martedì 9 aprile 2019

Viaggio in MALI (Viaggio ATM)

Giovane, elegante Peul, Somadougou, Mali
Paese attraversato: Mali
Itinerario: Bamako, Segou, San, Djenne, Falaise di Bandiagara (paesi Dogon), Douenza, Hombori, Gossi, Deserto di Gourma-Rharus, Tombouctou, Niaounke-Mopti (navigazione sul fiume Niger), Bamako
Periodo: dicembre 1985 – gennaio 1986
Durata: 2 settimane
Ne parlo nel libro: Il Confine Immaginario

«Disse tuttavia che, mentre i negri erano creature di luce, estratti in pieno sole, era al chiaro di luna che erano stati creati i bianchi; di qui il loro aspetto larvale. (...) Non aveva nulla contro i bianchi. Non diceva nemmeno di compiangerli. Li lasciava al loro destino, nelle terre del nord»[1].
Mentre il sole alle mie spalle calava, dipingendo in cielo il più tipico dei tramonti africani, osservavo le piroghe che si affannavano sul fiume negli ultimi, frenetici trasporti della giornata. 
La cittadina di Mopti si vestiva lentamente dei colori della sera, i rumori si attenuavano e si accendevano le luci dei banchetti di un mercato che non voleva cedere nemmeno alla notte.


E, mentre il pensiero rincorreva i ricordi, mi rendevo conto del perché Mopti letteralmente significasse «grande assembramento».

Il porto fluviale di Mopti, Mali
Arrivati alla fine del viaggio (il giorno dopo saremmo tornati in Itala) avevo già dimenticato la fatica, le forature, gli insabbiamenti dei fuoristrada e anche gli innumerevoli intralci di una burocrazia asfissiante, i sequestri delle macchine fotografiche da parte della polizia (comunque sempre restituite).
E mi tornavano alla mente le parole, riportate all'inizio, che Marcel Griaule (l'antropologo francese che negli anni '30 e '40 soggiornò per anni presso i Dogon di Bandiagara studiandone vita e organizzazione sociale) mette in bocca ad Ogotemmeli, il vecchio Dogon cieco di cui si era conquistata la fiducia e che aveva accettato di metterlo a parte di tutti i segreti del suo popolo.
Un viaggio impegnativo, Mali

I Dogon. Erano trascorse alcune settimane da quando, lasciata la strada di Gao, avevamo piegato a sud verso il Burkina Faso e dopo una mezza giornata trascorsa a balzare con i fuoristrada su una pietraia impossibile, avevamo raggiunto al primo villaggio Dogon, Nando. Qui, secondo me, l'incontro con la più bella moschea del Mali, anche se le guide la indicano in quella molto più grande di Djenné; qui il primo incontro con un popolo assolutamente unico, che da decenni incuriosisce etnologi e studiosi, e di cui avevo letto tutto quel poco che era stato scritto, affascinato dalla ricchezza, dall'ordinata complessità e dall'incredibile livello di astrazione della loro concezione dell'universo, «una cosmogonia (per usare ancora le parte di Griaule) altrettanto ricca di quella di Esiodo», e che rivendicava, tra l'altro, il privilegio di essere ancora viva.
Il giorno dopo, attraverso una pista tortuosa e accidentata, eravamo arrivati al bordo della falaise di Bandjagara che verso sud-est precipita sulla pianura sottostante con una scarpata a picco di 250 metri. Di qui eravamo scesi in uno scenario grandioso e, per alcuni giorni, l’avevamo costeggiata attraversando campi di miglio alla ricerca di piste inesistenti. 


Di tanto in tanto ci arrampicavamo sulle balze della scarpata alla scoperta dei villaggi abbarbicati su di essa: Tireli, Ibi, Genè, Bamba i più importanti di una lunga teoria.

