![]() |
Giovane, elegante Peul, Somadougou, Mali |
Itinerario: Bamako,
Segou, San, Djenne, Falaise di Bandiagara (paesi Dogon), Douenza, Hombori, Gossi,
Deserto di Gourma-Rharus, Tombouctou, Niaounke-Mopti (navigazione sul fiume Niger),
Bamako
Periodo: dicembre 1985 – gennaio 1986
Durata: 2 settimane
Ne parlo nel libro: Il Confine Immaginario
«Disse tuttavia
che, mentre i negri erano creature di luce, estratti in pieno sole, era al
chiaro di luna che erano stati creati i bianchi; di qui il loro aspetto
larvale. (...) Non aveva nulla contro i bianchi. Non diceva nemmeno di
compiangerli. Li lasciava al loro destino, nelle terre del nord»[1].
La cittadina di Mopti si vestiva lentamente dei colori della sera, i rumori si attenuavano e si accendevano le luci dei banchetti di un mercato che non voleva cedere nemmeno alla notte.
E, mentre il pensiero rincorreva i ricordi, mi rendevo conto del perché Mopti letteralmente significasse «grande assembramento».
![]() |
Il porto fluviale di Mopti, Mali |
Arrivati alla fine del viaggio (il giorno
dopo saremmo tornati in Itala) avevo già dimenticato la fatica, le forature,
gli insabbiamenti dei fuoristrada e anche gli innumerevoli intralci di una
burocrazia asfissiante, i sequestri delle macchine fotografiche da parte della
polizia (comunque sempre restituite).
E mi tornavano
alla mente le parole, riportate all'inizio, che Marcel Griaule (l'antropologo
francese che negli anni '30 e '40 soggiornò per anni presso i Dogon di
Bandiagara studiandone vita e organizzazione sociale) mette in bocca ad
Ogotemmeli, il vecchio Dogon cieco di cui si era conquistata la fiducia e che
aveva accettato di metterlo a parte di tutti i segreti del suo popolo.
I Dogon. Erano trascorse alcune settimane
da quando, lasciata la strada di Gao, avevamo piegato a sud verso il Burkina
Faso e dopo una mezza giornata trascorsa a balzare con i fuoristrada su una
pietraia impossibile, avevamo raggiunto al primo villaggio Dogon, Nando.
Qui, secondo me, l'incontro con la più bella moschea del Mali, anche se le
guide la indicano in quella molto più grande di Djenné; qui il primo incontro
con un popolo assolutamente unico, che da decenni incuriosisce etnologi e
studiosi, e di cui avevo letto tutto quel poco che era stato scritto, affascinato
dalla ricchezza, dall'ordinata complessità e dall'incredibile livello di
astrazione della loro concezione dell'universo, «una cosmogonia (per usare
ancora le parte di Griaule) altrettanto ricca di quella di Esiodo», e che
rivendicava, tra l'altro, il privilegio di essere ancora viva.
Il giorno
dopo, attraverso una pista tortuosa e accidentata, eravamo arrivati al bordo
della falaise di Bandjagara
che verso sud-est precipita sulla pianura sottostante con una scarpata a picco
di 250 metri. Di qui eravamo scesi in uno scenario grandioso e, per alcuni
giorni, l’avevamo costeggiata attraversando campi di miglio alla ricerca di
piste inesistenti.
Di tanto in tanto ci arrampicavamo sulle balze della scarpata alla scoperta dei villaggi abbarbicati su di essa: Tireli, Ibi, Genè, Bamba i più importanti di una lunga teoria.
Di tanto in tanto ci arrampicavamo sulle balze della scarpata alla scoperta dei villaggi abbarbicati su di essa: Tireli, Ibi, Genè, Bamba i più importanti di una lunga teoria.
