lunedì 29 luglio 2019

RACCONTO: Facciamo benzina e via!

(Tratto dal libro: IL GATTO BUDDHISTA)

Per gentile concessione dell'editore POLARIS

Forse potrei aggiungere un sottotitolo – come correre seri rischi senza rendersene conto - per dare l’idea di un gruppo di ragazzi che partono con l’aspirazione di fare un viaggio nel deserto - il Sahara, addirittura - senza avere la minima esperienza per affrontarlo.
La storica frase fu pronunciata da un compagno di viaggio nell’agosto del ’75, il giorno in cui arrivammo a In Salah, l’oasi algerina che si trova a metà strada tra Algeri e Tamanrasset, Tam per gli amici. Centinaia di chilometri di Sahara verso nord e centinaia verso sud. Fino a quel punto il viaggio era andato a meraviglia perché la strada asfaltata, che già allora arrivava fino a In Salah, aveva reso la traversata semplice e tranquilla. Ma da In Salah in poi c’erano solo pista e sabbia fino a Tam e il viaggio diventava difficile e anche pericoloso se non si è esperti e, soprattutto, attrezzati. E noi non eravamo né esperti né attrezzati.

Innanzi tutto il mese, agosto, non era dei più indicati. Ma andare in Norvegia forse ci era sembrato troppo banale. Dove si va in agosto? In Algeria, nel Sahara, ovvio. Certo, prima di partire eravamo consapevoli che avremmo patito il caldo, “ma quello secco” dicevamo. E il caldo secco, come ben sappiamo, si sopporta più facilmente del caldo umido. L’idea può essere accettabile, ma credo che, oltre una certa temperatura, provare la sensazione di essere in un forno non sia più tollerabile di quella che fa pensare di essere in una sauna. Ho trovato su Internet questa notizia: ‘Il record di In Salah di +50,6 gradi nel luglio 2002 rimane il record algerino.’ Noi non misurammo mai la temperatura a In Salah - sarebbe servito un termometro che non avevamo - ma sulla pelle sembravano addirittura di più. Il caldo fu la costante di tutto il viaggio, ma evidentemente giorno dopo giorno ci abituammo, al punto che durante il ritorno, quando arrivammo in Marocco, provai dopo molto tempo la sensazione di fresco, quasi di freddo e indossai un maglione. Ma entrando in un piccolo bar vidi un termometro che misurava 33 gradi. E mi ero infilato un maglione.

Il progetto era di arrivare a Tamanrasset. In quegli anni l’idea di viaggio, nell’animo di chi aveva vent’anni, era quella di ‘andare’, ‘scoprire’ e, con pochi soldi e molto tempo a disposizione, si partiva all’avventura. Conosco persone che a quei tempi arrivarono in auto dall’Italia fino in Afghanistan o in India. Io stesso ho raggiunto Istambul due volte con una Fiat 500.
La traversata del Sahara era il viaggio dei viaggi, perché richiedeva una preparazione particolare e presentava un livello di difficoltà fuori dal comune. Era l’avventura per antonomasia, anche se per viverla occorrevano auto a trazione integrale, i mitici fuoristrada Land Rover. Ma si diceva anche che qualcuno aveva raggiunto Tam con delle Citroën 2CV.[1] Nessuno di noi poteva permettersi l’acquisto di un fuoristrada, ma, sia pure con auto di marche diverse, al livello della 2CV potevamo arrivarci. Così con un’auto, una Fiat 127, e un autofurgone, un Fiat 238, abituati a circolare in Italia, tentammo anche noi di arrivare a Tam, contando sul fatto che fino a In Salah la strada era asfaltata. Da lì mancavano ‘solo’ seicento chilometri di pista, più a meno. Ci guidava la mitica carta geografica  153–Afrique Nord et Ouest della Michelin.[2]

