Itinerario: Antananarivo, Tulear, Andavadoaka, Tulear, Miary, P.N. de l’Isalo,
riserva e villaggio Anja, P.N. de Ranomafana, Fianarantsoa, Ambositra,
Antsirabe, P.N. Andasibe-Montadia, Antananarivo.
Periodo: luglio-ottobre 2017
Durata: 2,5 mesi
Sono
tornato all’ospedale “Vezo” di Andavadoaka per una seconda missione e alla fine ho aggiunto un viaggetto di un paio
di settimane nel sud del Madagascar. Sono rimasto in contatto con le stesse
persone (volontari e locali) per un paio di mesi. Ho approfondito quindi un po’
la loro conoscenza, ma soprattutto mi sono confrontato in un rapporto più
diretto con l’Africa e gli africani, col volontariato e i volontari, col
razzismo e l’antirazzismo. Un’esperienza che mi ha sorpreso con una durezza inaspettata,
pesante ma formativa. Mi sono fatto molte domande, anche su di me, difficile
trovare le risposte. Più che risposte, quindi, butto là pensieri in libertà…
Sono un Vasàha. All’ospedale di Andavadoaka, anche se
l’ha costruito la nostra associazione, lo manda avanti, vi esercita la sua
autorità, noi pensiamo di essere a casa nostra, ma siamo Vasaha, teniamolo sempre presente. Vasaha significa letteralmente “straniero”, ma la traduzione non
esprime l’esatto valore del termine. Ho approfondito l’argomento. In malgascio
il concetto di Vasàha rimanda
all’identificazione basata sull’aspetto fisico e la provenienza geografica
della persona incontrata, ma contiene anche l’idea implicita di una
disconoscenza della sua cultura e, quindi, del suo valore. L’ho sempre
sospettato. Ho incontrato vecchi che mi hanno chiamato Vasàha con rispetto e un leggero inchino, ma anche giovani che mi
hanno rivolto lo stesso epiteto con un odioso sorrisetto. Ho la sensazione che
per loro siamo tutti Vasàha”, senza
distinzione: i padroni dei lodge che
sono in Madagascar per affari, le anime irrequiete che hanno trasferito qui le
loro vite e anche noi che arriviamo dopo un viaggio massacrante e costoso, qui
rimaniamo per settimane o mesi per curare gratuitamente chi si presenta al
nostro ospedale. Beh, mi piacerebbe che esistessero due vocaboli distinti per
chiamare noi e loro. Ma per ora siamo e rimaniamo Vasàha, come gli altri. Pazienza.
Quindi
basta retorica: ad Andavadoaka siamo stranieri e ospiti, anche se apprezzati e ben
accetti. Siamo a casa loro. E chiamarci Vasàha
è un modo per ricordarcelo.
Razzismo
dell’antirazzismo. Viaggio
in Africa da più di quarant’anni, se sommo le durate dei viaggi fatti in una
trentina di paesi del continente nero supero i due anni, eppure devo ammettere
un’ignoranza profonda su questa gente, malgasci compresi. Le mie conoscenze
sono e forse rimarranno superficiali. E comincio a coglierne le cause. Inutile
alterarsi, nonostante gli sforzi fatti per conoscere e per quanto mi sia
impegnato a capire, troppo spesso in Africa non sono riuscito a liberarmi del
mio stato di turista. Lo capisco e lo ammetto. Abbiamo un bel da crederci
viaggiatori e non turisti, ma il fatto è che in qualsiasi paese mettiamo piede
difficilmente riusciamo a superare il filtro imposto da chi fornisce servizi
agli stranieri (agenzie di viaggio, lodge, autisti, guide...), parla le loro
lingue e ha assunto molto delle loro abitudini e della loro cultura. E spesso
non riusciamo o non ci interessa andare oltre. Anche se siamo impegnati in un
progetto di volontariato. Questo è un rimprovero che posso fare anche a me
stesso. Guardiamo questa gente attraversando l’Africa protetti dai nostri
soldi, i nostri fuoristrada e le nostre vaccinazioni con il filtro del
pregiudizio, cosciente o meno, attenti a non toccare persone o cose e ad
evitare di mangiare verdura fresca. E viaggiamo nei i paesi poveri con gli
occhi e il cuore rivolti alla natura, ai colori, ai profumi, ai volti
sorridenti dei bambini, alle acconciature delle donne e poco alla gente.
