavango): questa
definizione non poteva arrivare che da beceri capitalisti, colonialisti e bianchi. Uno fu un tal J.H. Wellington che nel
1955 pensava di deviare le acque del delta verso il sud del paese al fine di
irrigare un’ampia area su cui aveva ovviamente degli interessi personali. La stessa idea
l’aveva avuta anni prima nientemeno che il famoso Cecil Rhodes in persona,
sempre per lo stesso fine. Perché questo enorme mare di acqua dolce “sprecata”,
poiché non utilizzata ai loro interessi, da sempre fa gola in un paese arido
come il Botswana. Ma le acque dell’Okavango non sono sprecate: danno vita ad un
immenso territorio popolato da gente che vive dei suoi frutti e da un’enorme
numero di specie di animali e piante. Un vero e paradiso terrestre, forse unico
al mondo. La battaglia per la sua salvaguardia comunque è in corso da tempo e i
rischi non sono scongiurati.
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Le lagune del delta dell'Okavango - Botswana |
Il fiume
Okavango arriva dall’Angola, arriva in Botswana, attraversa 1.300 km di terreno
arido e sabbioso e non arriva mai la mare. Entra in una depressione al
centro del paese formando un delta interno immenso e qui rimane intrappolato.
Quando le piogge in Angola cessano, le acque calano fino ad asciugarsi in attesa
che le piogge successive allaghino di nuovo il delta.
Navigammo
sulle sue acque per tre giorni su esili piroghe di legno che i barcaioli locali
spingevano con lunghe pertiche e con grande fatica. Navigavamo in un mare di
fiori d’acque e ninfee come se fossimo in un laghetto dei giardini pubblici. Da
questo delta (profondo 1 o 2 metri al massimo) emergono alcune isole, sulle quali
noi piantammo il nostro campo e da lì ogni giorno partivamo a piedi o in piroga
alla ricerca degli animali. Ci accompagnavano un paio di ranger (il delta è un parco nazionale) armati in caso di incontri
pericolosi (leoni). Mi sono sempre chiesto in quella o in altre occasioni
simili come avrei reagito in caso che i ranger avessero dovuto usare davvero il
fucile contro un leone o un leopardo… Per fortuna non capitò allora come pure negli altri casi, anche se l’attacco di una leonessa a un babbuino, a meno di 50
metri da noi, aumentò non poco il mio battito cardiaco.
I baobab di Baines: immaginiamo un’immensa distesa bianca
di sale (asciutta perché non era la stagione delle piogge) che si estende a
nord a sud della strada che va da Maun a Nata. Da una parte il Makgadikgati
Pans N.P. e dall’altra il Nxai Pan N.P. A un certo punto dalla strada parte una
pista che entra in quest’ultimo e punta verso nord. Ai bordi della distesa di
sale di un bianco abbacinante, la pista
sabbiosa dopo qualche decina di km sale su una leggerissima altura di pochi
metri (sufficienti però per alzarsi dalla distesa del sale) e raggiunge un
boschetto tra i più stupefacenti che abbia mai visto. Si tratta di baobab di enormi dimensioni che sopravvivono
egregiamente in un ambiente ostile dove non c’è acqua, o se c’è, è salata.
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Un gioello della natura: i baobab di Baines nel Magadikgati Pans N.P. - Botswana |
La loro
storia è affascinante. Devono il nome a Thomas Baines, esploratore del ‘800
e valente pittore, conosciuto soprattutto per sue pitture delle cascate
Vittoria. Nel maggio del 1862, mentre viaggiava dalla Namibia verso le cascate,
dipinse questi impressionanti baobab. Mi apparvero allora, come appaiono oggi, esattamente
come li dipinse Baines più di 150 anni fa, maestosi nella piatta distesa di
sale.
Ricorderò per sempre il
campo tra quegli alberi che, sotto la luce opaca della luna, incutevamo timore: sembravano mostri
pronti a ghermirci. E ricorderò anche con tenerezza una volpe
del capo che venne, timorosa, a rubarci un po’ di cibo.
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