martedì 9 aprile 2019

RACCONTO: Malik, il piccolo amico

(Tratto dal mio libro: IL CONFINE IMMAGINARIO)

(per concessione dell'editore POLARIS)


Se raggiungere le onde del mare seguendo il percorso più breve fosse il destino dei fiumi, il Niger avrebbe fallito la sua missione. Scendendo, infatti, verso occidente dalle montagne della Guinea, dove nasce, il grande fiume africano, che dà il nome al paese omonimo, arriverebbe ben presto all’oceano Atlantico. Ma la ragione della sua esistenza è per forza un’altra, quella di portare acqua e vita a più gente possibile. 
Così il suo cammino inizia puntando a nord-est verso il Sahara, poi rallenta e quasi si ferma nel cosiddetto delta interno del Mali, perdendosi in un dedalo di rami e canali. Quindi presso Tombouctou punta verso sud e da lì in poi mantiene un corso regolare fino a sfociare nel golfo di Guinea, dopo un viaggio di quattromila chilometri. Un fiume immenso.

Il sole del mattino prometteva una giornata calda mentre insieme ai compagni di viaggio ero in attesa di partire per Djennè. Quel campo in riva al fiume non era previsto perché già la sera precedente saremmo dovuti arrivare in città. Ma l’attraversamento del Niger era stato più complicato e lungo del previsto e il calare della sera ci aveva costretto a montare le tende subito dopo lo sbarco dal traghetto. 
Quello che a tutti i compagni di viaggio era apparso un contrattempo destinato a rallentarci la marcia, per me era stato un colpo di fortuna, perché avevo potuto assistere ad un tramonto spettacolare. Il sole era calato incendiando le placide acque del fiume mentre le piroghe attraccate alla riva mostravano un profilo scuro e sfumato, come in un quadro impressionista. Quella mattina avevo deciso inoltre di approfittare del tempo che mancava alla partenza per fare una passeggiata tra le capanne dei Bozo che erano a poca distanza dal nostro campo. Per questo, dopo aver preparato i bagagli, ero uscito dalla tenda prima degli altri. 
Eravamo nella stagione secca e il livello dell’acqua era al minimo. Il grande fiume era quasi fermo, un gigante esausto ridotto pressoché a lago con le acque stagnanti che ritirandosi avevano lasciato scoperte, sotto i raggi del sole, aree ogni giorno più aride e vaste. In una di queste, senza il conforto della più misera ombra, un gruppo di famiglie Bozo aveva costruito il suo piccolo villaggio. Poche capanne con intorno tanti pesci stesi al sole ad essiccare, la loro dieta principale. Era gente poverissima e come sempre erano i bambini i più colpiti dall’indigenza, pance gonfie e occhi assaliti dalle mosche. Era duro iniziare la giornata con una simile visione e anche le mie macchine fotografiche, dopo qualche scatto, rimasero inoperose. Camminai una mezz’ora sfiorando quella terribile povertà, tra donne e bambini che nonostante tutto trovavano la forza di sorridermi e di salutarmi. 
In lontananza vedevo i miei compagni di viaggio passeggiare intorno al campo, mentre gli autisti sistemavano i bagagli sui fuoristrada. Capii che eravamo prossimi alla partenza e cominciai lentamente il ritorno, allontanandomi dal gruppo di capanne in riva al fiume.

Un lieve rumore alle mie spalle denunciò la presenza di qualcuno. Mi voltai e vidi un bambino di otto o dieci anni che mi stava seguendo timoroso. Indossava una maglietta lacera e sporca, per lui troppo grande, che gli faceva da tunica. Il numero 33, scolorito dal tempo, ne denunciava l’origine sportiva. Un regalo di qualche viaggiatore che era passato da quelle parti prima di me. Gli sorrisi e lui ricambiò il mio sorriso. Avrei voluto fargli un piccolo regalo ma, a parte le macchine fotografiche, non avevo nulla con me. Nemmeno il cappello, notai in quel momento, mentre il sole saliva nel cielo e l’acqua che avevo intorno rendeva l’aria umida e appiccicosa.

