"Chuchkajaue" (capopreghiera) all'opera sulla gradinata di San Tomàs a Chichicastenango - Guatemala |
Itinerario:
in Guatemala: Guatemala
City, Antigua, lago Atitlàn (Panajachel, Santiago Atitlàn, San Lucas Tolimàn),
Chichicastenango, la cordillera de
Los Cuchumatanes (villaggi Maya Ixil, Uspatàn), lago Petén Itzà, la città maya
di Tikal, Livingston, le steli maya di Quiriguà, Esquipulas;
in Honduras: Copàn
Ruinas, la città maya di Copàn
Periodo: febbraio 2002
Durata: 3
settimane
Ne parlo nel libro: Il gatto buddhista
Ne parlo nel libro: Il gatto buddhista
Un viaggio entusiasmante, molto vario, in grado di
soddisfare molteplici interessi. Primo tra tutti l’archeologia con i maestosi
siti maya di Tikal e Copàn, poi, e non da meno, l’etnologia con i contatti
costanti con la cultura e i costumi della popolazione maya che ancor oggi vivono nel paese e che si manifestano ovunque, principalmente nelle zone rurali. Una
mescolanza interessante tra religione cattolica, riti maya e magia emerge non appena
si esce, e neanche tanto, dalle città e dai luoghi più battuti dal turismo di
massa.
Aggiungiamo la paleontologia, con gli importanti ritrovamenti di scheletri fossili di mastodonti primordiali che sono stati radunati nel piccolo ma interessante museo di Estanzuela.
Aggiungiamo la paleontologia, con gli importanti ritrovamenti di scheletri fossili di mastodonti primordiali che sono stati radunati nel piccolo ma interessante museo di Estanzuela.
Antigua: per questa città accogliente e tranquilla
contano due date: 10 marzo 1543, giorno della sua fondazione e 29 luglio 1773, giorno
della sua distruzione causata da un terremoto. La prima le aveva dato
un’architettura tipica coloniale di impronta spagnola ancora oggi facilmente
riconoscibile, la seconda la riempì di rovine di chiese e palazzi che si
possono vedere lungo le sue strade acciottolate. Il terremoto trasferì a Città
del Guatemala la capitale, ma non il fascino e il calore che la città ancora
emana. E infatti non c’è turista che, arrivato in Guatemala, soggiorni nella
capitale: appena sceso dall’aereo parte immediatamente per Antigua, ora
patrimonio dell’UNESCO (a meno di 50 km). Nella capitale tornerà poi per
un’unica ragione: visitarne i musei tra i quali lo splendido Museo nacional de Arqueologia e Etnologia. Camminare
per il centro di Antigua era un piacere unico, in particolare nella piazza
centrale (Parque Central) circondata
dalla cattedrale e da bellissimi palazzi storici. Per le strade si avvertiva
già aria di Settimana Santa con processioni e manifestazioni religiose tenute
dalla diverse confraternite (cofradìas,
vedi più avanti). Ancora più belle dei palazzi erano le chiese, che
denunciavano l’antico ruolo della città quale capitale del paese, forse troppo
numerose per le sue attuali dimensioni e troppo imponenti.
La Merced, la chiesa coloniale più straordinaria di Antigua, la chiesa di San Francesco, del cui edificio
originale non rimane molto, ma ugualmente affascinante. Non mancano le facciate
isolate e sole, uniche superstiti di chiese minori crollate per i terremoti. Toccanti
i ruderi della chiesa e del convento
della Recolecciòn, anch’essi distrutti da un terremoto nel ‘700. La
posizione della città è spettacolare, al centro di una vallata circondata da
alcuni vulcani, come il Pacaya in
quei giorni in piena attività. Non è raro riuscirne ad ammirare una colata dal
Parque Central. A noi una sera toccò e prendemmo un taxi per avvicinarci ancora
di più. Arrivati ai piedi del vulcano, ci godemmo uno spettacolo notturno straordinario,
anche se non era proprio in primo piano.
La Merced , Antigua - Guatemala |
Lago Atitlàn: Dall’alto della panamericana,
prima di iniziare la discesa verso il lago, Panjachel (Pana per gli amici), una
fila di case lungo la strada, mi ricordò Porto
Escondido (il film): sonnolento, poche persone (per lo più turisti) a
ciondolare intorno a bar trasandati e ristorantini con poche pretese. Un posto
“alternativo” anni ’70, una Saosalito
del sud, un posto da “scoppiati”, come si diceva una volta. Un paese poco
interessante se non per la visita ai villaggi che si adagiano sulle rive del
lago, ai piedi dei vulcani che si specchiano nelle sue acque.