Anticipo
immediatamente l’obiezione più ovvia, forse anche giusta: non siamo tutti così.
Ovvio, posso infatti pensare questo di me o altri, soprattutto giovani, che
impegnano tempo e denaro per arrivare in questo luogo estremo per lavorare in
ospedale? Forse no, ma ritengo che il discorso sia più complicato.
Tra
i viaggiatori “africani” ci sono quelli che conoscono la storia del continente e
sanno che se gli africani sono troppo poveri è perché gli occidentali sono
troppo ricchi e sono anche consapevoli delle colpe storiche dei paesi
colonialisti dai quali provengono. Cercano di guardare la realtà che scorre
davanti ai loro occhi e pensano di farlo con occhi onesti. E come reagiscono,
purtroppo? Troppo spesso col razzismo dell’antirazzismo, sembra un gioco di
parole. Abbracciano l’idea cioè che tutte le colpe siano nostre e che le
persone che incontrano in Africa siano poveri, ma puri, immuni dalla malvagità
degli occidentali (l’ho quasi sempre visto in giro e l’ho visto anche all’ospedale,
anche questa volta). E le trattano come bambini molto cresciuti che vanno
educati con pazienza e determinazione. Persone che non capiscono e sbagliano
non per cattiveria, ma per ignoranza, un’ignoranza che chiede solo di essere
emendata. Si rifanno, anche senza rendersene conto, al mito del “buon
selvaggio”, all’idea di una umanità non corrotta dalla civiltà, al concetto
settecentesco che, senza i vincoli della civilizzazione, l’uomo sarebbe
essenzialmente buono e adotterebbe comportamenti semplici e innocenti, tipici
dei primitivi prima di essere corrotti dai nostri traffici. E’ un discorso
complicato, lo so, ma è meglio provare ad affrontarlo, soprattutto se abbiamo
l’idea di fare del volontariato in un paese povero. Perché è troppo facile
condannare il razzismo antisemita, son capaci tutti.
Perché? Le esperienze africane mi hanno
mostrato i profondi mutamenti avvenuti nel continente. Nel tempo ho visto
aumentare i chilometri di strada asfaltata e il numero delle auto che le
percorrono, ho visto diffondersi l’energia elettrica e la rete telefonica,
arrivare la televisione e le mode occidentali, i cellulari e internet, oggi ho
anche amici africani su Facebook.
Ho
incontrato anche molte associazioni, religiose e laiche, che si impegnano per
dare una mano agli africani in molti campi per tentare di emanciparli dallo
stato di sottosviluppo in cui versano. E penso: tutto questo è buono, no?
Certo, ma allora perché continuo a incontrare la stessa miseria, la stessa
sporcizia, le stesse malattie di un tempo, fatico a scorgere un minimo indizio
di riscatto, come se l’Africa fosse condannata all’inferno da una maledizione
biblica? Domande che pensavo retoriche, convinto di conoscere bene le risposte,
ma evidentemente non è così. Mi viene in mente la drammatica vicenda dell’ebola
e, prima della partenza all’aeroporto di Antananarivo, le hostess hanno intossicato
l’aero con diverse bombolette di disinfettante: una barriera contro la peste di
manzoniana memoria appena scoppiata in Madagascar. Non è bubbonica come quella,
ma polmonare che sembra pure peggio e comunque cambia poco. E la storia si
ripete. La peste… ci rendiamo conto?
Siamo sinceri,
almeno con noi stessi.
Ora che ho esperienza diretta di volontariato in Africa aggiungo domande alle
domande e dubbi ai dubbi. All’ospedale vedo me stesso e i volontari impegnarsi
con entusiasmo e dedizione nell’aiuto e nell’assistenza a chi soffre e ha
bisogno di cure, ma mi domando anche quale sia la vera motivazione, il movente
di questo entusiasmo, a volte troppo retorico per essere onesto. Sono “loro” (cioè
gli africani) con i loro bisogni o siamo noi, con i nostri problemi che poco
hanno a che fare con “loro” (che so: magari ferie intelligenti, esperienze
“diverse”, fughe dalla dura realtà,k dare un senso alla vita, vantarsi su Facebook…), con il nostro ego da alimentare con “cibo
fresco” nella speranza, forse, di dare un senso alla nostra esistenza
“occidentale” da social network?
