sabato 23 aprile 2016

Viaggio in Zimbabwe, Botswana

Paesi attraversati: Zimbabwe, Botswana
Leopardo nella Riserva Nat. Moremi - Botswana
Itinerario: 
in Zimbabwe: Harare, Old Zimbabwe, Matopos N.P., Hwange N.P., Victoria Falls e Zambesi N.P., Chizarira N.P., lago Kariba, Mana Pools N.P.
in Botswana: Chobe N.P., paludi di Savuti, riserva naturalistica Moremi, delta dell’Okavango, Maun, Nxai Pan N.P. e baobab di Baines, Magkadikgati Pan, Nata
Periodo: agosto-settembre 1992
Durata: 1 mese
Ne parlo nel libro: Il confine immaginario

Un mese immersi nell’autentica natura africana, un mese intero vissuto attraversando alcuni dei parchi più belli dell’Africa. Un viaggio in tempi nei quali il turismo non aveva ancora assunto le dimensioni attuali e quindi non proponeva lodge in ogni angolo. Ce n’erano alcuni, ovvio, ma il desiderio mio e di quelli che viaggiavano con me era, ed è ancora, quello di “vivere” l’Africa, a contatto davvero con la natura e gli animali. Quindi anche dove c’erano lodge, noi ne usavamo solo i servizi piantando comunque le nostre tende.

Elefanti nel parco nazionale delle cascate Vittoria - Zimbabwe

Di norma ci preparavamo da noi i pasti e questo significava cercare ogni giorno la legna per il fuoco. E ci dava la possibilità, appunto, di vivere a stretto contatto con gli animali. Per esempio, era un problema difendere la cambusa dall’interesse dei babbuini, ho visto un ippopotamo, che attraversava brucando il nostro campeggio non recintato, agganciare con i denti una tenda e portarsela via lentamente. Capitava anche di osservare, con apprensione, gli elefanti avvicinarsi pericolosamente alle nostre tende. Emozione vera.

Great Zimbabwe (XI-XV secolo): Nella sua storia l’Africa a sud del Sahara non ha mai potuto praticare davvero l’agricoltura. Il suolo troppo arido e roccioso ne ha consentito uno sviluppo limitato. Per questo motivo nessun popolo africano ha mai “inventato” l’aratro. I popoli africani hanno praticato soprattutto la raccolta dei prodotti offerti dalla natura e la caccia. Il che li ha costretti a un nomadismo più meno allargato e a lasciare poche tracce di insediamenti stabili. Le antiche città del nord del continente non contano, perché sono state costruite da popoli che venivano da fuori (Romani e Arabi). E quindi di fronte alle imponenti rovine di Great Zimbabwe rimasi meravigliato e stupito, non me l’aspettavo. A parte le dimensioni, tutt’altro che trascurabili, mi colpirono per la ricchezza e le capacità architettoniche testimoniate.


Le rovine di Great Zimbabwe - Zimbabwe

Le imponenti mura di granito, le scale scolpite nella roccia, le torri e le piattaforme un tempo avevano probabilmente uno scopo difensivo e ospitavano un popolo di allevatori e forgiatori di metalli.
Tuttavia molto delle origini e della storia di Great Zimbabwe rimane avvolto nel mistero, il che me la rendeva ancora più affascinante.

Una tomba fuori posto: Chi osservasse una carta geografica dell’Africa precedente agli anni ottanta, vi troverebbe la Rhodesia del nord e la Rhodesia del sud che oggi si chiamano Zambia e Zimbabwe. Ancora nel 1992 le scorte dei vecchi biglietti di ingresso ai parchi naturali dello Zimbabwe non erano esaurite ed io ne ebbi uno sul quale si poteva ancora leggere Rhodesia. Rhodesia, dal nome dell’inglese Cecil John Rhodes, imprenditore, uomo d’affari, trafficante, politico e molto altro, che ebbe un ruolo artefice di molti, violenti soprusi sulla gente della regione. Nel parco di Matopos, di fronte alla sua tomba, ripercorrevo una storia già sentita, quella di un avventuriero che in Africa operò per sé e per una potenza coloniale europea. Brutalità, violenza, inganno, sopraffazione. Una delle tante nei secoli. Ma più della vita era per me inaccettabile la morte di Rodhes. Non accettavo l’idea che avesse voluto essere sepolto in quel luogo per mettere in atto un ultimo e definitivo sopruso: rimanere per sempre su quelle colline, anche dopo la morte, vicino ai suoi possedimenti, alla sua roba. Nonostante quel luogo fosse sacro agli Ndebele, che lo chiamavano Malindidzimu, la dimora degli spiriti benevoli, Rhodes volle farne il suo mausoleo e gli cambiò perfino il nome in View of the World, per il fantastico panorama che da lassù si può ammirare.


