venerdì 16 giugno 2017

Viaggio in SUDAFRICA, SWAZILAND

Iena maculata al Kruger N.P. - Sudafrica
Paesi attraversati: Sudafrica, Swaziland
Itinerario: 
in Sudafrica: Johannesburg, Kruger Nat. Park, riserva Hluhluwe-Unfolozi, Pietermaritzburg, Giant Castle Park, Bloemfontein, Mossel Bay, Bontebok Park, Capo di buona Speranza, Città del Capo, Augrabies Waterfall Nat. Park, Kalahari-Gemsbok Nat. Park, Kimberley, Johannesburg
nello Swaziland: semplice attraversamento
Periodo: luglio-agosto 1994
Durata: 1 mese
Ne parlo nel libroCi sono posti così

Era una gioia vederlo, capitan Baresi, fermo in attesa del fischio, pronto a calciare il primo dei rigori che avrebbero deciso la squadra campione del mondo di calcio. Solo un mese prima, nella prima partita dell’Italia, il capitano si era infortunato gravemente: lesione al menisco. Ma ce l’aveva fatta, era stato operato, aveva recuperato e aveva giocato la finale: una ripresa miracolosa, di buon auspicio. Di buon auspicio era anche che il Brasile nei tempi regolamentari aveva meritato più di noi, ai punti avrebbe vinto. Ma nel calcio contano i goal non la supremazia in campo e a volte capita che il destino premi ai calci di rigore proprio i più deboli. Chissà… pensavo davanti alla tele. Invece il tiro di Baresi volò beffardo sopra la traversa e si perse sul fondo. Ebbi una brutta sensazione, anche se il primo tiro dal dischetto dei brasiliani venne parato dal nostro portiere pareggiando il conto degli errori. Poi anche Baggio sbagliò, consegnando la vittoria al Brasile che non ebbe nemmeno bisogno di battere l’ultimo rigore. Peccato. Era il 17 luglio 1994.

Salutammo l’amico italiano, addetto alla nostra ambasciata a Johannesburg, che ci aveva ospitato per la partita e ce ne andammo. Esplodevano gioia e felicità nelle strade, giovani cantavano e improvvisavano caroselli, contenti che avesse vinto il Brasile. Mi sorpresi perché non immaginavo che in Sudafrica la passione per il calcio fosse così profonda e mi colpì l’entusiasmo che suscitava nei giovani locali la vittoria di un paese di altre longitudini e non africano. Beh, riguardo alla passione per il calcio sarei stato smentito nel 2010 quando il Sudafrica ospitò i mondiali di calcio a casa sua: l’entusiasmo che i sudafricani riversarono sulle partite fu clamoroso.

La passeggiata che ci riportò all’albergo attraversava uno dei quartieri più eleganti della città – rigorosamente bianco – e mi fece tornare alla realtà. L’intervallo era finito – a proposito di partite di calcio… - e la parentesi della finale dei campionati del mondo, con i successivi festeggiamenti, chiusa. Si tornava alla tetra atmosfera di una città sotto assedio. “Difesa armata”, “Sorveglianza armata”, “Keep out” minacciavano cartelli installati sui muri di cinta di ville e giardini, eretti a difesa di un benessere che si sentiva minacciato e accettato dalla maggioranza nera solo perché difeso con le armi. E perché le minacce fossero chiare anche a chi non padroneggiava l’inglese, i cartelli accostavano alle parole sagome di armi da fuoco e di cani ringhiosi. La notte, poco rischiarata dalla scarsa illuminazione, aumentava l’inquietudine. In mattinata lo stesso quartiere, inondato dalla luce del sole, mi era apparso straordinario, ordinato e accogliente, ma ora, col buio, le siepi e gli alberi che crescevano rigogliosi nei giardini ben tenuti che abbracciavano le piscine, mi ricordavano quelli che adombrano i cimiteri. Il silenzio era lo stesso. Non ero sorpreso, ovviamente ero al corrente della situazione politica del Sudafrica, ma un conto è sapere, un altro è vedere, anche se la stessa realtà. Non era quindi casuale la nostra presenza a Johannesburg. Anche se il nostro rimaneva un viaggio di piacere, soprattutto interessato alla straordinaria natura che offre, eravamo interessati agli sconvolgimenti politici che il paese stava vivendo nel 1994.

