sabato 19 aprile 2025

Nelle catacombe di Denfert-Rochereau (Parigi)

Macabra torre di ossa umane, catacombe
di Denfert-Rochereau, Parigi, Fancia
Parigi, 6 maggio 2017

A Parigi, fin dall'avvento del Cristianesimo, ebbe inizio la consuetudine di seppellire i morti in terra consacrata intorno alle chiese che sorgevano entro i confini cittadini. La morte non dimentica nessuno, a Parigi come altrove, e la necessità di trovare spazio per le nuove tombe non poté più essere soddisfatta dai cimiteri urbani impossibilitati a espandersi. Dapprima si crearono tre grandi cimiteri alla periferia della città e si chiusero quelli parrocchiali. I cimiteri di Montmartre, Père Lachaise, Passy e infine Montparnasse nacquero così.  Rimanevano da smantellare quelli vecchi trasferendo altrove i resti dei morti.

Fin dall’antichità esistevano sotto le strade di Parigi centinaia di chilometri di cave artificiali. Procuravano calcare, gesso e argilla prima di venir chiuse per salvaguardare la città dai numerosi crolli che provocavano. Fu trovata la soluzione al sovraffollamento dei cimiteri trasformando le cave in catacombe. L’esumazione e il trasferimento dei morti di Parigi iniziò nel 1786 e venne completata in pochi anni. Impressionante il numero dei morti traslati: sei milioni.

Ho atteso anni prima di decidermi a entrare nelle catacombe di Denfert-Rochereau, XIV arrondissement parigino. Ne ho visitate altre e devo confessare di aver provato ogni volta una sensazione di disagio, il desiderio impellente di uscire in fretta. Non soffro di claustrofobia, ma forse il silenzio, l’umidità, la penombra di cunicoli angusti e mal illuminati mi hanno sempre procurato la sensazione della solitudine estrema e irrimediabile di fronte alla morte, facile da comprendere, ma difficile da accettare. Come se fossi in visita al regno dell’aldilà e affrontassi una sgradevole prova generale di quanto un giorno mi accadrà. Non mi impressionano le tombe e nemmeno i morti, perché in entrambi colgo l’evidenza di un destino inappellabile, ma manifesto, un esito tragico che, tuttavia, la mia mente razionale si spiega. Perché è cosciente del dramma che si perpetua, uguale per tutti, fin dall’inizio del mondo: qui giace Tizio, questa è la sua tomba, la fine della sua storia terrena, là riposa Caio, quella è la sua tomba e, per chi crede, l’inizio della sua vita eterna. Tutto molto chiaro, osservo, ma tutto ciò riguarda solo Tizio e Caio, non me. So che quello sarà anche il mio destino, ma non oggi. Invece le tombe vuote o i loculi aperti che si trovano numerosi nelle catacombe mi fanno sentire in una condizione sospesa, come irrisolta. A chi hanno dato riposo quei ricettacoli? A chi furono destinati? E in futuro ospiteranno altri corpi? È suggestione, lo so, ma in una catacomba mi sento come se qualcosa, o qualcuno, mi sussurrasse: “Oggi puoi andartene da questo macabro luogo, ma fai tesoro di tale privilegio che un giorno, qui o altrove, non ti sarà concesso”. E ogni volta all’uscita provo sollievo, la sensazione di aver corso un rischio e, ancora una volta, di averla scampata.

Strane sensazioni che mi avevano tenuto lontano dalle sterminate catacombe di Denfert-Rochereau, oltre alle tre ore di attesa all’ingresso necessarie per entrare. Ma un bel giorno di qualche anno fa mi decisi e mi infilai nella scala che porta sotto le strade di Parigi.

Mi trovai in un angusto corridoio scavato nel calcare, il corridoio di accesso alle catacombe vere e proprie. Lo percorsi con l’animo guardingo e incerto di chi si reca a un obitorio, accompagnato da alcuni compagni della lunga attesa all’entrata. Livide luci al neon alle pareti.