Villaggio Dogon, falaise di Bandiagara, Mali
Originari della regione del Mandè da cui fuggirono verso il X secolo forse per salvaguardare la loro identità religiosa, stanno lottando per la difesa della loro cultura e della loro religione contro l'islamismo che si espande in tutta l'Africa e per la stessa sopravvivenza della loro identità di popolo. Ho visto sulla falaise paesi semideserti dove case e granai, privi di manutenzione, stavano a poco a poco sgretolandosi. Come dai nostri paesi del sud e delle montagne, anche dalla regione di Bandiagara i giovani stavano fuggendo verso Mopti e Bamako alla ricerca di un lavoro e di un'esistenza meno dura di quella dei loro padri. Solo nei giorni di mercato i paesi si animavano riempiendosi della gente e dei colori che chi ha viaggiato in Africa conosce bene.
Il popolo Dogon deve la sua originalità anche all'insediamento in questa regione impervia e praticamente inaccessibile, dove, nascosti e acrobaticamente arroccati tra blocchi di arenaria e caverne naturali, sono stati costruiti i granai e le capanne dai caratteristici coperti in paglia di forma conica. Ma il fascino dei Dogon risiede soprattutto nella loro concezione religiosa del mondo, nella quale si ritrovano sorprendenti riferimenti ad altre religioni e mitologie. Questa loro concezione, insieme col culto importantissimo degli antenati, è ancora oggi simboleggiata in tutte le forme di espressione del popolo: le sculture, le maschere, i numeri, i granai, i tamburi, le case, le stoffe, le porte, le finestre e così via. 
Uomo Dogon a Tireli, falaise di Bandiagara, Mali

I Dogon discendono da otto antenati, direttamente creati dal dio Amma, successivamente riassunti in cielo. Di questi i due maggiori trasgredirono in seguito l'ordine divino di non frequentarsi. Ciò segnò la «prima colpa» (sono chiare le somiglianze col mito di Adamo ed Eva) ed essi diventarono impuri e indegni della vita celeste. Gli altri sei antenati furono solidali con loro e tutti insieme dovettero fuggire dal cielo; tuttavia portarono con sé tutto ciò che sarebbe potuto servire agli uomini: gli animali, i vegetali, le tecniche e, soprattutto, il linguaggio la cui rilevazione, associato all'arte della tessitura, avrebbe permesso alla società umana di organizzarsi e progredire. Anche in questo c'è una chiara similitudine con il mito greco di Prometeo, che rubò agli dei il fuoco per donarlo agli uomini. Da questi otto antenati discesero le famiglie primordiali del popolo Dogon, e l'otto è ancora oggi il numero chiave attraverso cui si può leggere tutta la loro struttura sociale e religiosa: il sesso, le membra del corpo, le dita della mano, le arti, le regioni in cui vivono, i linguaggi, l'organizzazione del villaggio, gli strumenti musicali, le costellazioni. Ho camminato per i villaggi alla ricerca dei segni di questa grandiosa cattedrale di simboli e li ho trovati nei granai, nelle porte delle capanne e nelle loro serrature, e soprattutto nelle «case del consiglio» (o togu-na, letteralmente «grande riparo»), una struttura costituita da un tetto in paglia poggiato su colonne e che è il fulcro del villaggio. Sotto di esso si riunisce il consiglio degli anziani, presieduto dall'hogon (il capo spirituale e religioso), per esercitare la sua funzione di organo decisionale. 
Villaggio Dogon, sullo sfondo un To-guna, Mali
Anche nella costruzione del togu-na nulla è lasciato al caso: le colonne sono otto, numerate e sistemate in modo prestabilito ai punti cardinali; l'altezza delle colonne è sempre inferiore all'altezza media di un uomo per impedire che consigli troppo burrascosi degenerino in liti: è impossibile infatti azzuffarsi quando non si può stare in piedi!

I Bambara. Il Mali non è solo il paese dei Dogon. Altre popolazioni vivono in queste zone e manifestano altre culture e altre religioni strettamente legate ai modi di vita. I Bambara sono il gruppo etnico dominante e più numeroso, la cui lingua è diventata la lingua commerciale, e quindi comune, in tutto il paese, oltrepassando abbondantemente i confini della regione culturale bambara.