Nelson Mandela. Solo qualche mese prima, il 27 aprile, si erano tenute le prime elezioni libere e aperte a tutta la popolazione. Fino ad allora il governo del Sudafrica era stato controllato dal National Party, il partito della minoranza bianca. E dal 1948 era in vigore l’apartheid, il sistema legalizzato di discriminazione razziale che escludeva la popolazione nera dal potere e la segregava dal resto della popolazione. Le elezioni di quell’anno erano state vinte dall’African National Congress e Nelson Mandela, liberato solo quattro anni prima dopo ventisette anni di prigione, era stato eletto primo presidente nero della storia del paese. Non c’era quindi per noi anno migliore per visitare il paese. Volevamo vedere gli effetti del cambiamento, cosa fosse cambiato nella vita della gente, se qualcosa era cambiato.
Si erano stemperate, almeno in parte, le cupe atmosfere che Una’arida stagione bianca ci aveva consegnato qualche anno prima? Esistevano a Johannesburg altri Benjamin Du Toit[1] e giornalisti decisi a lottare per una società che non discriminasse le persone in base al colore della pelle? Da stranieri e nel volgere di un solo mese, ovviamente, non avremmo potuto capire, ma almeno il tentativo di osservare volevamo farlo. Il professor Benjamin Du Toit, un insegnante di liceo che conduce una vita normale e tranquilla, lontano anche solo col pensiero dalle tragedie che ogni giorno si perpetuano nel suo paese, prende coscienza della realtà e alla fine paga con la vita il suo riscatto. C’era ancora bisogno in Sudafrica, nel 1994, di eroi e di martiri? L’11 febbraio 1990, sotto la pressione del mondo intero e considerando ormai insostenibile la segregazione razziale, l’allora presidente Frederik de Klerk aveva decretato la fine dell’apartheid e la scarcerazione di Mandela. Forse fu l’evento dell’anno, trasmesso in diretta dalle televisioni di mezzo mondo. E allora, ci chiedevamo, spente le luci della ribalta, com’era andata a finire?

La città era ancora tappezzata di manifesti elettorali ormai inutili. Uno in particolare mi colpì e trovai il modo di procurarmelo. Ora è appeso nel mio studio e posso descriverlo. Da uno fondo giallo emerge la figura di Mandela, sorridente, un braccio alzato a indicare la direzione del futuro. NOW IS THE TIME, dichiara il motto che campeggia in alto, seguito da un’incitazione: KE NAKO! SEKUNJALO! Sono parole zulu, il traduttore di Google dice che in ordine sparso significano: “crescere”, “anche”, “poi”. Tradurre parola per parola può portare a risultati approssimativi, lo sappiamo fin dal liceo, ma credo che il messaggio sia chiaro. E, allora, che ne era stato di quel messaggio?


NOW IS THE TIME! - Johannesburg - Sudafrica

I fatti che cominciano a risvegliare la coscienza del professor Benjamin riguardano le violenze inflitte dalla polizia ai partecipanti di una manifestazione di protesta a Soweto (SouthWestTownship). Ma le notizie di cui viene in possesso, a fronte delle menzogne e ai silenzi delle autorità, non bastano al protagonista che decide di andare di persona sul luogo dei fatti, accompagnato di nascosto da un attivista di colore: la sterminata e famosa township che si estende a sud di Johannesburg. Pur senza correre i rischi e provare le sue paure, decidemmo di imitarlo: saremmo andati a Soweto.
Non ricordo se fosse proibito e forse fu un pregiudizio pensare che per quattro bianchi fosse un azzardo andare a Soweto non accompagnati. Ma non era un rischio necessario. C’era Jimmy face to face per questo.