La tomba di Cecil John Rodes nel Matopos N. P. - Botswana
A spingerci a Matopos non era stata la tomba di Rhodes. Eravamo là per visitare il parco alla ricerca dei rinoceronti a quei tempi quasi scomparsi dal paese. Mentre ammiravo le colline e il caos di rocce che mi circondavano, come accumulate per gioco da una forza superiore, in lontananza le antilopi al pascolo tra le acacie mi ricordavano che ero in un parco africano. Anche i rinoceronti che alcune ore prima avevamo scovato dopo lunghe ricerche erano laggiù, da qualche parte.
Ma in quel momento la mia mente rincorreva la storia dell’uomo che giaceva sotto la pesante lastra tagliata in due dalla mia ombra. Il sole calava rapido, come fa in Africa, come se avesse fretta di fuggire dall’altra parte del mondo e le ombre delle rocce che avevo intorno si allungavano, si allargavano, si fondevano, conquistavano spazio e spegnevano i colori del giorno. Forse prima di morire Rhodes aveva scelto di persona anche il punto esatto nel quale scavare la tomba e forse non fu un caso che quello fosse proprio l’ultimo su cui il sole indugiò prima di calare dietro le rocce, come per un saluto serale. Ero sorpreso e anche arrabbiato con il sole. Mi sembrava un segno immeritato di delicatezza e di indulgenza verso un personaggio a cui andava tutta la mia ostilità per le infamie compiute da quelle parti.
 Ma poi, lentamente, mi lasciai conquistare dalla dolcezza del crepuscolo e dalla grandiosità del panorama e a poco a poco mi convinsi che persino per Rhodes, a un secolo dalla morte, forse non valeva più la pena di provare astio. Questo mi sembrava il punto di vista dell’Africa e in quel momento anch’io potevo essere d’accordo ed interpretai quell’ultimo raggio di sole come un messaggio di pace, forse di perdono. Nella serenità del tramonto sembrava che con la luce si affievolisse anche l’importanza delle sue imprese, dei suoi intrallazzi, eventi miserabili al cospetto della maestosità del continente. Sentivo che il grande cuore dell’Africa poteva anche accettare con magnanimità e benevolenza le spoglie del piccolo avventuriero venuto dal nord. Gli uomini passano, ma l’Africa resta. Poi su quella fetta di mondo calò la sera.
 Ai funerali di Rhodes gli Ndebele chiesero che almeno non si sparassero i rituali colpi di fucile in suo onore, per non disturbare gli spiriti che riposavano a Malindidzimu. Chiesero e ottennero il silenzio, lo stesso silenzio che in quel momento andava a poco a poco rasserenando il mio animo. Il silenzio di Malindidzimu, la sola concessione che gli Ndebele ottennero da Cecil John Rhodes in tutta la sua vita, quella che forse gli aveva assicurato il diritto di riposare lassù per sempre, fra le rocce di Matopos.

Il fumo che tuona (le cascate Vittoria): chissà se l’emozione provata da David Livingstone quando arrivò qui nel 1855 fu paragonabile alla mia quando mi affacciai per la seconda volta (la prima fu due anni alla conclusione del viaggio in Namibia) sul precipizio che dà, come un vertiginoso balcone, sul salto principale. Per me fu di nuovo veramente profonda. 
Le cascate Victoria - Zimbabwe

Il rombo assordante dello Zambesi, la nebbia creata dall’acqua che precipita (da cui il nome locale: ‘il fumo che tuona’), gli arcobaleni che si formano di continuo generano un contrasto impressionante con la calma placida del fiume a monte del gran balzo. Gli ippopotami in queste acque calme trascorrono la loro vita, poco attenti ai rischi che corrono. Qualcuno infatti ogni tanto perde la gara con la corrente e viene trascinato via in fondo alle rapide. Questo fu il racconto (un po’ preoccupante) del barcaiolo che ci condusse sul fiume a monte delle rapide, a poca distanza dalla cascata. Ricordo l’impressione che mi fece arrivare in barca a un centinaio di metri dal salto nel vuoto: davanti ai miei occhi avevo il fronte placido del grande fiume, largo più di un km, che scompariva sotto una linea immaginaria oltre la quale c’era solo cielo: l’immenso fiume infatti improvvisamente svaniva nel nulla. Da batticuore.