Poverissima residenza di una famiglia Bozo,
 Delta del Niger, Mali
I Bozo, pescatori per eccellenza, abitano sui fiumi Niger e Bani. 
Il mitico sacrificio di un Dogon a favore di un bambino Bozo, unisce strettamente i due popoli in un patto di reciproca amicizia. In un villaggio Bozo, nel delta interno del NIger (vedere dopo), in una mattina che non dimenticherò, mi capitò una delle avventure più forti della mia vita. Potete leggerla in questo racconto: Malik, il piccolo amico

Ragazza Peul, Mali
I Peul, sparsi anche oltre i confini del Mali, discendono da nomadi di pelle bianca ed hanno una storia gloriosa: all'inizio del secolo scorso, ribellatisi ai Bambara, fondarono un impero che sopravvisse fino al 1862. 

Vestono, sia gli uomini che le donne, in modo molto elegante e ricercato adornandosi di gioielli e monili di pregevole fattura che mettono in risalto una bellezza di lineamenti veramente fuori dal comune.

Tuareg, Mali
I Tuareg. Infine non vanno dimenticati i Tuareg, che vivono a Gao, a Tombouctou e nelle zone desertiche a nord-est del paese. Falcidiati ed umiliati dalla spaventosa siccità degli anni '70, che li ha costretti a rinunciare in buona parte al nomadismo e ai loro modi di vita, cercano di recuperare e mantenere intatta l'originalità di una cultura che nemmeno la colonizzazione francese era riuscita a intaccare in modo significativo. 
Rimane vivissimo in loro il ricordo di un passato non molto lontano quando, temuti predoni, controllavano le piste e i traffici commerciali di tutto il Sahara.

Questa è la «fisionomia» etnica del Mali, un Paese che da questo punto di vista offre interessi affascinanti, perché in un raggio di cinquecento chilometri si incontrano popoli che da sempre mantengono caratteristiche completamente diverse gli uni dagli altri, originate da modi di vita tra loro inconciliabili: i Bozo sono pescatori, i Peul pastori, i Dogon agricoltori.

Attraversando il deserto di Gourma-Rharus, Mali
Il deserto che avanza. Lasciato il paese dei Dogon, ci dirigemmo a nord-est, verso Gao e il deserto, passando accanto alle splendide formazioni di arenaria di Hombori: le «dita di Fatima», che con i loro picchi ricordano in modo impressionante le nostre Dolomiti. Arrivati a Gossi lasciammo la strada principale puntando a nord in direzione di Gourma-Rhorous, diretti a Tombouctou. Questa traversata mi diede il senso concreto dell'impressionante spettacolo dell'avanzata del deserto. I pochi alberi ancora in piedi non erano altro che scheletri di legno, mentre attorno agli unici due pozzi di tutto il tragitto un gran numero di scheletri e ossa sparse di animali mostravano il macabro epilogo del dramma della sete; un dramma avvenuto, ironia spietata della sorte, a pochi metri dall'acqua; ma in quei pozzi l’acqua si trova a cento e più metri di profondità e senza una fune altrettanto lunga, un recipiente e una carrucola non è possibile portarla in superficie e bere. 
Ma per chi ha abbondanti scorte di acqua lo spettacolo del deserto, del mare di sabbia e del reg (deserto di sassi) spazzato dal vento rimane unico al mondo.