Altre domande che aspettano una risposta.
Uguaglianza? Un’ultima considerazione. Non ho
dubbi in proposito, anche quest’ultima esperienza mi ha insegnato che
l’uguaglianza tra le persone non esiste, è solo un tragico luogo comune, un
approccio fuorviante. Come può un bolognese essere uguale a un africano, a
parte avere due braccia e due gambe? Non sono uguale nemmeno a mio fratello,
figurarsi a una persone di pelle scura. Quelli che dovrebbero essere uguali,
invece, sono i diritti (per altro già definiti da tempo) di cui siamo tutti
portatori, i diritti fondamentali e inalienabili di ogni essere umano, questi
sì uguali per tutti. E questi, lo ricordo bene, li ha visti sempre calpestati o
sminuiti in Italia come ad Andavadoaka. E’ meglio capire bene questa distinzione.
Capita
questa differenza, forse saremo in grado di trattare i malgasci con onestà,
senza il razzismo becero e senza quello subdolo dell’antirazzismo, insomma come
persone diverse e normali, ma con gli stessi diritti fondamentali, coscienti
che esistono quelli buoni e quelli cattivi, gli onesti e i corrotti, i
lavoratori e i fannulloni. Come accade tra la nostra gente, niente di diverso.
E forse, allora,
potrò fermare il baricentro del mio animo che oscilla tra la passione per un
continente che amo fin dalla prima volta in cui vi ho posato il piede e la
domanda che si fa Chatwin, sintesi del suo viaggiare: “Che ci faccio qui?”
Un paese normale, ma eccezionale.
E’
difficile definire il Madagascar. All’apparenza non suscita particolari entusiasmi,
non è il primo paese africano nel quale andrei (e infatti nella classifica
delle mie visite si piazza tra gli ultimi, oltre il venticinquesimo posto). Sono
stato in molti paesi più affascinanti e più belli. Il mare è splendido, ma ci
sono anche i Caraibi, il mar Rosso, la Polinesia… E’ rimasta un
po’ di foresta pluviale (in francesi l’hanno quasi completamente distrutta
nella prima metà del ‘900), ma vuoi mettere con l’Amazzonia, l’Africa
equatoriale, il Borneo, l’Indonesia… Gli altopiani centrali sono coperti da
risaie e risaie, ma nulla in confronto all’Indocina… C’è fauna, ma non possiamo
certo paragonarla con quella delle savane del Kenya e della Tanzania… Nel
canale di Mozambico si possono vedere le balene, ma l’esperienza non regge il
confronto con quella che si può vivere nella baie della Bassa California… E si
potrebbe continuare. Non sembra esserci nulla di clamoroso che meriti il viaggio. E infatti è stato il volontariato a
spingermi laggiù, cioè un motivo diverso dal viaggio.
Ma il fatto
è che bisogna viverci un po’ per poterlo capire e apprezzare, occorre penetrare
la superficie, instaurare un contatto col paese che vada un po’ oltre il filtro
(o la barriera) che i servizi turistici frappongono tra i locali e il turista.
E quando
questo accade allora si scopre cosa offre il Madagascar per essere definito
alla fine un grande paese, normale, ma eccezionale. E si scoprono i malgasci a
cui possiamo insegnare tanto, ma che hanno altrettanto da insegnare a noi.
Così, al di là della retorica.
Sulla
malattia, ad esempio
Sulla
malattia, ad esempio, abbiamo ha molto da imparare. E questo, visto che siamo
un ospedale, potrebbe miglioraci non poco. Quando ad Andavadoaka vedo decine di
persone in attesa davanti all’ospedale, so che i pazienti sono al massimo la
metà, gli altri accompagnano.