Originari
della regione del Mandè da cui fuggirono verso il X secolo forse per salvaguardare
la loro identità religiosa, stanno lottando per la difesa della loro cultura e
della loro religione contro l'islamismo che si espande in tutta l'Africa e per
la stessa sopravvivenza della loro identità di popolo. Ho visto sulla falaise paesi semideserti dove case e
granai, privi di manutenzione, stavano a poco a poco sgretolandosi. Come dai
nostri paesi del sud e delle montagne, anche dalla regione di Bandiagara i
giovani stavano fuggendo verso Mopti e Bamako alla ricerca di un lavoro e di
un'esistenza meno dura di quella dei loro padri. Solo nei giorni di mercato i
paesi si animavano riempiendosi della gente e dei colori che chi ha viaggiato
in Africa conosce bene.
Il popolo
Dogon deve la sua originalità anche all'insediamento in questa regione impervia
e praticamente inaccessibile, dove, nascosti e acrobaticamente arroccati tra
blocchi di arenaria e caverne naturali, sono stati costruiti i granai e le
capanne dai caratteristici coperti in paglia di forma conica. Ma il fascino dei
Dogon risiede soprattutto nella loro concezione religiosa del mondo, nella
quale si ritrovano sorprendenti riferimenti ad altre religioni e mitologie.
Questa loro concezione, insieme col culto importantissimo degli antenati, è
ancora oggi simboleggiata in tutte le forme di espressione del popolo: le sculture,
le maschere, i numeri, i granai, i tamburi, le case, le stoffe, le porte, le
finestre e così via.
I Dogon discendono da otto antenati, direttamente creati
dal dio Amma, successivamente
riassunti in cielo. Di questi i due maggiori trasgredirono in seguito l'ordine
divino di non frequentarsi. Ciò segnò la «prima colpa» (sono chiare le
somiglianze col mito di Adamo ed Eva) ed essi diventarono impuri e indegni
della vita celeste. Gli altri sei antenati furono solidali con loro e tutti
insieme dovettero fuggire dal cielo; tuttavia portarono con sé tutto ciò che
sarebbe potuto servire agli uomini: gli animali, i vegetali, le tecniche e,
soprattutto, il linguaggio la cui rilevazione, associato all'arte della
tessitura, avrebbe permesso alla società umana di organizzarsi e progredire.
Anche in questo c'è una chiara similitudine con il mito greco di Prometeo, che
rubò agli dei il fuoco per donarlo agli uomini. Da questi otto antenati
discesero le famiglie primordiali del popolo Dogon, e l'otto è ancora oggi il
numero chiave attraverso cui si può leggere tutta la loro struttura sociale e
religiosa: il sesso, le membra del corpo, le dita della mano, le arti, le
regioni in cui vivono, i linguaggi, l'organizzazione del villaggio, gli
strumenti musicali, le costellazioni. Ho camminato per i villaggi alla ricerca
dei segni di questa grandiosa cattedrale di simboli e li ho trovati nei granai,
nelle porte delle capanne e nelle loro serrature, e soprattutto nelle «case del
consiglio» (o togu-na,
letteralmente «grande riparo»), una struttura costituita da un tetto in paglia
poggiato su colonne e che è il fulcro del villaggio. Sotto di esso si riunisce
il consiglio degli anziani, presieduto dall'hogon
(il capo spirituale e religioso), per esercitare la sua funzione di organo
decisionale.
Anche nella costruzione del togu-na
nulla è lasciato al caso: le colonne sono otto, numerate e sistemate in modo
prestabilito ai punti cardinali; l'altezza delle colonne è sempre inferiore
all'altezza media di un uomo per impedire che consigli troppo burrascosi
degenerino in liti: è impossibile infatti azzuffarsi quando non si può stare in
piedi!
I Bambara. Il Mali non è solo il paese dei
Dogon. Altre popolazioni vivono in queste zone e manifestano altre culture e
altre religioni strettamente legate ai modi di vita. I Bambara sono il gruppo
etnico dominante e più numeroso, la cui lingua è diventata la lingua
commerciale, e quindi comune, in tutto il paese, oltrepassando abbondantemente
i confini della regione culturale bambara.
I Bozo, pescatori per eccellenza, abitano
sui fiumi Niger e Bani.