Attraversato l’Atitlàn sbarcammo a Santiago Atitlàn, principale luogo di
culto di Maximòn (vedi dopo) finendo
anche qui nel colorito mercato locale. Gente allegra e cordiale che ci
proponeva tappeti, vestiti, statue di legno e dipinti un po’ naif, non male. Di
maggior interesse per noi era la grande chiesa, bianca e massiccia,
sproporzionata nelle dimensioni. Qui ebbi il primo impatto con la devozione dei
maya degli altipiani, che avrei visto poi esaltata a Chichicastenango. Le
pareti della chiesa erano zeppe di statue, teche e ogni possibile “oggetto” di
devozione cattolica. Altari, croci. Discutevano con i santi, chiedendo grazie e
favori, a voce alta. Osservavo e ascoltavo in silenzio.
Un’altra mezz’oretta di navigazione ci condusse a San Lucas Tolimàn,
paese vicino e simile a Santiago Atitlàn. I pochi che incontravamo per strada indossavano
esclusivamente costumi tradizionali, colorati e pesanti. Dov’era la gente. Camminando
per il paese scoprimmo dov’era: erano quasi tutti a un funerale, li incontrammo
mentre uscivano dal cimitero. E questa coincidenza mi induce a spendere due
parole sui cimiteri dell’America ispanica, come quello di San Lucas o quello di
Sololà che avevamo incontrato nella discesa verso il lago. Le tombe sono
tutte colorate (giallo, blu, rosso, bianco…) alcune povere, altre ricche, ma
tutte ugualmente colorate. Niente di lugubre. In Guatemala e in America Latina,
fuori dalle città, i cimiteri erano, e sono ancora, quasi tutti così. Sotto il
sole del primo pomeriggio quello di San Lucas Tolimàn sembrava quasi un luogo
allegro, di certo era sereno e meno triste dei nostri.
Il lago Atitlàn - Guatemala |
Religione e magia: In Guatemala è normale: religione, riti
maya e magia si mischiano per formare un sincretismo speciale, sorprendente per
chi non l’abbia mai incontrato. Si manifesta in forme e riti diversi da
villaggio a villaggio, in rappresentazioni differenti da una regione all’altra,
in santi oggetti di culto che da un luogo a un altro cambiano iconografia e
nome. La venerazione e la fede in essi riposte invece rimangono profonde e
costanti in tutto il paese.
Mi colpì la venerazione rivolta a Maximòn (San Simòn per gli spagnoli, Ry
Laj Man per i Maya) nei villaggi che si affacciano sul lago Atitlàn. Rappresentato
da una statua lignea, vestita con sciarpa e abito di tutte le fogge, ma anche
da un sigaro o dalle immancabili bottiglie di rum, era oggetto di culto da
parte di tutti glia abitanti del paese. Anche le effigi di Cristo e dei santi,
sempre addobbati con sciarpe, mantelli, cappe, se non vestiti di tutto punto, erano
frequentissime in ogni processione. Uno spettacolo sorprendente e toccante. Ovviamente
la Settimana Santa è il periodo cruciale per conoscere e apprezzare questo
aspetto del paese.
Impressionate fu la partecipazione a un rito al Pascual Abaj, un
“santuario” (in realtà un idolo dal volto di pietra in mezzo a una pineta sopra
Chichicastenango) dedicato al dio maya della terra. Il capopreghiera (chuchkajua) per conto di una famiglia
che aveva richiesto il rito offriva cibo, incenso, sigarette, fiori, liquore, il
tutto sacrificato alla fine in un fuoco purificatore.
Venne anche immolato un
gallo, sgozzato brutalmente davanti ai nostri occhi: era una ringraziamento e
un augurio per la fertilità della terra. Cioè che sorprende di queste
manifestazioni è la loro continuità temporale nel tempo. Il mondo va avanti con
le scoperte e i relativi cambiamenti, ma queste credenze resistono e si
protraggono nei secoli. La prova di ciò: verso la fine della liturgia si udì
uno squillo al Pascual Abaj e il chuchkajua
rispose al cellulare.
Rito a Pascual Abaj a Chichicastenango - Guatemala |
Gli stessi chuchkajaues li
avrei rivisti il giorno dopo nella piazza del mercato sulla gradinata di
accesso alla chiesa di San Tomàs, intenti a scuotere gli incensieri accesi e a mormorare
preghiere in lingue sconosciute per conto dii fedeli che avevano richiesto la
loro intermediazione verso Dio. Di fronte a questi spettacoli, come assistendo
ai riti che si svolgevano davanti ai miei occhi all’interno della chiesa di San
Tomàs (vedi dopo), mi sembrava
di essere in piena era pagana. Ma capivo anche come abbia potuto la Chiesa
sopravvivere per duemila anni fino ad oggi: adattandosi e “inglobando”.