Nessuno arriva all’ospedale solo, qualcuno della famiglia lo accompagna sempre. E anche il letto di un ricoverato è sempre circondato da due o tre famigliari che gli portano da mangiare, ascoltano i sanitari, aspettano seduti a terra. Che si tratti di un bambino o di un vecchio è sempre così. E quando a volte i medici devono annunciare che non c’è più speranza di guarigione, portano a casa il morente perché possa spegnersi in seno alla famiglia. E li ringraziano per quanto hanno fatto per lui, anche se è stato inutile. Non denunciano, ringraziano.
In attesa del prprio turno nel cortile dell'ospedale "Vezo", Andavadoaka, Madagascar |
Nessuno arriva all’ospedale solo, qualcuno della famiglia lo accompagna sempre. E anche il letto di un ricoverato è sempre circondato da due o tre famigliari che gli portano da mangiare, ascoltano i sanitari, aspettano seduti a terra. Che si tratti di un bambino o di un vecchio è sempre così. E quando a volte i medici devono annunciare che non c’è più speranza di guarigione, portano a casa il morente perché possa spegnersi in seno alla famiglia. E li ringraziano per quanto hanno fatto per lui, anche se è stato inutile. Non denunciano, ringraziano.
Questa è una
differenza non da poco, una bella lezione di superiorità culturale, secondo me.
Biodiversità.
Se non si
ha fretta, si scopre il Madagascar. Ed è a questo punto che il paese da normale
diventa eccezionale, quando ci accorgiamo della sua incredibile biodiversità,
sia vegetale che animale. Centinaia di razze endemiche sia tra gli animali che
tra le piante. Certo, per apprezzarle bisognerebbe non essere del tutto
ignoranti in materia, perché per apprezzare leoni ed elefanti non servono altro
che gli occhi, ma per apprezzare un camaleonte, una rana o un baobab bisogna
avere un po’ di passione.
Microrana, Riserva naturale Peyrieras |
E’ utile sapere, infatti, che quasi tutte le specie
dei baobab vive qui, lo stesso vale per i camaleonti e lo stesso per le rane,
alcune delle quali sono grandi come un’unghia. Purtroppo gli animali, oltre ad
essere particolari, sono di piccole dimensioni (in Madagascar non ci sono le
giraffe o gli ippopotami), molte hanno abitudini notturne e, quindi, come
dicevo ci vuole pazienza e soprattutto passione
In Madagascar il concetto di biodiversità va applicata anche alla gente. Nel paese convivono, una di fianco all'altra, quasi venti etnie diverse per cultura, storia, abitudini e credenze. Si sono combattute in passato, come è sempre accaduto nella storia dell'umanità, ma i colonizzatori europei, soprattutto francesi, non sono mai riusciti a metterli gli uni contro gli altri. Un'altra bella lezione.
Il canto degli indri
Il canto degli indri
Non posso
tralasciare i lemuri, un mondo a parte, anche questo endemico: i lemuri vivono
infatti solo qui. Sono proscimmie buffe, socievoli e meravigliose. Anche tra
loro ci sono i nani, i notturni, i rari… quindi per vederne un po’ delle decine
di specie occorre andare in giro per i parchi... Tra P.N. de
l’Isalo, riserva Anja, P.N. de Ranomafana e P.N. Andasibe-Montadia, sono
comunque arrivato a vedere sette della 93 specie del paese, non tante, ma
nemmeno poche.
Ovviamente sono rimasto colpito soprattutto dai lemuri di
maggiori dimensioni: i catta per la
loro simpatia e i cerchi neri sulla coda e gli indri per il loro incredibile richiamo, udibile a chilometri di
distanza, che modulano con maestria per comunicare ai compagni diversi stati
d’animo: tensione, allarme, amore. Vedere per credere il video seguente.
Riti e credenze: il “mondo di mezzo” tra i malgasci e Dio
I riti e i culti
manifestati dalle etnie malgasce sono innumerevoli e complessi, da perderci il
conto e la testa. Ovviamente non sono di facile accesso perché, anche se
possono coinvolgere una famiglia o un’intera tribù, mantengono comunque un
carattere intimo a famigliare che di conseguenza difficilmente si allarga a un Vasaha. Tuttavia io mi sono informato,
ho chiesto e, più la conoscenza e la fiducia nei miei confronti è andata
aumentando, più mi sono avvicinato a questo mondo di mezzo. Non parlo in quanto si
può trovare in ampi studi e approfondita documentazione sull’argomento, parlo di
esperienze dirette.