Il mitico sacrificio di un Dogon a favore di un bambino Bozo, unisce strettamente i due popoli in un patto di reciproca amicizia. In un villaggio Bozo, nel delta interno del NIger (vedere dopo), in una mattina che non dimenticherò, mi capitò una delle avventure più forti della mia vita. Potete leggerla in questo racconto: Malik, il piccolo amico
Il mitico sacrificio di un Dogon a favore di un bambino Bozo, unisce strettamente i due popoli in un patto di reciproca amicizia. In un villaggio Bozo, nel delta interno del NIger (vedere dopo), in una mattina che non dimenticherò, mi capitò una delle avventure più forti della mia vita. Potete leggerla in questo racconto: Malik, il piccolo amico
I Peul, sparsi anche oltre i confini del
Mali, discendono da nomadi di pelle bianca ed hanno una storia gloriosa:
all'inizio del secolo scorso, ribellatisi ai Bambara, fondarono un impero che
sopravvisse fino al 1862.
Vestono, sia gli uomini che le donne, in modo molto elegante e ricercato adornandosi di gioielli e monili di pregevole fattura che mettono in risalto una bellezza di lineamenti veramente fuori dal comune.
Vestono, sia gli uomini che le donne, in modo molto elegante e ricercato adornandosi di gioielli e monili di pregevole fattura che mettono in risalto una bellezza di lineamenti veramente fuori dal comune.
I Tuareg. Infine non vanno dimenticati i
Tuareg, che vivono a Gao, a Tombouctou e nelle zone desertiche a nord-est del
paese. Falcidiati ed umiliati dalla spaventosa siccità degli anni '70, che li
ha costretti a rinunciare in buona parte al nomadismo e ai loro modi di vita, cercano
di recuperare e mantenere intatta l'originalità di una cultura che nemmeno la
colonizzazione francese era riuscita a intaccare in modo significativo.
Rimane
vivissimo in loro il ricordo di un passato non molto lontano quando, temuti
predoni, controllavano le piste e i traffici commerciali di tutto il Sahara.
Questa è la
«fisionomia» etnica del Mali, un Paese che da questo punto di vista offre
interessi affascinanti, perché in un raggio di cinquecento chilometri si
incontrano popoli che da sempre mantengono caratteristiche completamente
diverse gli uni dagli altri, originate da modi di vita tra loro inconciliabili:
i Bozo sono pescatori, i Peul pastori, i Dogon agricoltori.
Il deserto che avanza. Lasciato il paese dei Dogon, ci dirigemmo
a nord-est, verso Gao e il deserto, passando accanto alle splendide formazioni
di arenaria di Hombori: le «dita di Fatima», che con i loro picchi ricordano in
modo impressionante le nostre Dolomiti. Arrivati a Gossi lasciammo la strada
principale puntando a nord in direzione di Gourma-Rhorous, diretti a
Tombouctou. Questa traversata mi diede il senso concreto dell'impressionante
spettacolo dell'avanzata del deserto. I pochi alberi ancora in piedi non erano
altro che scheletri di legno, mentre attorno agli unici due pozzi di tutto il
tragitto un gran numero di scheletri e ossa sparse di animali mostravano il
macabro epilogo del dramma della sete; un dramma avvenuto, ironia spietata
della sorte, a pochi metri dall'acqua; ma in quei pozzi l’acqua si trova a
cento e più metri di profondità e senza una fune altrettanto lunga, un
recipiente e una carrucola non è possibile portarla in superficie e bere.
Ma per chi ha abbondanti scorte di acqua lo spettacolo del deserto, del mare di sabbia e del reg (deserto di sassi) spazzato dal vento rimane unico al mondo.
Ma per chi ha abbondanti scorte di acqua lo spettacolo del deserto, del mare di sabbia e del reg (deserto di sassi) spazzato dal vento rimane unico al mondo.
