Itinerario: Antananarivo, Toulear, Andavadoaka
Periodo: luglio-agosto 2016
Durata: 1 mese
Raggiungere
un villaggio di 3.000 anime nel sud-ovest del Madagascar, rimanerci un mese, poi
tornare a casa. Si può chiamare ‘viaggio’? Certamente non nel senso geografico
del termine, ma se accettiamo qualche luogo comune (ad esempio “viaggio come
conoscenza di se stessi”), beh, forse, in questo caso, potremmo parlare
di viaggio. Tuttavia cambio termine, lo chiamo ‘missione’ che è il termine con il quale chiamiamo le trasferte che un volontario compie per andare a lavorare
in un paese terzo. Non è questa la sede per parlare di associazionismo e volontariato. Qui mi piace parlare di un’esperienza
per me del tutto nuova.
Ad
Andavadoaka (sud-ovest del Madagascar) non c’è guerra, non ci sono carestie o emergenze umanitarie. Non
manca l’acqua e c’è da mangiare per tutti, poco frequenti i casi di sottonutrizione. Ho visto nella mia vita paesi in
condizioni peggiori del Madagascar. Tuttavia avere da mangiare non è
incompatibile con una condizione di estrema povertà dove i diritti più
elementari (salute, istruzione) arrancano. Per una volta nella mia vita di
viaggiatore non ho “attraversato” un luogo, mi ci sono fermato e ho conosciuto un
po’ le persone del posto, molte le incontravo quasi tutti i giorni. Per loro
rimanevo sempre un “vasà”, uno straniero, tuttavia col passare dei giorni i
bambini, all’ennesimo incontro, hanno smesso di chiedermi “photo” e “cadeaux”,
mi salutavano come si saluta un conoscente. Ho tenuto anche un corso di
italiano che ha avuto molto successo.
Ero arrivato per aiutare l’ospedale, abitavo lì accanto e ho potuto osservare medici e infermieri visitare pazienti, somministrare cure, i chirurghi operare, i dentisti curare bocche malmesse. Dopo la mia partenza sono arrivati anche gli oculisti per occuparsi di cateratte e altro. Insomma ho visto un ospedale in attività. Mi si potrebbe chiedere: non avevi mai visto un ospedale? Certo che l’avevo visto. E dove sta la differenza? Risposta facile: non avevo mai visto un ospedale operare in regime di risorse limitate o quanto meno non al livello al quale siamo abituati noi fortunati occidentali. Intendiamoci: le risorse tecnologiche a disposizione dell’ospedale di Andavadoaka non sono banali, ma non siamo a Bologna e là non si può avere tutto quello che abbiamo qui. E in queste condizioni anche le risorse umane (medici e infermieri), pur di alto livello, a volte devono arrendersi. E’ quello che è accaduto con Elisabeth, nata troppo presto (sette mesi) nella sabbia, soffocata dalla placenta e arrivata all’ospedale troppo tardi. Forse non aveva respirato immediatamente dopo la nascita, probabilmente aveva subito danni cerebrali, forse… forse… E forse se potesse esserci all’ospedale un reparto di terapia intensiva neonatale… Ma non può esserci e quindi dopo un mese di lotta i medici hanno dovuto lasciarla al suo destino. La famiglia ha accettato il verdetto ed è venuta a riprendersela, perché qui preferiscono morire a casa. A sera la nonna è ritornata all’ospedale per annunciarci che Elisabeth era morta e a ringraziare per quanto medici e infermieri avevano fatto per lei. Una grande elezione per me.
Come
sempre mi capita nei paesi poveri che hanno subito il colonialismo degli
europei, ho dovuto fare i conti con il senso di colpa per essere troppo ricco rispetto
a loro. E so che non posso pagare per colpe che non ho commesso personalmente,
tuttavia so anche che il mio benessere dipende dalla loro povertà. La povertà
della gente di Andavadoaka, delle donne che portano sulla testa taniche da
venti litri d’acqua e bambini scalzi che giocano con una palla di stracci. E
penso che potremo e dovremo fare ancora molto per loro, ma il conto non si
pareggerà mai, anche se costruiremo altri cento ospedali. E guardando i loro
occhi sorridenti, spesso attraverso il mirino di una macchina fotografica, sono
sicuro che lo pensavano anche loro.
Questo è stato il vero viaggio: vedere ancora una volta, come mi è accaduto in Etiopia o in Ruanda o in India, cosa significhi nascere casualmente in un luogo sfortunato, toccare con mano, concretamente, l’ingiustizia del mondo. E sorridere amaramente di fronte agli sperperi di noi occidentali, al nostro ingordo egoismo e alla nostra arrogante stupidità. Una settimana ad Andavadoaka (dove comunque, ripeto, nessuno muore di fame e Internet funziona alla perfezione) aiuterebbe molto a capire.