Il bilo. Il bilo
è una festa, ma anche un rito magico di guarigione che si tiene per propiziare
l’uscita di qualcuno dalla malattia. Un rito che i Masikoro intelligentemente
hanno imparato a coniugare con l’accesso contemporaneo ai servizi
dell’ospedale. Una sorta di “rinforzo” alla medicina dei Vasaha. Per maggiori dettagli sul bilo di Ambalorao, al quale mi sono invitato, rimando a quanto riportato
sulla missione dell’anno scorso. Bilo di Ambalorao
L’uomo che
parla col lago. Ad
Andavadoaka c’è una pista che dall’ospedale porta a un luogo, che un depliant turistico definirebbe magico, nel
quale un bosco di baobab centenari si specchia in una laguna che le piogge e la
stagione secca riempiono e asciugano in una gara continua che né le une né l'altra riescono a
vincere definitivamente. Quando c’è acqua non mancano i fenicotteri. Un
posto bellissimo dove andiamo spesso a goderci il tramonto.
Lungo il
percorso si passa accanto a una “composizione” arborea che solo un provetto
giardiniere potrebbe creare: un magnifico baobab e un superbo tamarindo si
abbracciano e coprono un intreccio di alberi, arbusti, piante grasse e
buganvillee fiorite a seconda della stagione. Un’isola verde e rigogliosa buttata
in mezzo un’arida piana. Ho percorso questa pista non so quante volte, a
piedi, in carretto, in fuoristrada.
Qualche
mezza frase carpita in giro, relativa a questo boschetto particolare, mi ha
incuriosito e ho chiesto a Dera, un dipendente dell’ospedale. Qualche
ammissione, qualche incertezza e qualche reticenza. Anche se avesse saputo rispondere, sono sicuro che si
sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere. Ho insistito: volevo vedere
quel boschetto. Alla fine ha detto che si poteva andare, ma era
necessario parlare con un altro signore che fosse autorizzato a mostrarcelo. Ho
capito dopo a cosa si riferiva l’autorizzazione.
Siamo
andati con un carretto che ci lasciato a un centinaio di metri dal boschetto.
Qui Dera e l’accompagnatore autorizzato si sono tolti le scarpe e tutti insieme
ci siamo avvicinati. Al centro del boschetto c’era un laghetto, invisibile
dalla pista percorsa molte volte, una presenza sorprendente in una
regione tanto arida. Noi Vasaha ci siamo
dovuti fermare a una decina di metri dal lago in attesa che Dera e l’amico si avvicinassero
all’acqua. A questo punto è stato chiaro quale autorizzazione Dera non aveva,
ma l’amico sì: quella di parlare col lago. Un’autorizzazione vincolante, visto
che, ovviamente, il Lago è un’entità sacra. L’amico ha parlato col Lago a bassa
voce accanto a un Dera silenzioso e concentrato e ha chiesto, per noi, il
permesso di avvicinarci. Permesso accordato, ci siamo avvicinati.
Per
noi era un laghetto normale, come normali erano il baobab e il tamarindo, ma
non per loro. L’accompagnatore ci ha presentato al Lago, gli ha spiegato la
motivazione del nostro desiderio di conoscerlo, motivo infine accettato dal
Lago in persona. A permesso accordato è sembrato che anche per lui e Dera tutto
fosse tornato normale: il lago, il baobab e tutto il resto. Sorridenti e
rilassati ci hanno raccontato delle relazioni e dei vincoli che legano il lago ad
altri riti complicati e inerenti alla vita, alla salute, alla famiglia… Non
sono sicuro di aver capito bene.
La morte e gli antenati.