Parigi-Dakar. Attraversato il fiume Niger, percorremmo
l'ultimo tratto della pista verso Tombouctou, lo stesso attraversato dalla
Parigi-Dakar. Per una strana coincidenza a Gourma-Rharous piantammo il campo
proprio sulle stesse dune contro le quali, alcuni giorni dopo, andò a
schiantarsi l'elicottero dell'ideatore e organizzatore della manifestazione, Thierry
Sabine. Oggi quasi nessuno sia accorge di questa corsa demenziale, relegata
ormai in Sudamerica dopo essere stata bandita dai paesi africani che l’avevano
tenuta a battesimo. Ma a quei tempi la Parigi-Dakar era un evento di rilevanza
mondiale seguita dai media di tutto
il mondo e aveva nel Mali uno dei paesi attraversati. Così la quasi contemporaneità
della Parigi-Dakar con la nostra presenza in Mali mi diede modo di conoscere la
realtà di un avvenimento che, confezionato con i miti e i luoghi comuni
dell'avventura, del coraggio e del rischio, i mass-media diffondevano nel
mondo. La gente del paese, come probabilmente quella di tutti gli altri via via
toccati da quello «show» commerciale e inquinatore, non solo non capiva il senso
della manifestazione, ma pagava anche per esso una «parcella» molto salata,
oltre a qualche morto investito da qualche concorrente in gara: l'aggiottaggio,
con conseguente aumento dei prezzi, di molti generi di prima necessità (soprattutto
carburante, già molto scarso) che «chi poteva» si accaparrava per le necessità
di questo esercito di gente e per i suoi mezzi di trasporto. E quel flagello
attraversava il Mali per tutta la sua lunghezza, per più di duemila chilometri.
Tombouctou. Avevo sognato per anni di arrivare
a Tombouctou e per anni avevo immaginato l’incontro con la mitica «regina del
deserto», un nome che riporta alla mente immagini esotiche di esplorazioni, di
ricchezze fantastiche, di carovane nelle tempeste di sabbia. Tombouctou è stata
da sempre legata alla storia del Mali, fin dall'VIII secolo ai tempi
dell'impero del Ghana, il cui sovrano fu definito «il re più ricco della terra
grazie alle ricchezze e alle scorte d'oro accumulato dai suoi predecessori nei
tempi antichi e da lui stesso». Nei secoli successivi si sviluppò un altro
impero: quello del Mali che sotto Kantu Mussa raggiunse l'apice della sua
potenza nella prima metà del secolo XIV e di cui Djennè, Tombouctou e Gao
furono i centri più importanti. Questo impero fu in seguito costretto a
rivolgere la sua influenza verso sud e il Golfo di Guinea, premuto da nord
prima dai Tuareg e poi dal sorgere di un'altra potenza, l'impero Sonrai, sotto
il quale, nel 1600, Tombouctou conobbe il massimo splendore. Allora la città
cominciò ad essere famosa per le sue attività culturali e per i suoi commerci.
Collegata al Niger da un canale navigabile, divenne uno dei nodi commerciali
più importanti di tutti l'Africa. Allora fu costruita la moschea di Djnghereber
che ospitava un'alta aristocrazia religiosa di giuristi e letterati. Divenne
pure famoso per i suoi divertimenti e la sua mondanità mentre l'Università di
Sankorè arrivò a contare qualcosa come 25.000 studenti. Cita un cronista del
XVI secolo: «A quel tempo Tombouctou non aveva pari tra le città del Paese dei
Neri, dalla provincia del Mali fino agli estremi confini della regione del
Maghreb, per la solidità delle istituzioni, la libertà politica, la
morigeratezza dei costumi, la sicurezza delle persone e dei beni, la generosità
nei confronti dei poveri e degli stranieri, la cortesia verso gli studiosi e
gli uomini di scienza e l'assistenza prestata a questi ultimi».