Appena giunti a In Salah, ci dirigemmo all’unico distributore di benzina esistente e uno di noi pronunciò la fatidica frase “facciamo benzina e via!” e forse fu proprio quell’esortazione inopportuna a inchiodarci nell’oasi per quattro giorni. Fatto il pieno alle auto, riempimmo anche un’enorme tanica di benzina di riserva che caricammo pericolosamente nel retro del furgone. Ma al momento della partenza, lo stesso furgone non ne volle sapere. Non ci fu modo di rimetterlo in moto. Serviva un meccanico. Nella vampa del primo pomeriggio lo trovammo, impegnato in un’attività non attinente al suo mestiere, se fare il meccanico era davvero il suo mestiere. Stava, infatti, scavando un pozzo di fianco a casa sua. Senza nemmeno uscire dal buco, ormai profondo un paio di metri, ci diagnosticò il problema, indicando lo spinterogeno come causa. Fu anche più preciso dicendo che il problema era di lieve entità, ma occorreva aspettare che la temperatura calasse e ci fissò un appuntamento per il tramonto. Inoltre, pensai io, in quel momento per lui era più urgente scavare il pozzo che perdere tempo con noi.
Il sole calava dietro le palme e cominciava a disegnare fantastici chiaro-scuri giocando con i profili sinuosi delle dune. Ai piedi di una di queste il nostro campo era già pronto. Senza montare le tende avremmo dormito sotto la volta del cielo.
Verso sera ritornammo al distributore dove avevamo lasciato il furgone che non aveva voluto mettersi in moto e là arrivò anche il meccanico che si mise subito al lavoro, chino sul motore. Da lui quel giorno ricevetti un’importante lezione di vita. La tecnica e gli strumenti, si sa, sono fondamentali per ogni attività umana, ma né l’una né gli altri possono tutto se non sono accompagnati dall’arte. Non parlo dell’arte di Leonardo o di Mozart, ma dell’arte di arrangiarsi e, in sostanza, di vivere. Il meccanico era arrivato senza cassetta degli attrezzi, all’apparenza senza strumenti, forse aveva qualche cacciavite nelle tasche della tuta, forse un amuleto. Non so. Ma in dieci minuti smontò lo spinterogeno, vi eseguì sopra qualche operazione e lo rimontò. Il furgone si mise in moto al primo tentativo.  Aveva ragione, c’entrava la temperatura e per questo ci consigliò di non muoverci nelle ore più calde della giornata. Eravamo felici perché l’inconveniente si era risolto, ma allo stesso tempo cominciò a serpeggiare tra di noi un po’ di preoccupazione sulle reali possibilità di farcela, soprattutto quando ci rendemmo conto che non erano auto normali quelle che a In Salah erano in attesa di iniziare la traversata verso Tam e ancor meno delle 2CV. C’erano in giro solo fuoristrada, attrezzati con serbatoi di riserva, ruote di scorta, verricelli di traino e ogni altro ben di Dio necessario nel Sahara.
Intanto era trascorso il primo giorno.
L’alba del mattino seguente ci vide partire verso sud. Dopo In Salah, con grande sorpresa e gioia, incontrammo un altro centinaio di chilometri di strada asfaltata. Poi l’asfalto terminò bruscamente e da lì incominciava la pista. Ci fermammo. In piedi sull’ultimo metro di asfalto, accanto alle nostre auto normali, scrutavamo l’infinita serie di dune che si perdevano verso sud. Sembravamo dubbiosi marinai intenti a osservare dalla riva un mare minaccioso, incerti se abbandonare la sponda e ancora più incerti di riuscire a raggiungere l’altra riva.
Nel vedere per la prima volta una pista del deserto rimasi sconcertato. L’avevo sempre pensata come una sorta di strada, sconnessa, piena di buche, sassi, sabbia e difficoltà di ogni sorta, ma definita: qui sono sulla pista, là sono fuori della pista. Invece una pista sahariana, soprattutto se sabbiosa, è tutt’altra cosa. Dalla fine dell’asfalto le auto che erano passate avevano lasciato un’infinità di tracce che andavano più o meno verso sud, ma ognuna pareva scegliere un itinerario diverso. Sembravano i petali di un fiore che si spandevano a ventaglio dallo stelo d’asfalto che arrivava da nord.
Due colpi di clacson di saluto, o forse di commiserazione, ci arrivarono da due fuoristrada francesi che sopraggiunsero in quel momento. Rallentarono un po’ e proseguirono facendo subito impazzire balestre e sospensioni. Notammo che per resistere al massacro della tôle ondulée[3] andavano abbastanza veloci, ma questo era loro consentito da una struttura meccanica molto robusta, motori potenti. Erano cioè costruiti per viaggiare fuori strada, non come le nostre auto normali.
Appena lasciato l’asfalto, si separarono e proseguirono affiancati. Così la polvere sollevata da uno non andava a soffocare l’altro. Ecco come nasceva quel caos di tracce: in assenza di ostacoli ognuno seguiva un suo percorso. Ed è così che ci si perde nel deserto: seguendo tracce diverse senza riuscire poi a ritrovare la direzione giusta. Questo modo di viaggiare rende tra l’altro indispensabile l’impiego della bussola. Che noi non avevamo.
Lo sforzo del motore dei fuoristrada appena transitati denunciò che le nostre auto avrebbero forse avuto difficoltà serie, inoltre sospettammo che la 127 fosse troppo bassa per superare gli avvallamenti della tôle ondulée. Così decidemmo di fare una verifica lanciandola sulla pista. Con la spinta che le aveva garantito la partenza sull’asfalto, percorse venti metri e si affossò. Non avrebbe potuto farcela, in nessun caso. La delusione fu grande, ma non tanto da farci rinunciare al progetto di raggiungere Tam. In quattro a spingere e uno al volante, liberammo l’auto dalla sabbia e la riportammo sull’asfalto.  Era ormai mezzogiorno, il caldo era terribile e avrebbe potuto procurare al furgone lo stesso problema del giorno prima. La saggezza ci consigliò, almeno per quel giorno, di lasciar correre, ma nello stesso tempo la stupidità ci impedì di verificare se almeno il furgone fosse in grado di affrontare la pista. Questo ci sembrava sicuro, perché era più alto della vettura e, soprattutto, eravamo dotati fin dalla partenza di quelle che noi chiamavamo placche antisabbia.[4] In caso di necessità avremmo usato quelle, anche se, arrivati in Algeria, le avevamo viste quelle vere: rigide, robuste e lunghe almeno due metri, non come le nostre che, al contrario, erano fragili, leggere e molto flessibili. Tornati all’oasi, trovammo la soluzione al problema creato dall’impossibilità della 127 di affrontare la pista. L’avremmo lasciata in consegna alla polizia dell’oasi e due di noi avrebbero chiesto un passaggio a uno dei camion che partivano ogni giorno da In Salah per trasportare i rifornimenti a Tam.
Così anche il secondo giorno se n’era andato. Trascorsi una notte agitata.
Il giorno dopo, affidata la vettura a un improbabile controllo della locale stazione di polizia, incontrammo un camionista disposto a dare un passaggio a due di noi. Sarebbe partito verso mezzogiorno e in tre giorni avrebbe raggiunto Tamanrasset. Perfetto. Era il tempo che sarebbe servito agli altri del gruppo per compiere la traversata con il furgone ed io ero tra questi. Un ultimo rifornimento ci riempì il serbatoio e la grande tanica di scorta e partimmo di nuovo verso sud. Quando l’asfalto terminò, non ci fermammo come il giorno prima sulla riva del Sahara e ci lanciammo direttamente sulla pista. Ero al volante e ricordo un’esplosione nel momento in cui le ruote arrivarono sulla tôle ondulée. Per un attimo pensai che il furgone si sfasciasse, tanto devastanti erano il fracasso e le vibrazioni che mi assordavano. Levai il piede dal gas e lasciai che finisse la sua breve corsa piantato nella sabbia. Se il giorno prima avevamo percorso venti metri di pista, quella mattina forse arrivammo a trenta. Avevamo però in dotazione le placche che sistemammo davanti ad ognuna delle ruote motrici e provai a ripartire. Le ruote, con il motore al massimo, completarono un giro, uno solo, sufficiente a sparare dietro di loro quelle che chiamavamo placche antisabbia, facendone due cartocci informi. Era la fine. L’incidente spegneva definitivamente le nostre velleità di sahariani. Ci rimanevano da percorrere solo le strade asfaltate a nord di In Salah. Per fortuna un briciolo di raziocinio ci venne in soccorso sotto il sole di agosto, a cento chilometri a sud della capitale sahariana del caldo. Con fatica trascinammo il furgone fuori dalla sabbia e ritornammo per l’ultima volta a In Salah.
Ed i due compagni in viaggio su un camion verso Tamanrasset? Non so se la fortuna aiuti davvero gli audaci, di sicuro dà una mano agli sconsiderati, perché dopo avere percorso all’indietro i cento chilometri che ci separavano da In Salah senza incontrarlo, incrociammo il camion nel momento in cui si apprestava a lasciare l’oasi. Senza quell’incontro fortuito i nostri compagni sarebbero partiti e, loro sì, sarebbero arrivati a Tam. Ancora oggi non riesco a immaginare quale sarebbe stata l’evoluzione del viaggio. Ma ci andò bene e senza inconvenienti recuperammo anche la nostra 127 dal cortile della polizia.
E un altro giorno, il terzo, era trascorso.
“Facciamo benzina e via!” Dopo la prima volta, la frase inopportuna non fu mai più pronunciata,  nemmeno all’alba del quarto giorno, quando lasciammo In Salah per l’ultima volta, puntando verso nord su una comoda strada asfaltata.