Un giorno
vedo un corteo davanti all’ospedale. Una piccola folla mi viene incontro, la
gente balla e canta, si direbbe un matrimonio. Poi scorgo a metà del corteo un
carretto trainato da due zebù che trasporta una bara avvolta da un drappo
bianco. E’ un funerale e al seguito della bara passa altra gente che
chiacchiera tranquilla e sorridente.
“Ho molto
da imparare sulla morte da questa gente” penso. So che andranno in un luogo dove seppelliscono i morti, che però
non è un cimitero. Ci ho messo un po’ a capire la differenza, ma poi ci sono
arrivato. Il cimitero è il luogo dove noi
seppelliamo i morti, spesso insieme con la nostra poca attenzione che li ha accompagnati
verso la fine, affidati agli ospedali, alle hospis
e alla fine alle pompe funebri. Da ultimo per loro, per loro sì, c’è il
cimitero, un luogo pulito dove andremo qualche volta per una frettolosa visita
di circostanza.
Questa
gente invece andrà nella foresta, in un luogo dove seppellisce i suoi morti,
coprirà la bara con un cumolo di pietre e se ne andrà per non tornare più, se
non in occasione di un altro funerale. Non ha motivo per ritornarci. Hanno
portato un morto, un cadavere ormai inutile destinato a corrompersi in breve,
sanno che il congiunto è già nel mondo degli antenati ed è da quel mondo
ancestrale che lui continuerà a mantenere i contatti con loro. Perché ci sono
popoli che, a differenza di noi, praticano il culto degli antenati, non dei
morti. Gli antenati sono potenti e i vivi hanno bisogno della loro protezione.
Le disgrazie e le malattie (anche se poi andranno a curarsi nell’ospedale dei Vasaha) sono il risultato di
inadempimenti nei loro confronti o come punizioni per comportamenti disonorevoli.
Ripeto: abbiamo molto da imparare da loro.
Fede
Mantengono
ancora nei loro costumi molte tracce di animismo, ma i malgasci sono
sostanzialmente cattolici, tuttavia… il mondo di mezzo vive, è presente e
nessuno si azzardi a chiamarlo superstizione. Ad Andavadoaka, quando ho tempo,
la domenica mattina vado a messa. Io, non credente, vado a messa nella chiesa
cattolica del villaggio, perché anche questo è un rito, importato, ma ormai
fatto proprio. Un rito di quasi due ore durante il quale i fedeli dedicano poco tempo ai momenti cruciali (l’omelia, la
comunione...). Per il resto del tempo si canta, ma non odo i canti timidi e
dimessi che si bisbigliano nelle nostre chiese. Qui tutti cantano insieme con
forza e convinzione. Le voci si innalzano potenti verso il tetto di lamiera,
accompagnate da improvvisati strumenti di percussione e un organetto
altrettanto precario. E questo canto a più voci non mi lascia indifferente, non
può proprio. Le prime volte scattavo foto, poi ho lasciato perdere, non ne vale
la pena. Mi coinvolge molto di più osservare i volti di uomini e donne, di
vecchi e bambini che alzano sguardi e occhi profondi. Sguardi che squarciano il
soffitto di lamiera e, incuranti del vento che soffia sabbia attraverso le
finestre con i vetri rotti, volano in cielo alla ricerca di un dio che loro
sanno esistere da qualche parte. Ecco cosa mi spinge a partecipare alla messa
in un villaggio sperduto tra le spine di questa arida regione: la fede. Non la
mia, la loro. E penso che, se ci fosse davvero un dio oltre quelle lamiere, non
potrebbe rimanere insensibile a quelle voci, non a quelle. Una comunità intera
che canta all’unisono, che manifesta una fede così potente in qualcosa che non
esiste, potrebbe sprigionare una forza tanto dirompente da cambiare il mondo o
almeno quello del proprio piccolo villaggio in riva al mare. Ma non succede e
non succederà fino a quando non sapranno indirizzare questa forza verso
qualcosa di possibile che si possa ottenere già su questa terra. Allora tutto cambierà. Sono sicuro che basta aspettare, prima o poi accadrà.