![]() |
Lapide in ricordo del tedesco Einrich barth, il vero scopritore della città, Tombouctou, Mali |
Anche un
proverbio sudanese diceva: «il sale viene dal Nord, il denaro dal paese dei
Bianchi, ma la parola di Dio, il sapere e i più bei racconti che sia dato di
sentire giungono da Tombouctou». Cosa rimaneva di tutto questo? E cosa rimane
oggi, dopo le ingerenze di Al-Queida? Sicuramente molto poco. Gli abitanti erano
ridotti a circa 7.000, così che molte case disabitate le conferivano un aspetto
di città di frontiera, di città che muore. L'acqua nel canale che la collegava
al fiume Niger arrivava sempre più raramente e la strada asfaltata che
congiunge Bamako a Gao la tagliava fuori. Le miniere di sale di Taoudenni, a
nord della città, avevano perso molto della loro importanza. Assediata dalla
sabbia che anno dopo anno inesorabilmente la soffocava, Tombouctou aveva perso
il suo splendore, come lo aveva perso già nel secolo scorso quando arrivarono i
primi esploratori europei: Gordon Laing che per primo vi giunse nel 1825, Renè
Cailliè (“la città mi appare piuttosto come un ammasso di case mal costruite,
in cui regna un gran silenzio») e il tedesco Einrich Barth, che più di tutti
gli altri la studiò e la fece conoscere al mondo.
![]() |
Moshea di Sankoré, Tombouctou, Mali |
Ma forse proprio in questo
suo declino c’era il suo fascino; nell'isolamento dei pochi commercianti di
sale Sonrai rimasti, che non si mescolavano ai Tuareg che l'avevano invasa n'è
ai pochi visitatori di passaggio; nei palazzi signorili ormai vuoti e nelle
moschee che parlavano di antichi splendori. In questa solitudine di sole e
sabbia ormai irreversibile. Raggiungere Tombouctou comportava un viaggio
faticoso, ma per chi ama l'Africa sahariana la visita alla città restava, e
credo che resti ancora, una esperienza indimenticabile.
Il delta interno del Niger. Un altro aspetto affascinante del
Mali è il fiume Niger, che insieme al suo maggior affluente, il Bani, crea il
cosiddetto delta interno, una grande area di fiumi e canali periodicamente
allagata dalle acque, la zona più coltivata del paese. Navigammo il fiume per
quattro giorni da Niafunkè a Mopti, attraversando il delta prevalentemente
abitato da pescatori Bozo, che durante il viaggio gareggiavano per offrirci il
prodotto del loro lavoro, costituito soprattutto dal capitaine, un pesce che può raggiungere il peso di un quintale.
![]() |
Il fiume Niger nel cosiddetto delta interno, Mali |
Strano
comportamento quello del Niger! Dalla Guinea, dove ha origine, punta verso
nord-est e lentamente si perde nel delta interno ramificandosi in un dedalo di
fiumi e canali, poi presso Tombouctou piega ad est ed infine decisamente a sud,
e a questo punto acquista un corso definito e regolare fino al Golfo di Guinea.
I geologi spiegano questa doppia anima del grande fiume ipotizzando l'esistenza
iniziale di due fiumi: l'Alto Niger, corrispondente alla parte iniziale di
quello odierno, che si perdeva in alcuni laghi salati, simili al Lago Chad,
esistenti a nord di Tombouctou e il Basso Niger che invece proveniva
probabilmente dall'altopiano dell'Hoggar, scorrendo verso sud in direzione
opposta a quello del suo gemello. Cambiamenti di clima e grandi inondazioni
avrebbero forzato i due fiumi ad una unione che poi sarebbe diventata
definitiva; in quattro giorni di navigazione non avevamo mai potuto accorgerci,
a vista, della direzione della corrente, tanta è la sua lentezza. In effetti
800 metri di dislivello percorsi in 4.200 chilometri, significano una pendenza
media di 2 millimetri per chilometro rendendo le acque immobili all'occhio.
Emozionante l'attraversata del lago Debo
(45 Km di diametro). Anche con una piroga a motore si impiegavano 4 o 5 ore,
durante le quali si incontrano solo alcune piroghe di pescatori che lanciano e
tirano le reti. La caratteristica del lago era la sua bassissima profondità:
quasi sempre avevamo sulla prua il piroghiere che scandagliava con un bastone il
fondale per evitare di arenarci sulle secche. Giorni indimenticabili di
navigazione a fianco di aironi, cormorani e aquile pescatrici, con soste nei
villaggi costruiti sulle sponde del fiume!
[1]
Da “Dio d’acqua” di Marcel Griaule,
editore Bompiani, 1968. (Se per caso lo trovate, non perdetelo).
Nessun commento:
Posta un commento