Jimmy Face to Face. Oggi James Ntintili (Jimmy) ha anche un sito web sul quale dichiara che con la creazione di Face to Face Tours intende dare a tutti – lui li chiama non-Sowetani – l’opportunità di conoscere ogni aspetto di Soweto di persona, piuttosto che tramite i media. Mostrare com’è la vita reale nella township, tutto quello che c’è di buono, di cattivo, di brutto e di bello. Promette anche che la vita non sarà più la stessa dopo una simile esperienza.
Sono passati molti anni da allora, ormai la Face to Face Tours si sarà ingrandita, magari Jimmy non conduce più le visite a Soweto. Nel 1994 l’esperienza era agli inizi e fu lui ad accompagnarci. E posso anche immaginare che allora tra le capanne di lamiera del quartiere soffiasse un’aria diversa da oggi.

Nel lungo percorso in auto che ci aveva portato da un estremo all’altro del paese non potevamo mancare Città del Capo dove avevo provato per la prima volta il sapore della parola apartheid. In centro si viveva un’atmosfera molto rilassata, diversa – mi viene da dire più europea – rispetto a tutte le altre città del Sudafrica. Chi aveva tempo libero prendeva il sole nei giardini pubblici dove i bambini giocavano e i giovani correvano per mantenersi in forma. Chi era occupato in qualche attività si affannava per le strade, negli uffici e nei negozi. Questo valeva per i bianchi e per i neri, certo i primi impegnati in attività più qualificate, supponevo, o a bordo di eleganti auto europee e americane, i neri impegnati in attività più umili: autisti, facchini, baby sitter, camerieri. Il porto turistico e il lungomare erano appena stati riqualificati e la sera si riempivano di gente in passeggiata. Insomma, in centro a Città del Capo sembrava di essere in una qualsiasi città di mare della California o del nord Europa. Bastava però allontanarsi verso sud per trovarsi in un quartiere nero segregato nella miseria più squallida e profonda. Eravamo rimasti in città quattro giorni, ma non avevamo trovato mai la forza per entrare nella sua township.
Invece dedicammo quasi una giornata a Soweto, accompagnati da Jimmy. Già l’ingresso al quartiere fu complicato, i controlli delle polizia non furono superficiali: mi resi conto che non saremmo mai potuti entrare a Soweto da soli. Le vicende capitate al professor Du Toit, le notizie che allora arrivavano dal Sudafrica, il boicottaggio internazionale che giustamente isolava il paese dal mondo – perfino nel tennis – mi avevano consegnato un’immagine quasi macabra della township, la stessa che ci aveva consigliato di evitare quella di Città del Capo. Ho visto città africane o indiane nelle quali degrado, miseria, sporcizia e fame superavano ogni immaginazione, non dimentico Il Cairo, Varanasi o Accra. Entrando a Soweto mi aspettavo di entrare in un girone dell’inferno, ma non fu così.

Soweto. Soweto mi apparve poverissima, ma non miserabile. C’erano baracche di legno e di lamiera, ma c’erano anche case in muratura. C’era una parvenza di illuminazione stradale e qualche antenna TV. La vista non mi consolò, anzi penso che la realtà che mi scorreva davanti agli occhi fosse addirittura più infame e ingiusta di quella che mi aveva toccato ad Accra o a Varanasi. Anche là differenza tra poveri e ricchi era smaccata, i poveri nelle bidonville delle periferie, i ricchi nei palazzi del centro retaggio dell’era coloniale ormai tramontata. Ma i bianchi al Cairo o a Maputo erano pochi: dipendenti da aziende straniere, addetti alla ambasciate, turisti… Gli altri, i detentori delle ricchezza e del potere erano almeno della stessa razza dei poveri. Solo ricchezza e potere distingueva gli uni dagli altri. Invece a Soweto, cosa distingueva la donna che cucinava su un fuoco di legna davanti alla porta della sua baracca o i bambini – nessuno malnutrito, comunque – che giocavano a ricorrersi, dai bianchi ricchi che abitavano in centro, dietro ai cancelli difesi dalle armi? Soprattutto la razza. Al potere e alla ricchezza si aggiungeva il colore della pelle quale discriminante ancora più odiosa della ricchezza.