Parigi-Dakar. Attraversato il fiume Niger, percorremmo l'ultimo tratto della pista verso Tombouctou, lo stesso attraversato dalla Parigi-Dakar. Per una strana coincidenza a Gourma-Rharous piantammo il campo proprio sulle stesse dune contro le quali, alcuni giorni dopo, andò a schiantarsi l'elicottero dell'ideatore e organizzatore della manifestazione, Thierry Sabine. Oggi quasi nessuno sia accorge di questa corsa demenziale, relegata ormai in Sudamerica dopo essere stata bandita dai paesi africani che l’avevano tenuta a battesimo. Ma a quei tempi la Parigi-Dakar era un evento di rilevanza mondiale seguita dai media di tutto il mondo e aveva nel Mali uno dei paesi attraversati. Così la quasi contemporaneità della Parigi-Dakar con la nostra presenza in Mali mi diede modo di conoscere la realtà di un avvenimento che, confezionato con i miti e i luoghi comuni dell'avventura, del coraggio e del rischio, i mass-media diffondevano nel mondo. La gente del paese, come probabilmente quella di tutti gli altri via via toccati da quello «show» commerciale e inquinatore, non solo non capiva il senso della manifestazione, ma pagava anche per esso una «parcella» molto salata, oltre a qualche morto investito da qualche concorrente in gara: l'aggiottaggio, con conseguente aumento dei prezzi, di molti generi di prima necessità (soprattutto carburante, già molto scarso) che «chi poteva» si accaparrava per le necessità di questo esercito di gente e per i suoi mezzi di trasporto. E quel flagello attraversava il Mali per tutta la sua lunghezza, per più di duemila chilometri.

Tombouctou. Avevo sognato per anni di arrivare a Tombouctou e per anni avevo immaginato l’incontro con la mitica «regina del deserto», un nome che riporta alla mente immagini esotiche di esplorazioni, di ricchezze fantastiche, di carovane nelle tempeste di sabbia. Tombouctou è stata da sempre legata alla storia del Mali, fin dall'VIII secolo ai tempi dell'impero del Ghana, il cui sovrano fu definito «il re più ricco della terra grazie alle ricchezze e alle scorte d'oro accumulato dai suoi predecessori nei tempi antichi e da lui stesso». Nei secoli successivi si sviluppò un altro impero: quello del Mali che sotto Kantu Mussa raggiunse l'apice della sua potenza nella prima metà del secolo XIV e di cui Djennè, Tombouctou e Gao furono i centri più importanti. Questo impero fu in seguito costretto a rivolgere la sua influenza verso sud e il Golfo di Guinea, premuto da nord prima dai Tuareg e poi dal sorgere di un'altra potenza, l'impero Sonrai, sotto il quale, nel 1600, Tombouctou conobbe il massimo splendore. Allora la città cominciò ad essere famosa per le sue attività culturali e per i suoi commerci. Collegata al Niger da un canale navigabile, divenne uno dei nodi commerciali più importanti di tutti l'Africa. Allora fu costruita la moschea di Djnghereber che ospitava un'alta aristocrazia religiosa di giuristi e letterati. Divenne pure famoso per i suoi divertimenti e la sua mondanità mentre l'Università di Sankorè arrivò a contare qualcosa come 25.000 studenti. Cita un cronista del XVI secolo: «A quel tempo Tombouctou non aveva pari tra le città del Paese dei Neri, dalla provincia del Mali fino agli estremi confini della regione del Maghreb, per la solidità delle istituzioni, la libertà politica, la morigeratezza dei costumi, la sicurezza delle persone e dei beni, la generosità nei confronti dei poveri e degli stranieri, la cortesia verso gli studiosi e gli uomini di scienza e l'assistenza prestata a questi ultimi».