Provai a chiedergli come si chiamava, ma fu evidente che non parlava francese. Tuttavia mi rivolse alcune parole con un sorriso immenso che scoprì una fila di denti bianchissimi che solo la sua giovane età poteva ancora concedergli. Anche gli occhi sorridevano. Ma dovevo andare e così gli porsi la mano con rispetto e gli feci un cenno di saluto, mentre riprendevo il cammino verso le auto. 
Quando guardai nella direzione del campo rimasi sorpreso, non capivo cosa stesse succedendo. Poi mi assalì l’angoscia, perché le auto con i miei compagni si stavano allontanando in una nuvola di polvere. Non si erano accorti della mia assenza e mi avevano abbandonato! Cercai di attirare la loro attenzione con gesti e richiami, ma erano ormai troppo lontani e fu inutile. Inutile fu anche lanciarmi in una breve corsa al loro inseguimento. Erano partiti.
Dovevo decidere con calma cosa fare. Non temevo per la mia vita, perché eravamo a qualche decina di chilometri da Djennè. Nel peggiore dei casi là avrebbero dovuto fermarsi e là la mia assenza sarebbe stata scoperta. Tuttavia… rimanere anche solo una giornata in quella landa, senza cibo né acqua non sarebbe stato piacevole. Ma c’era poco da scegliere, l’unica cosa saggia da fare era seguire la pista che avevano preso i miei compagni. E con una forte dose di ansia mi incamminai. 
Fatti alcuni passi mi accorsi che il bambino mi stava ancora seguendo. Non sapevo cosa avrebbe potuto fare per me in caso di necessità perché anche lui non aveva con sé né cibo né acqua. Tuttavia fui felice che non se ne fosse andato.
“Visto? - gli dissi senza pensare - mi hanno lasciato solo!”
L’affermazione era stupida perché sapevo che il bambino non mi capiva. In più mi resi conto che avevo parlato in italiano. Con il sorriso radioso che già conoscevo mi rispose parole che non compresi. Cosa avrà detto? Non lo seppi allora e non lo saprò mai, ma so che il mio stato d’animo tradusse così le sue parole:
“Non ti preoccupare, torneranno a prenderti.”
Mi sorpresi per il senso di tranquillità che provai a quella risposta inventata. Nella distesa di fango che la magra del fiume lasciava indurire al sole, la presenza del bambino mi sembrò di conforto e pensai che avremmo potuto continuare la conversazione in attesa che i miei compagni tornassero a cercarmi. Decisi pure di dargli un nome e lo chiamai Malik. 
Di lontano potevamo sembrare due vecchi amici che passeggiavano conversando. Ma a sentire i nostri discorsi chiunque si sarebbe stupito dell’insolita compagnia, perché mentre io parlavo in italiano il bambino parlava nella sua lingua. Nessuna possibilità di traduzione e nessuna speranza di capirci, ma a me andava bene così. Nei rari momenti in cui l’ansia allentava la sua presa su di me, mi domandavo quale logica Malik seguisse nei suoi discorsi e cosa ne facesse delle mie risposte. Di certo sapevo cosa stavo facendo io: gli rivolgevo delle domande e mi inventavo le risposte, così, per ingannare il tempo e non pensare.
“Come mai non sei a scuola, Malik?”
“Non posso andare a scuola.”
“Perché?”
“Perché è troppo lontana dal villaggio”. 
“E non si potrebbe costruirne una qui, nel villaggio?” pensai e domandai.
“Quando arriverà la piena ed il fiume crescerà, la piana dove abbiamo costruito le capanne andrà sott’acqua e noi dovremo andare via. Torneremo qui quando il fiume se ne sarà andato” rispose, come se simili periodici traslochi fossero la più ovvia delle consuetudini. Forse per facilitare quegli spostamenti le capanne, come le chiamava il mio amico, erano semplici tralicci di pali di legno a cui erano fissate pelli e stuoie a mo’ di pareti e tetti. Tutto pronto per essere smontato e accatastato in fretta. Tornai alla scuola.
“Ma ti piacerebbe andarci, a scuola?”
“Sì, ma la mia famiglia è molto povera. Noi siamo pescatori come gli altri qui sul fiume e siamo la gente più povera di tutti, così devo aiutare mio padre a prendere i pesci nel fiume. Quelli che non mangiamo, li mettiamo a seccare al sole, poi andiamo al mercato a venderli per compare le cose che ci servono”. Malik aveva ragione. In Mali, nel paese delle tante etnie, i Bozo sono all’ultimo gradino della società, destinati ai lavori più umili. Sono pescatori e per questo poco stimati dai popoli vicini che si dedicano alla pastorizia o all’agricoltura, attività considerate più nobili.
“Dove sono ora tuo padre e tua madre”?
“Mio padre e mia madre questa mattina sono andati al mercato e torneranno più tardi ”.
Pensai a sua madre e la immaginai giovane e bella, vestita di tanti colori e con il volto incorniciato da un paio di orecchini a foglie dorate, caratteristici delle donne Bozo, enormi ma leggerissimi, che avevo potuto ammirare nelle città e nei villaggi lungo il grande fiume. 
Sono affascinato dai fiumi fin dall’infanzia che ho trascorso in una casa di campagna a qualche centinaio di metri da un fiume i cui argini furono costruiti un tempo dalla fatica di migliaia di braccianti. E ricordo che da piccolo mi domandavo dove andasse a finire tutta quell’acqua che scorreva sempre nella stessa direzione. Come non mettere quindi una simile domanda in bocca a Malik?
“Dove va a finire il fiume”? mi domandai per suo conto.
“Questo grande fiume viene da molto lontano, dalle montagne che si vedrebbero in lontananza da quella parte, se non ci fosse questa foschia” dissi indicando verso sud-ovest, “poi arriva qua – continuai a spiegare – e poi attraversa altri paesi, porta i pesci a tante altre famiglie di pescatori come la tua e infine finisce la sua corsa nel mare”. 
Non pensai che fosse importante spiegare a Malik cosa fossero le montagne, anche se probabilmente non le aveva mai viste, ma mi apparve più curioso per lui sapere cosa fosse il mare. Mi feci quindi la domanda relativa e gli diedi la risposta, parlandogli dell’acqua dolce che diventa salata e di tutto quello che conoscevo in proposito. 