Il ricordo di quel viaggio bellissimo e sgangherato mi è rimasto nel cuore e nel tempo ha assunto i contorni mitici dell’epopea. E quando penso al mio soggiorno a In Salah, mi viene in mente Blade Runner, non perché le cupe atmosfere del film abbiano qualche relazione con la splendida oasi sahariana. Tutt’altro. Ma per il toccante finale, nel quale il replicante Roy, invece di uccidere l’umano Harrison Ford, pronuncia la frase che è passata alla storia. Sulla nostra avventura a In Salah anch’io potrei dire: “Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare.”
Ho visto un ragazzo e una ragazza tedeschi appena arrivati nel centro dell’oasi, stravolti dal caldo e coperti di polvere, lasciarsi cadere in avanti nella sorgente, a braccia aperte come Cristi in croce, con i vestiti addosso e senza nemmeno sfilarsi gli zaini.
Ho visto il valore dell’acqua nelle mani di un vecchio che dalla sorgente principale apriva minuscole canalette di terra che scavalcavano altre canalette su piccoli ponti, per finire in piccole vasche da cui partivano ruscelletti che confluivano in altri ruscelletti. Quando quell'arzigogolo di ponticelli, cascatine e piccole pozze si allargava, una rete di rivoli d’acqua zampillava in ogni direzione per portare ristoro agli orti assetati dell’oasi. E ammiravo quell’ingegnoso e democratico sistema di distribuzione della preziosissima acqua pensando ai bambini che giocano con la sabbia sulle nostre spiagge. Simili le dimensioni, molto diversa la posta in gioco.
E ho visto cinque ragazzi entrare un pomeriggio in un edificio di In Salah che solo il padrone poteva chiamare albergo, affittare una camera, entrarci tutti insieme e uscirne al tramonto, solo per godere, almeno per alcune ore, di un’incerta aria condizionata: noi.
Ma nel mio caso quei momenti non sono andati “perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.”[5]

