Ho
atteso anni prima di decidermi a entrare nelle catacombe di Denfert-Rochereau,
XIV arrondissement parigino. Ne ho
visitate altre e devo confessare di aver provato ogni volta una sensazione di
disagio, il desiderio impellente di uscire in fretta. Non soffro di claustrofobia,
ma forse il silenzio, l’umidità, la penombra di cunicoli angusti e
mal illuminati mi hanno sempre procurato la sensazione della solitudine estrema
e irrimediabile di fronte alla morte, facile da comprendere, ma difficile da
accettare. Come se fossi in visita al regno dell’aldilà e affrontassi una
sgradevole prova generale di quanto un giorno mi accadrà. Non mi impressionano
le tombe e nemmeno i morti, perché in entrambi colgo l’evidenza di un destino
inappellabile, ma manifesto, un esito tragico che, tuttavia, la mia mente
razionale si spiega. Perché è cosciente del dramma che si perpetua, uguale per
tutti, fin dall’inizio del mondo: qui giace Tizio, questa è la sua tomba, la
fine della sua storia terrena, là riposa Caio, quella è la sua tomba e, per chi
crede, l’inizio della sua vita eterna. Tutto molto chiaro, osservo, ma tutto
ciò riguarda solo Tizio e Caio, non me. So che quello sarà anche il mio
destino, ma non oggi. Invece le tombe vuote o i loculi aperti che si trovano numerosi
nelle catacombe mi fanno sentire in una condizione sospesa, come irrisolta. A
chi hanno dato riposo quei ricettacoli? A chi furono destinati? E in futuro
ospiteranno altri corpi? È suggestione, lo so, ma in una catacomba mi sento
come se qualcosa, o qualcuno, mi sussurrasse: “Oggi puoi andartene da questo
macabro luogo, ma fai tesoro di tale privilegio che un giorno, qui o altrove,
non ti sarà concesso”. E ogni volta all’uscita provo sollievo, la sensazione di
aver corso un rischio e, ancora una volta, di averla scampata.
Strane sensazioni che mi avevano tenuto lontano dalle sterminate catacombe di Denfert-Rochereau, oltre alle tre ore di attesa all’ingresso necessarie per entrare. Ma un bel giorno di qualche anno fa mi decisi e mi infilai nella scala che porta sotto le strade di Parigi.
Mi trovai in un angusto corridoio scavato nel calcare, il corridoio di accesso alle catacombe vere e proprie. Lo percorsi con l’animo guardingo e incerto di chi si reca a un obitorio, accompagnato da alcuni compagni della lunga attesa all’entrata. Livide luci al neon alle pareti.
Arrete! C’est ici l’empire de la mort! (Fermati! Qui è l'impero della morte!) Cominciava da qui, da questo monito scolpito sulla porta dell’ossario il viaggio attraverso i resti di milioni di parigini. Da quella soglia si partiva per la visita e… Vidi venirmi incontro una teoria infinita di crani e ossa disposte e applicate con intento decorativo alle pareti, da una parte del corridoio e dall’altra. Lo stesso davanti, a perdita d’occhio. E proseguendo, si apriva di fronte a me una vera esposizione museale. C’erano indicazioni e segnali direzionali, tutto era riportato con precisione: il luogo di provenienza dei resti, la data della deposizione, tutto. Mi domandavo sconcertato chi potesse aver concepito una simile, macabra idea: allestire chilometri di gallerie con ossa umane, soprattutto ossa lunghe – tibie, omeri - disposte in un raccapricciante mosaico.
Macabri mosaici di ossa alle catacombe di Denfert-Rochereau, Parigi |
Nel mio cauto procedere incontravo massime e sentenze scolpite sulle pareti. I loro messaggi erano ovvi e scontati, noti fin dall’infanzia, ce li ricordano ad ogni funerale: la fragilità della vita, la caducità delle cose terrene, l’invito a prepararci per l’appuntamento con la morte che rende tutti uguali. Perché ha ragione Totò: a morte ‘o ssaje ched’’e? E’ una livella. Non mi colpivano, quindi, per l’originalità, ma per la potenza che esprimevano là sotto. Anche “lasciate ogni speranza voi ch’entrate” suona diversa sui banchi del liceo o davanti a un cunicolo incorniciato da una parete di teschi che ti guardano con orbite vuote. Molte parlavano latino, molte francese, alcune italiano…
Uno dei moniti (in italiano) nelle catacombe di Denfert-Rochereau, Parigi |
Superato lo stupore iniziale, cominciai a cogliere i dettagli. Le ossa erano disposte una accanto all’altra in modo da formare mosaici di resti umani, ma non solo: i macabri autori avevano sfruttato anche le diverse dimensioni e forme dei teschi e delle ossa per modellare figure geometriche, che la luce radente delle lampade faceva risaltare, se ce ne fosse stato bisogno. Uno sterminato, spettrale puzzle.
Se posso chiamare capolavoro un
pilastro rivestito di crani e tibie, mi riferisco a quello che troneggiava
nella “rotonda delle tibie”. Il depliant
di presentazione delle catacombe riportava che l’ambiente, abbastanza ampio,
accolse un centinaio di appassionati per assistere ad un concerto. Vennero
eseguite - c’era da dubitarne? - la Marcia funebre di Chopin e la Danza
macabra di Camille Saint-Saens. Era il 2 aprile 1897. Già allora il gusto
del macabro procurava brividi a Parigi, in piena Belle Epoque.
Più mi inoltravo nelle catacombe e più mi assuefacevo alla penombra dell’ambiente che avrebbe dovuto infondere nel visitatore un profondo senso di rispetto e di meditazione. Era la tesi sostenuta dal depliant. Ma in quel momento, pur mantenendo il rispetto dovuto al luogo, non mi veniva da meditare, perché i visitatori, troppi e troppo rumorosi, mi distraevano. Impossibile meditare. Troppe risatine, nervose e inopportune, manifestavano in molti presenti un disagio mal dissimulato. Troppi abbigliamenti indecorosi, troppa volgarità.
Perché ridevi sciocca ragazza giapponese? I teschi ai quali ti appoggiavi, un tempo furono uomini e donne, forse migliori di te che pigiavi sullo smartphone senza nemmeno guardarti attorno e non meritavano di subire i tuoi selfie. Selfie con sfondo teschi, mi vien da dire, che avrai postato all’uscita – là sotto non c’era campo - ai tuoi amici lontani. Avessero potuto parlare ti avrebbero detto, assieme a Totò, con disprezzo:“Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie…appartenimmo à morte!”
Tutto questo erano, anzi sono, le catacombe di Denfert-Rochereau: cippi, umidità, frasi solenni scolpite nel marmo, una sconsiderata esposizione di ossa umane, troppi turisti, volgarità, penombra, selfie inopportuni, perfino macabri concerti.
Nessun commento:
Posta un commento