Tra tutti i mercati che ho visto nella mia vita, in effetti quello di Chichi, se non è il più bello, va comunque annoverato nella top 3. Tappeti, prodotti di ogni tipo, tantissime maschere di legno (ma chi le comprerà mai?), vestiti, frutta, verdure… una distesa di banchi fittissimi che vendevano di tutto.
La la vera magia di Chichi sta in quelle due chiese che si fronteggiano sui due lati della piazza del mercato: la capilla del Calvario e la celeberrima chiesa di San Tomàs. E le loro gradinate piene di vita. Ok i colori, ok la gente, ma il vero coup de coer sulla gradinata di San Tomàs sta nei Chuchkajaues di cui ho detto sopra. Sui gradini è difficile trovare posto tra chi ozia, vende qualcosa, parla, prega, dorme. La gradinata serve a tutto tranne che a salire alla chiesa, cosa per altro vietata.
"Chuchkajaue" all'opera sulla gradinata
di San Tomàs a Chichicastenango -
Guatemala
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Secondo l’usanza infatti solo i Chuchkajaues sarebbero autorizzati a percorrerla, oltre a chi ha incarichi pubblici
di qualche tipo. Passando quindi per il cortile laterale entrai in chiesa e,
pur preparato, rimasi sbalordito. Una chiesa bassa e massiccia, tozza verrebbe
da dire pensando alle nostre cattedrali gotiche, ma è fatta così per resistere
nei secoli agli innumerevoli terremoti. Mi sedetti su un banco prendendo appunti
per non perdere nulla dell’esperienza e perché nella chiesa non si può
fotografare. La giornata era nuvolosa e la penombra aumentava il fascino di ciò
che accadeva davanti ai miei occhi. Ero circondato da altari che reggevano
santi, addobbati con tuniche e vesti, corone e ghirlande di fiori. E poi croci,
teche e ancora santi. Il pavimento era
cosparso di centinaia di candele che rendevano la scena suggestiva e toccante,
un presepe vivente, un valzer di fedeli che si muovevano silenziosi nella
penombra.
La gente entrava a gruppetti, per lo più famiglie, e coloro che potevano permetterselo arrivavano accompagnati da una capopreghiera, un mazzo di candele, una bottiglietta di liquido, fiori e petali. Si sedevano in circolo, sembravano concordare con il capopreghiera le richieste e le promesse da scambiarsi con un santo o direttamente con Dio. Quindi benedivano le candele, le accendevano da altre già accese e le alzavano sul pavimento con un gesto semplice e sicuro. Ogni gruppo allestiva il luogo di preghiera dove capitava, dove c’era posto, alcuni in piedi altri in ginocchio, i più seduti a terra. Parlavano e pregavano. Tutti si comportavano in modo preciso e sicuro, dandomi l’impressione che la cerimonia seguisse un rituale stabilito da tempo. I vestiti, i volti e le mani denunciavano la povertà dei fedeli, tuttavia molti trovavano il denaro per le offerte che udivo cadere tintinnando negli offertori posti davanti agli altari. Contro di loro e per trent’anni si scatenarono gli squadroni della morte, solo perché portatori di una cultura diversa, non conforme alla nostra. C’erano candele accese ovunque e la cera colava sul pavimento, ma solerti addetti raschiavano dal pavimento la cera indurita delle candele consumate, preparando il posto per l’arrivo di altri.
C’erano quelli che
entravano soli e si dirigevano direttamente di fronte ad un santo e con lui
iniziavano un fitto dialogo, sommesso ma non sottomesso, che non mi sembrava
una preghiera, ma un colloquio tra pari, tra vecchi amici. Mi venne in mente la
signora che nella chiesa di San Pablo Atitlàn parlava con Dio a voce tanto alta
che si poteva udire dalla piazza. Ero sconvolto. Cristianesimo e riti maya,
preti e sciamani, in un miscuglio a me impenetrabile. Gli antenati sempre
presenti nelle preghiere. Si levavano le suppliche dei fedeli che entravano in
chiesa, si spegnevano quelle dei fedeli che uscivano. Aleggiava così nell’aria
un equilibrio di suoni, un brusio di lingue a me sconosciute, compendio di
tutte le preghiere e di tutte le suppliche, un coro in cui entravano ed
uscivano di continuo voci diverse.