Famadihana
Non
potevo certo sperare di partecipare a un Famadihana
e non tanto perché lo praticano per lo più le tribù degli altopiani, lontane da
Andavadoaka (i “Vezo” non lo fanno), ma perché i Vasaha difficilmente sono invitati. Si tratta infatti della riesumazione
rituale dei morti. Lo scopo del Famadihana
è quello di permettere all’anima del morto di elevarsi a uno stato superiore e
più vicino a Dio. In genere il rito ha luogo anni dopo il decesso. Il corpo viene
riesumato e portato in processione, accompagnato da canti e musica. Si fanno
regali al morto, lo si avvolge in un sudario nuovo. Nuovamente, come al
funerale, si sacrificano zebù e i partecipanti alla cerimonia ne mangiano
insieme la carne. Alla
fine il morto viene depositato di nuovo nella tomba.
A volte capita
che i morti cambino tomba. Se non ho partecipato a un Famadihana, ho visto tuttavia
nel parco di Isalo alcune tombe provvisorie dei “Bara” (i questo caso è il nome
di un'etnia) vuote dopo che il morto è stato portato via per la tomba
definitiva.
Si capisce che si è di fronte ad una sepoltura provvisoria, che
custodiva un morto fino a qualche tempo prima, perché la bara viene abbandonata
sul posto. Fa un po’ impressione per chi cammina nel parco concentrato su piante,
animali e panorami e non si aspetta certo di incontrare una cassa da morto usata
ai piedi di una parete rocciosa sullo sfondo di un cielo infinito.
Il
bosco sacro di Miary
Da
sempre in Madagascar gli alberi secolari detengono una grande importanza. Vale
per i baobab, ad esempio, e vale soprattutto per il bosco di Miary poco a
nord-est di Toulear. Si tratta di un ficus banyan (Ficus benghalensis) e come
sappiamo i ficus allungano i loro rami e lasciano cadere dai rami le radici che,
arrivate a terra, attecchiscono diventando nuovi tronchi. Se il processo non
viene interrotto le dimensioni dell’albero aumentano e da un albero può nascere
una foresta. Quello di Miary viene considerato quindi un bosco di un albero
solo, anche se le sue dimensioni sono incredibili.
Il banian sacro di Miary - Madagascar |
Neanche
a dirlo, il bosco è sacro perché vi dimorano gli spiriti degli antenati e per
accedere al recinto che lo circonda occorre togliersi le scarpe ed essere
accompagnati da un guardiano degli antenati. Sarebbe necessario portare doni,
soprattutto bottiglie di rum, da offrire ai defunti per ingraziarseli. Noi
non lo abbiamo fatto (non sapevamo dell’usanza), ma i doni di quelli che ci avevano
preceduto erano molti, appoggiati ai tronchi o appesi ai rami.
Bene Ivo, sono contento di averti incrociato su VIM ed aver reagito ad un tuo commento su Andavadoaka, luogo dove “abito” da 13 anni, questo mi ha consentito di conoscerti meglio sul tuo blog e condividere quasi totalmente il tuo approccio e molte delle tue considerazioni. Non ci sono conclusioni, come non ne ho io, ma si sente in te lo sgomento del confronto con il diverso, fatto di attrazione e respingimento. In realtà ci stiamo confrontando con il nostro passato ancestrale e questo ci consente anche di riconoscere le tracce ancora presenti in noi. Ti sto commentando di getto ma avrei molto da dire su tutti gli argomenti che hai trattato, le cerimonie, l’animismo la religione ufficiale (che non è prevalentemente cattolica), la scuola, i giovani, la salute l’ospedale, i volontari, la morte. E la domanda “cosa ci faccio io qui” me la sono posta molte volte, ogni volta una risposta diversa. Ma una risposta parziale ce l’ho, devo ripulirmi da queste croste di ipocrisia e scoprire quanto di sbagliato c’è dentro di me. Qui la realtà mi costringe ad un confronto continuo non superficiale con il mio mondo occidentale nel quale sono cresciuto non credente (e questo rimane confermato) ma tronfio di certezze che si stanno via via sgretolando su di me e coloro che mi circondano. Mi ripropongo di infettare il tuo blog con le mie considerazioni sui vari punti che la tua sensibilità ti ha costretto a annotare, lo farò a rate, se me lo consentirai. Gianni Kech
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