In Salah, Algeria, agosto 1975




[1] La Citroën 2CV (Deux Chevaux – in francese "due cavalli") è stata un'autovettura utilitaria prodotta dalla Casa automobilistica francese Citroën e molto diffusa tra i giovani negli anni ’60 e ’70 per i suoi costi molto contenuti.
[2] La carta Michelin 153, poco precisa e di scala troppo larga, è stata la carta geografica più diffusa e famosa tra i viaggiatori che negli anni ’70 si avventuravano nel Sahara tentandone la traversata. Il nostro intento di raggiungere Tamanrasset si basava proprio sulle indicazioni fornite dalla 153. La carta è diventata negli anni un vero cult, tanto che esiste addirittura un club (The 153 Club) fondato da e per i viaggiatori sahariani. Il club prende il nome proprio dalla vecchia carta 153.
[3] Tôle ondulée, tipica conformazione delle piste sterrate che presenta una serie continua di ondulazioni (più o meno profonde, più o meno ravvicinate) e rende la guida degli automezzi quanto mai faticosa e snervante.
[4] Sono lunghe placche di metallo che vengono posizionate sotto le ruote motrici per permettere loro di non affondare nella sabbia.
[5] La frase completa pronunciata dal replicante Roy, ormai diventata un cult, dice: “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo… come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.”


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