In
questo mese non ho conosciuto solo malgasci, ho conosciuto anche giovani in
gamba che lavoravano all’ospedale (medici e infermieri, specializzandi o anche
solo laureandi), impegnati e responsabili. Intenti a costruirsi la loro strada con
determinazione, affrontano le incertezze che già la vita propone loro col
sorriso sulle labbra. A loro va il mio grazie di cuore per avermi allontanato
un po’ dall’idea che i giovani siano solo quelli che cazzeggiano in zona
universitaria. E anche questa scoperta è patrimonio del mio viaggio ad
Andavadoaka.
La
foresta spinosa. Attorno ad Andavadoaka cresce la spettacolare
“foresta spinosa” uno dei più affascinanti biotopi del mondo. La zona è arida e
sabbiosa, c’è deserto, dune che arrivano al mare. Vi crescono piante succulente
coperte di spine e aculei che hanno saputo adattarsi al clima arido e
sfavorevole. Dominano le euforbie e gli “alberi piovra” (didieracee) che protendono i loro rami spinosi verso il cielo. La
foresta è abitata da molte specie di uccelli che purtroppo la loro ridotta
dimensione non consente di osservare nei dettagli. Per gli amanti della natura questa
zona è uno spettacolo.
I baobab. Se devo pensare a un simbolo
che rappresenti il paese, dopo questo viaggio di sicuro mi viene in mente il
baobab. Ne avevo visto molti in vita mia, ma mai nella densità che si presenta
da queste parti.
Belli, enormi, resistenti e vecchissimi, rappresentano la forza, la durata nei secoli. Sfidano il tempo. Basta una camminata di un’ora dal paese per raggiungere una vera foresta di questi giganti.
Belli, enormi, resistenti e vecchissimi, rappresentano la forza, la durata nei secoli. Sfidano il tempo. Basta una camminata di un’ora dal paese per raggiungere una vera foresta di questi giganti.
La balene. Non ho potuto vedere i
lemuri, animali endemici che vivono solo in Madagascar, ma in altre regioni. In
compenso Andavadoaka giace sul canale di Mozambico e qui in agosto passano le
balene. Occasione che non mi sono lasciato scappare. Nel villaggio i soli
veicoli a motore sono i quad dei
pochi stranieri (soprattutto italiani) che abitano qui e gli sgangherati
“taxi-brousse” che collegano il villaggio a Toulear e Morombé. Tutti insieme
non arrivano a dieci. Non ci sono quindi barche a motore, ma solo piroghe
spinte da vele incerte e robuste braccia di vogatori. Quindi la “caccia alle
balene” è un’attività difficile anche se nuotano vicine alla riva. Se c’è vento
(e quindi le vele possono aiutare la navigazione) il mare si ingrossa, le
piroghe non ce la fanno e comunque le balene non emergono. Questo è stato il
caso delle mia prima fallimentare uscita. Se al contrario c’è bonaccia le
balene si fanno vedere ma le vele diventano inutili. E questo fortunatamente è
stato il caso della seconda. Ma inseguire le balene pagaiando è dura e quindi
ci si accontenta di vederle dalla media o lunga distanza.
A meno che… un gruppetto di due o tre esemplari non nuoti a 50 metri dalla piroga: questo è stato il colpo di fortuna della giornata. E allora le vedi emergere e saltare (sono megattere) e giocare a ricorrersi. Uno spettacolo indimenticabile. Al quale si aggiunge il silenzio rotto solo dai soffi possenti dei loro sfiatatoi e dai colpi che battono sull’acqua con le pinne. E l’assenza di puzza di carburante.
A meno che… un gruppetto di due o tre esemplari non nuoti a 50 metri dalla piroga: questo è stato il colpo di fortuna della giornata. E allora le vedi emergere e saltare (sono megattere) e giocare a ricorrersi. Uno spettacolo indimenticabile. Al quale si aggiunge il silenzio rotto solo dai soffi possenti dei loro sfiatatoi e dai colpi che battono sull’acqua con le pinne. E l’assenza di puzza di carburante.
Il Bilo (pronuncia
“bilù”). Il
Madagascar presenta una grande varietà etnica. Nella regione di Andavadoaka
convivono diverse etnie tra cui i Vezo,
il popolo del mare, i pescatori che vivono sulla cosa e che hanno dato il nome
al nostro ospedale e i Masikoro,
coltivatori e allevatori che vivono nell’entroterra. Rita Astuti, che ha
studiato a fondo entrambi, nel suo ‘People
of the sea’ sostiene che gli uni sono quello che gli altri non sono, incompatibili
gli uni agli altri, così diversi ma allo stesso tempo identici per storia e
tradizione. Una “differenza per analogia” la definisce. E infatti solo un
locale riuscirebbe a distinguerli.