Appena iniziato il racconto sulle maree, una nuvola di polvere in lontananza annunciò il ritorno delle auto che venivano alla mia ricerca. All’arrivo i compagni mi rimproverarono per essermi allontanato dal campo senza avvisarli e di “essermi perso”, dissero. Non avevo voglia di discutere di questo e chiesi se, in auto, potevamo riaccompagnare Malik al villaggio. Mi venne detto che eravamo in ritardo e non avevamo altro tempo da perdere. Dissero anche che il bambino poteva tornare a piedi, era abituato a camminare. 
Allora mi avvicinai a Malik che era rimasto ad osservare a qualche metro di distanza. Mi chinai di fronte a lui e guardandolo negli occhi gli dissi a bassa voce, perché nessun altro potesse udirmi: “Grazie, Malik, per avermi accompagnato. Per quanto ti sarà possibile, sii felice. Non ti dimenticherò”. Poi mi sfilai la maglietta che indossavo e gliela regalai. Rispose ancora una volta con il consueto, allegro sorriso. Si tolse lo straccio che indossava e lo ripiegò con cura. Poi indossò il mio regalo e si infilò il fagotto della vecchia maglietta sotto il braccio. 
I compagni non capivano quel mio indugiare nel commiato e mi guardavano con sconcerto. Dopo che ci fummo scambiati un ultimo saluto con il gesto della mano, salii in auto e ripartimmo. 

Ero triste mentre osservavo Malik che rimpiccioliva nello specchietto retrovisore, perché non avevo potuto parlare davvero con lui e sapevo che non avrei potuto rimediare in futuro. E non avevo nemmeno avuto il tempo di ricompensarlo per il suo aiuto, se non con una misera maglietta. Quell’aiuto che, ritrovati alla fine i miei compagni, capivo quanto fosse stato prezioso. Allora dentro di me e quando ormai non poteva più rispondermi - e nemmeno udirmi - gli feci l’ultima domanda e mi diedi l’ultima riposta, la più importante e sincera:
“Perché mi hai accompagnato, Malik?”
“Perché eri rimasto solo e avevi paura”.

Delta interno del Niger, Mali, dicembre 1985

Nessun commento:

Posta un commento