Cordillera
de los Cuchumatanes e villaggi Maya Ixil. Il turista frettoloso, arrivato a
Chichicastenago, ritorna verso il lago Atitlàn e Antigua. Poi prenderà un
volo per Tikal e farà un’escursione in Honduras per visitare Copàn. Invece,
arrivati a Chichi, noi andammo oltre come consiglierei a tutti. In questo modo avemmo
la possibilità di attraversare una delle più belle regioni del paese: le valli
della cordillera de los Cuchumatanes
purtroppo già allora troppo disboscate. Il percorso permetteva di incontrare le
comunità maya più isolate e ancora attaccate alle vecchie tradizioni. Sembra un
luogo comune, sembrano parole fatte, ma era la realtà. Ricordo la deviazione
per recarci a Nebaj abitata dai Maya Ixil, che, come i villaggi circostanti,
non contava allora sul turismo per la sua economia. Un passo a oltre 2.500
metri e una pista molto dura, li “proteggeva” e li “isolava”.
Visitammo il bel
mercato e comprammo cibo per il pranzo senza che nessuno ci offrisse qualche
souvenir. In tutto il paese non ce n’erano proprio: molto diversa la relazione
con quella gente rispetto a Chichicastenango o Antigua. Le donne indossavano
tipici, stupendi vestiti e corpetti coloratissimi e sfoggiavano acconciature
molto eleganti, elaborate e perfettamente tenute, tanto da chiedersi se venissero
sistemate ogni giorno e come trovassero il tempo per farlo. Gli uomini indossavano
invece costumi meno appariscenti, ma nessuno aveva i jeans.
Gli elaborati copricapo delle donne maya Ixil - Nebaj
Guatemala
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Scesi dalla cordillera
attraversammo intere regioni di foresta tropicale fino a raggiungere Flores,
luogo di arrivo dei voli di chi si recava in aereo alle rovine di Tikal. Due
giorni - da Chichi a Flores – duri, ma indimenticabili.
La danza del Venado a Cunen -
Guatemala
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La piramide n. 1 sulla piazza centrale a Tikal - Guatemala |
Livingston (una città da
non perdere). A
Livingston arrivammo in una splendida giornata di sole, dopo qualche ora di navigazione
sul rio Dulce. Sulle rive del fiume si allungavano le banchine del piccolo
porto sulle quali una lunga fila di uccelli sembrava aspettare il nostro
arrivo. Erano tutti girati verso di noi, uno di fianco all’altro, raggruppati
per dimensione, prima i gabbiani e poi i pellicani. In mancanza del sole
scintillante che illuminava la giornata, avrei potuto pensare di trovarmi nella
grigia e ansiosa atmosfera de Gli Uccelli.
Quali uniche differenze rispetto al capolavoro di Hitchcock c’erano in più i
pellicani e mancavano i corvi.
Da dove cominciare per descrivere Livingston? Eravamo partiti il mattino
dall’America Latina e dopo un viaggio di poche ore ci eravamo trovati in
Africa. L’atmosfera era calda e umida, le strade s’incrociavano ad angolo
retto, alcune finivano in riva al fiume, altre sulla spiaggia di fronte
all’oceano. Palme rigogliose si protendevano verso il mare, lasciando cadere
sulla battigia le loro noci che la risacca si portava via. Molti bar e negozi,
molti piccoli ristoranti dimostravano che si stava sviluppando un timido
turismo, soprattutto quello dei giovani ‘zaino in spalla.’ Livingston, infatti,
a quei tempi non era inclusa nei circuiti turistici del Guatemala. Nessun
grande albergo, nessun centro Maya nelle vicinanze e nessuna barriera corallina
giustificavano una visita del turista ricco e frettoloso. Case basse, per lo
più bianche, giovani e vecchi su sedie e poltrone sparpagliate nei trascurati
giardinetti davanti alle porte di casa. C’erano Rasta con i capelli a treccine lunghe un metro, coppie di anziani
con i capelli bianchi che passeggiavano lungo la spiaggia dove qualche giovane
atletico correva per mantenersi in forma. Qualcuno andava in bicicletta,
qualcuno a piedi. I bambini correvano di qua e di là impegnati nei loro giochi.
Musica giamaicana nelle case, nelle strade e dalle radio che molti giovani
portavano in giro. Musica giamaicana ovunque. Un’aria rilassata, da sballo. Anche la gente non era come nel resto
del Guatemala. Oltre ai Caraibici e ai Latinos
c’erano molti neri. Soprattutto neri. Nella dizione più comune sono i Garifuna, discendenti da popolazioni
indigene caraibiche provenienti dal Sudamerica e da schiavi neri strappati
all’Africa. Nonostante tre secoli di migrazioni, spostamenti forzati e scontri
con Francesi, Spagnoli e Inglesi, hanno mantenuto molto della cultura originale
dei loro antenati. Soprattutto la lingua, la musica e la danza.