Lapide in ricordo del tedesco Einrich barth,
il vero scopritore della città, Tombouctou, Mali 
Anche un proverbio sudanese diceva: «il sale viene dal Nord, il denaro dal paese dei Bianchi, ma la parola di Dio, il sapere e i più bei racconti che sia dato di sentire giungono da Tombouctou». Cosa rimaneva di tutto questo? E cosa rimane oggi, dopo le ingerenze di Al-Queida? Sicuramente molto poco. Gli abitanti erano ridotti a circa 7.000, così che molte case disabitate le conferivano un aspetto di città di frontiera, di città che muore. L'acqua nel canale che la collegava al fiume Niger arrivava sempre più raramente e la strada asfaltata che congiunge Bamako a Gao la tagliava fuori. Le miniere di sale di Taoudenni, a nord della città, avevano perso molto della loro importanza. Assediata dalla sabbia che anno dopo anno inesorabilmente la soffocava, Tombouctou aveva perso il suo splendore, come lo aveva perso già nel secolo scorso quando arrivarono i primi esploratori europei: Gordon Laing che per primo vi giunse nel 1825, Renè Cailliè (“la città mi appare piuttosto come un ammasso di case mal costruite, in cui regna un gran silenzio») e il tedesco Einrich Barth, che più di tutti gli altri la studiò e la fece conoscere al mondo. 


Moshea di Sankoré, Tombouctou, Mali
Ma forse proprio in questo suo declino c’era il suo fascino; nell'isolamento dei pochi commercianti di sale Sonrai rimasti, che non si mescolavano ai Tuareg che l'avevano invasa n'è ai pochi visitatori di passaggio; nei palazzi signorili ormai vuoti e nelle moschee che parlavano di antichi splendori. In questa solitudine di sole e sabbia ormai irreversibile. Raggiungere Tombouctou comportava un viaggio faticoso, ma per chi ama l'Africa sahariana la visita alla città restava, e credo che resti ancora, una esperienza indimenticabile.

Il delta interno del Niger. Un altro aspetto affascinante del Mali è il fiume Niger, che insieme al suo maggior affluente, il Bani, crea il cosiddetto delta interno, una grande area di fiumi e canali periodicamente allagata dalle acque, la zona più coltivata del paese. Navigammo il fiume per quattro giorni da Niafunkè a Mopti, attraversando il delta prevalentemente abitato da pescatori Bozo, che durante il viaggio gareggiavano per offrirci il prodotto del loro lavoro, costituito soprattutto dal capitaine, un pesce che può raggiungere il peso di un quintale.


Il fiume Niger nel cosiddetto delta interno, Mali
Strano comportamento quello del Niger! Dalla Guinea, dove ha origine, punta verso nord-est e lentamente si perde nel delta interno ramificandosi in un dedalo di fiumi e canali, poi presso Tombouctou piega ad est ed infine decisamente a sud, e a questo punto acquista un corso definito e regolare fino al Golfo di Guinea. I geologi spiegano questa doppia anima del grande fiume ipotizzando l'esistenza iniziale di due fiumi: l'Alto Niger, corrispondente alla parte iniziale di quello odierno, che si perdeva in alcuni laghi salati, simili al Lago Chad, esistenti a nord di Tombouctou e il Basso Niger che invece proveniva probabilmente dall'altopiano dell'Hoggar, scorrendo verso sud in direzione opposta a quello del suo gemello. Cambiamenti di clima e grandi inondazioni avrebbero forzato i due fiumi ad una unione che poi sarebbe diventata definitiva; in quattro giorni di navigazione non avevamo mai potuto accorgerci, a vista, della direzione della corrente, tanta è la sua lentezza. In effetti 800 metri di dislivello percorsi in 4.200 chilometri, significano una pendenza media di 2 millimetri per chilometro rendendo le acque immobili all'occhio. Emozionante l'attraversata del lago Debo (45 Km di diametro). Anche con una piroga a motore si impiegavano 4 o 5 ore, durante le quali si incontrano solo alcune piroghe di pescatori che lanciano e tirano le reti. La caratteristica del lago era la sua bassissima profondità: quasi sempre avevamo sulla prua il piroghiere che scandagliava con un bastone il fondale per evitare di arenarci sulle secche. Giorni indimenticabili di navigazione a fianco di aironi, cormorani e aquile pescatrici, con soste nei villaggi costruiti sulle sponde del fiume!



[1] Da “Dio d’acqua” di Marcel Griaule, editore Bompiani, 1968. (Se per caso lo trovate, non perdetelo).

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