Arrete! C’est ici l’empire de la mort! (Fermati! Qui è l'impero della morte!) Cominciava da qui, da questo monito scolpito sulla porta dell’ossario il viaggio attraverso i resti di milioni di parigini. Da quella soglia si partiva per la visita e… Vidi venirmi incontro una teoria infinita di crani e ossa disposte e applicate con intento decorativo alle pareti, da una parte del corridoio e dall’altra. Lo stesso davanti, a perdita d’occhio. E proseguendo, si apriva di fronte a me una vera esposizione museale. C’erano indicazioni e segnali direzionali, tutto era riportato con precisione: il luogo di provenienza dei resti, la data della deposizione, tutto. Mi domandavo sconcertato chi potesse aver concepito una simile, macabra idea: allestire chilometri di gallerie con ossa umane, soprattutto ossa lunghe – tibie, omeri - disposte in un raccapricciante mosaico.

Macabri mosaici di ossa alle catacombe di Denfert-Rochereau, Parigi

Nel mio cauto procedere incontravo massime e sentenze scolpite sulle pareti. I loro messaggi erano ovvi e scontati, noti fin dall’infanzia, ce li ricordano ad ogni funerale: la fragilità della vita, la caducità delle cose terrene, l’invito a prepararci per l’appuntamento con la morte che rende tutti uguali. Perché ha ragione Totò: a morte ‘o ssaje ched’’e? E’ una livella. Non mi colpivano, quindi, per l’originalità, ma per la potenza che esprimevano là sotto. Anche “lasciate ogni speranza voi ch’entrate” suona diversa sui banchi del liceo o davanti a un cunicolo incorniciato da una parete di teschi che ti guardano con orbite vuote. Molte parlavano latino, molte francese, alcune italiano…

Uno dei moniti (in italiano) nelle catacombe di Denfert-Rochereau, Parigi

Superato lo stupore iniziale, cominciai a cogliere i dettagli. Le ossa erano disposte una accanto all’altra in modo da formare mosaici di resti umani, ma non solo: i macabri autori avevano sfruttato anche le diverse dimensioni e forme dei teschi e delle ossa per modellare figure geometriche, che la luce radente delle lampade faceva risaltare, se ce ne fosse stato bisogno. Uno sterminato, spettrale puzzle.

Se posso chiamare capolavoro un pilastro rivestito di crani e tibie, mi riferisco a quello che troneggiava nella “rotonda delle tibie”. Il depliant di presentazione delle catacombe riportava che l’ambiente, abbastanza ampio, accolse un centinaio di appassionati per assistere ad un concerto. Vennero eseguite - c’era da dubitarne? - la Marcia funebre di Chopin e la Danza macabra di Camille Saint-Saens. Era il 2 aprile 1897. Già allora il gusto del macabro procurava brividi a Parigi, in piena Belle Epoque.

Più mi inoltravo nelle catacombe e più mi assuefacevo alla penombra dell’ambiente che avrebbe dovuto infondere nel visitatore un profondo senso di rispetto e di meditazione. Era la tesi sostenuta dal depliant. Ma in quel momento, pur mantenendo il rispetto dovuto al luogo, non mi veniva da meditare, perché i visitatori, troppi e troppo rumorosi, mi distraevano. Impossibile meditare. Troppe risatine, nervose e inopportune, manifestavano in molti presenti un disagio mal dissimulato. Troppi abbigliamenti indecorosi, troppa volgarità.

Perché ridevi sciocca ragazza giapponese? I teschi ai quali ti appoggiavi, un tempo furono uomini e donne, forse migliori di te che pigiavi sullo smartphone senza nemmeno guardarti attorno e non meritavano di subire i tuoi selfie. Selfie con sfondo teschi, mi vien da dire, che avrai postato all’uscita – là sotto non c’era campo - ai tuoi amici lontani. Avessero potuto parlare ti avrebbero detto, assieme a Totò, con disprezzo:“Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie…appartenimmo à morte!”

Tutto questo erano, anzi sono, le catacombe di Denfert-Rochereau: cippi, umidità, frasi solenni scolpite nel marmo, una sconsiderata esposizione di ossa umane, troppi turisti, volgarità, penombra, selfie inopportuni, perfino macabri concerti.

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