Il mare di Livingston - Guatemala |
Il caffè Ubafu, il cuore
giovane della città, ha lasciato un segno su di me. Un edificio semplice,
coloratissimo, affrescato da poco. ‘Music’ e ‘Garifuna Live’, due grandi
scritte, invitavano al divertimento. Sotto la parola ‘UBAFU’ un mural mostrava gli strumenti di
un’orchestra di musica tradizionale: due o tre grandi tamburi, due carapaci di
tartaruga, alcune maracas e una grande conchiglia in grado di produrre ritmi e
melodie. Di fianco all’orchestra era dipinta una ballerina di Punta, la danza dei Garifuna.
Appoggiato alla porta c’era un giovane intento a sfogliare un giornale.
Udivo una musica spandersi dal locale e vedevo il ragazzo seguirne il ritmo
accennando a leggere movenze di danza.
Quando il ragazzo si accorse di
me, mi puntò addosso uno sguardo serio e inespressivo. A qualche metro da lui
potei misurare la sterminata distanza che separava i nostri occhi e che solo un
futuro lontano potrà forse colmare. Poi entrò nel locale tirandosi dietro la
porta e dietro la porta vidi campeggiare una grande Africa dipinta di giallo,
nero e rosso, i colori dell’Africa, quelli che appaiono sulle bandiere di molti
paesi del continente nero. E una scritta in lettere maiuscole: ‘100% BLACK.’ A buon intenditor, poche
parole…
Una stele maya, Quiriguà - Guatemala |
Copàn (Honduras). Diretti alle imponenti rovine si Copàn,
avevamo preso alloggio a Copàn Ruinas che sorge a poca distanza da esse. Avevo
temuto che la piccola città fosse solo un’appendice del sito archeologico, un
posto tirato su in fretta per dare alloggio ai visitatori diretti alle celebri
rovine. Invece Copàn Ruinas si dimostrò una graziosa cittadina coloniale
molto ben tenuta, costruita secondo i canoni architettonici spagnoli del
sedicesimo secolo, con le strade acciottolate, gli edifici bassi e i tetti di
tegole rosse. Era un paese vivace, con le strade perpendicolari attraversate da
viaggiatori sorprendentemente numerosi, soprattutto giovani. C’erano locali
allegri, bar e piccoli negozi di artigianato.
La sorpresa per la piacevolezza della città fu confermata il giorno dopo quando visitammo il Museo Archeologico, installato in un bell’edificio coloniale. Piccolo, ma spettacolare, una galleria di reperti fantastici provenienti dal vicino sito archeologico: grandi steli, tra cui una delle più importanti dedicate a Coniglio 18, glifi, terrecotte, incensieri e il corredo completo della tomba del Brujo, uno sciamano, ritrovata intatta nella piazza di Copàn.
Sul
sito archeologico di Copàn non c’è molto da aggiungere a quanto già non
sappiano tutti: troppo spettacolare e famoso. Impressiona per la varietà dei
suoi edifici e steli molto ben conservati. Ma qualche parola va spesa su una
particolarità che distingue Copàn da tutti gli altri siti maya, compresi quelli
dello Yucatàn: i tunnel degli scavi. Periodicamente i Maya ricostruivano i loro
edifici, ma non distruggevano quelli precedenti, semplicemente vi costruivano
sopra. Quindi gli archeologi hanno avuto il problema di come andare alla
ricerca degli edifici più antichi senza distruggere quelli sovrastanti. E allo
scopo hanno scavato dei tunnel per poterli raggiungere. A Copàn ce n’erano due,
il più bello dei quali raggiungeva il sepolto tempio di Rosalìa, esattamente
sotto la successiva struttura 16. L’altro
(il tunnel dei giaguari), abbastanza lungo e non illuminato, era un po’
meno interessante e molto claustrofobico (circa 2 metri di altezza per meno di
un metro di larghezza). Entrambi garantivano un’esperienza sotterranea
emozionante anche se inquietante.La sorpresa per la piacevolezza della città fu confermata il giorno dopo quando visitammo il Museo Archeologico, installato in un bell’edificio coloniale. Piccolo, ma spettacolare, una galleria di reperti fantastici provenienti dal vicino sito archeologico: grandi steli, tra cui una delle più importanti dedicate a Coniglio 18, glifi, terrecotte, incensieri e il corredo completo della tomba del Brujo, uno sciamano, ritrovata intatta nella piazza di Copàn.
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