“Acqua sprecata” (Il delta dell’Okavango): questa definizione non poteva arrivare che da beceri capitalisti, colonialisti e bianchi. Uno fu un tal J.H. Wellington che nel 1955 pensava di deviare le acque del delta verso il sud del paese al fine di irrigare un’ampia area su cui aveva ovviamente degli interessi personali. La stessa idea l’aveva avuta anni prima nientemeno che il famoso Cecil Rhodes in persona, sempre per lo stesso fine. Perché questo enorme mare di acqua dolce “sprecata”, poiché non utilizzata ai loro interessi, da sempre fa gola in un paese arido come il Botswana. Ma le acque dell’Okavango non sono sprecate: danno vita ad un immenso territorio popolato da gente che vive dei suoi frutti e da un’enorme numero di specie di animali e piante. Un vero e paradiso terrestre, forse unico al mondo. La battaglia per la sua salvaguardia comunque è in corso da tempo e i rischi non sono scongiurati.


Le lagune del delta dell'Okavango - Botswana

Il fiume Okavango arriva dall’Angola, arriva in Botswana, attraversa 1.300 km di terreno arido e sabbioso e non arriva mai la mare. Entra in una depressione al centro del paese formando un delta interno immenso e qui rimane intrappolato. Quando le piogge in Angola cessano, le acque calano fino ad asciugarsi in attesa che le piogge successive allaghino di nuovo il delta.
Navigammo sulle sue acque per tre giorni su esili piroghe di legno che i barcaioli locali spingevano con lunghe pertiche e con grande fatica. Navigavamo in un mare di fiori d’acque e ninfee come se fossimo in un laghetto dei giardini pubblici. Da questo delta (profondo 1 o 2 metri al massimo) emergono alcune isole, sulle quali noi piantammo il nostro campo e da lì ogni giorno partivamo a piedi o in piroga alla ricerca degli animali. Ci accompagnavano un paio di ranger (il delta è un parco nazionale) armati in caso di incontri pericolosi (leoni). Mi sono sempre chiesto in quella o in altre occasioni simili come avrei reagito in caso che i ranger avessero dovuto usare davvero il fucile contro un leone o un leopardo… Per fortuna non capitò allora come pure negli altri casi, anche se l’attacco di una leonessa a un babbuino, a meno di 50 metri da noi, aumentò non poco il mio battito cardiaco.

I baobab di Baines: immaginiamo un’immensa distesa bianca di sale (asciutta perché non era la stagione delle piogge) che si estende a nord a sud della strada che va da Maun a Nata. Da una parte il Makgadikgati Pans N.P. e dall’altra il Nxai Pan N.P. A un certo punto dalla strada parte una pista che entra in quest’ultimo e punta verso nord. Ai bordi della distesa di sale di un  bianco abbacinante, la pista sabbiosa dopo qualche decina di km sale su una leggerissima altura di pochi metri (sufficienti però per alzarsi dalla distesa del sale) e raggiunge un boschetto tra i più stupefacenti che abbia mai visto. Si tratta di baobab  di enormi dimensioni che sopravvivono egregiamente in un ambiente ostile dove non c’è acqua, o se c’è, è salata.


Un gioello della natura: i baobab di Baines nel Magadikgati Pans N.P. - Botswana

La loro storia è affascinante. Devono il nome a Thomas Baines, esploratore del ‘800 e valente pittore, conosciuto soprattutto per sue pitture delle cascate Vittoria. Nel maggio del 1862, mentre viaggiava dalla Namibia verso le cascate, dipinse questi impressionanti baobab. Mi apparvero allora, come appaiono oggi, esattamente come li dipinse Baines più di 150 anni fa, maestosi nella piatta distesa di sale.
Ricorderò per sempre il campo tra quegli alberi che, sotto la luce opaca della luna, incutevamo timore: sembravano mostri pronti a ghermirci. E ricorderò anche con tenerezza una volpe del capo che venne, timorosa, a rubarci un po’ di cibo. 


Nessun commento:

Posta un commento