Così,
quando mi hanno accompagnato sul mezzo di trasporto più classico (il carretto a
due ruote trainato da una coppia di zebù) al bilo che si teneva ad Ambalorao, a qualche chilometro da
Ampasilava, credevo di partecipare a una festa Vezo. Mi hanno spiegato invece che ero a una festa Masikoro. Poco male, era comunque molto
interessante.
Il bilo è una festa, ma anche un rito magico di guarigione che si tiene per propiziare l’uscita di qualcuno dalla malattia. Un rito che intelligentemente hanno imparato a coniugare con l’accesso contemporaneo ai servizi dell’ospedale. Una sorta di “rinforzo” alla medicina dei “Vasa”. Mi accompagnava Dera e alla festa ho trovato Hodin e Soane, tutti operatori che lavorano all’ospedale. Introdotto da Dera ho potuto muovermi a piacimento nel villaggio, ovviamente unico bianco presente. Mi hanno chiesto di contribuire con una piccola donazione, richiesta che era rivolta anche agli altri gruppi di invitati e partecipanti che arrivavano con banconote da 10 o 5.000 ariary (la moneta malgascia) fissate su bandiere e vessilli. Tutte le donazioni (la mia compresa) venivano diligentemente registrate su un quaderno. Tutto regolare. Difficile conoscere a fondo e capire lo svolgimento del bilo, anche perché si tiene in più giorni. Inoltre si tratta di una pratica che, suppongo, vada scomparendo e quindi anche i miei informatori, tra incertezze linguistiche e, forse, conoscenze imprecise data la giovane età, non hanno saputo spiegarmi più di tanto. Quindi racconto quello che ho potuto osservare.
Ambalorao
è un piccolo villaggio di capanne con al centro un maestoso tamarindo, il
fulcro della festa. All’ombra della sua chioma trovava posto l’orchestra. Tre i
suoi componenti. Suonavano rispettivamente: un piccolo organetto, una sorta di
grande chitarra con la cassa rettangolare di legno e un simil-tamburo di legno,
anch’esso quadrato, per le percussioni. Abbinata a questo una moltiplica da
bicicletta serviva a ottenere i suoni più squillanti. Sembrava impossibile che
da un simile armamentario potesse uscire il suono compiuto, riconoscibile che
giungeva alle mie orecchie, certo ripetitivo, ma coinvolgente.
Di fronte all’orchestra arrivavano a turno gruppi di festaioli che al suono dell’orchestra iniziavano un ballo molto ritmico e veloce. Particolarmente abili le donne, di ogni età. I passi e i movimenti del ballo mi sono sembrati a prima vista semplici, perfino banali. In realtà erano semplici, ma tutt’altro che banali e effettuati a gran velocità, quella dettata dalla musica. Ho provato anch’io, ma a confronto con la loro eleganza, sembravo un ridicolo ubriaco. Sopra la testa dei danzatori, alcuni si preoccupavano di spargere birra a volontà. Tutt’intorno, oltre alla birra, non mancava il rum. Tuttavia non ricordo di aver visto un ubriaco. Dopo qualche ballo il gruppo si scioglieva per venire immediatamente sostituito da un altro.
A volte i suonatori lasciavano l’ombra del tamarindo per recarsi presso qualche capanna per continuare là la festa. Oppure, dopo essere andati incontro a un gruppo di invitati in arrivo, lo accompagnavano sotto il tamarindo per ricominciare con loro. C’era chi cucinava e offriva cibi, chi distribuiva bevande, chi osservava chiacchierando. Non è stato facile per me, quasi astemio, sottrarmi alle offerte di rum che mi arrivavano da ogni parte.
L’aspetto
della festa che tuttavia più mi impressionava, era la quantità di colpi che una
decina di giovani sparavano in aria con vecchi fucili caricati a salve.
Guardavo quei fucili con apprensione, meravigliato che non scoppiassero ad ogni
colpo in faccia agli sparatori. A lato della festa un gruppo di “artificieri”
improvvisati si incaricava di riconfezionare le cartucce appena sparate.
Pericolosissimo. I colpi erano tremendi e dovevo fare attenzione ai miei
timpani perché chi sparava lo faceva in mezzo alla gente, preferibilmente i
ballerini. Spesso era rintronato da un colpo sparato a mezzo metro dalle mie
orecchie. E mi sono reso conto dopo un po’ del motivo per il quale non erano
pochi quelli che partecipavano alla festa tenendosi un po’ in disparte.
Così
ho trascorso il pomeriggio al Bilo di
Ambalorao fino a quando, mentre il sole precipitava dietro i baobab, un carretto
strapieno di autoinvitati per un passaggio (pagato da me) non mi ha riaccompagnato
ad Andavadoaka .
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