Murales a SOWETO - Johannesburg - Sudafrica

Su quelle strade strette e polverose, percorse da qualche vecchia auto sgangherata, avvenne nel 1976 una delle più infami stragi della storia dell’apartheid, la strage di Soweto: in dieci giorni di manifestazioni e rivolte seguite al decreto del governo che obbligava in alcune scuole l’uso della lingua afrikaans, la lingua degli oppressori, furono massacrate centinaia di persone, soprattutto studenti. Quella strage e le altre che avevano macchiato la storia del paese prima del nostro arrivo erano state generate dal colore della pelle. Come le torture e gli assassinii di tanti attivisti o oppositori, a cominciare da Steve Biko che un altro bellissimo film[2] racconta.

Mahatma Gandhi: Beh, allora non sapevo che il Sudafrica avesse ospitato Gandhi. Mi posi la questione vedendo la sua statua a Pietermaritzburg. Come mai quella statua? Gandhi spese venti anni della sua vita in Sudafrica prima di diventare il Mahatma Gandhi. Nel maggio del 1983 mentre andava a Pretoria in treno, gli fu ordinato da un bianco di andarsene in terza classe. Ma lui aveva un biglietto di prima e rifiutò e… fu buttato giù dal treno proprio a Pietermaritzburg. Il fatto fu cruciale per orientare la sua vita e decise di fermarsi nella città per combattere l’oppressione che subiva da sempre la comunità indiana alla quale anche lui apparteneva.


Monumento al Mahatma Ganghi - Pietermaritzburg - Sudafrica

La statua di bronzo mostrava la Grande Anima, magro e spoglio, proiettato in avanti con determinazione. La statua fu eretta del 1993 a ricordo dei 100 anni passati da quando Gandhi fu buttato fuori dal treno.

Swaziland: Quanti sono stati nello Swazialand, piccolissimo stato nero ai confini col Mozambico? Per Andare dal parco Kruger nel nord-est del Sudafrica verso Città del Capo c’era da attraversare lo Swaziland, oppure compiere un largo giro. Optammo per prima soluzione. Per attraversare lo stato non impiegammo più di quattro cinque ore, ma dovemmo affrontare i controlli di una vera frontiera e un vera dogana, nonché un cambio obbligatorio di moneta per poter pagare le tasse di ingresso. Oggi credo di essere tra i pochi italiani a possedere ancora qualche lilangeni, la moneta locale o, almeno, quella di allora.
Solo canna da zucchero, ovunque. Non fosse stato per la gente di colore che incontravamo sembrava di essere a Cuba. File di trattori correvano per le strade trascinando carri carichi di canne che trasportavano agli stabilimenti di trasformazione (si chiameranno anche in questo caso zuccherifici?). Il cielo era grigio e pesante, l’aria afosa e impregnata di fumo, particamente ovunque. Erano gli stabilimenti di lavorazione della canna a vomitare in aria quel fumo. Cercammo di attraversare lo Swaziland nel minor tempo possibile.

Caccia ai licaoni: dedicammo quattro giorni alla riserva Hluhluwe-Unfolozi che forse ne avrebbe meritati di più per la sua vastità e bellezza. E anche per la sua importanza “ecologica”: in essa si praticava la riproduzione “protetta” dei rinoceronti bianchi, a quei tempi a rischio di estinzione ovunque nel continente tranne che in Sudafrica. Quei rinoceronti andavano a ripopolare i parchi naturali dell’Africa sub-sahariana, massacrati dal bracconaggio. E ritengo che, se questi animali sopravvivono ancora oggi, lo dobbiamo in gran parte alle politiche naturalistiche di questo paese. Ma al di là dei rinoceronti il clou della visita alla riserva erano i licaoni, se non li conoscete, cliccate qui: (https://it.wikipedia.org/wiki/Lycaon_pictus). Dopo averli mancati in Zimbabwe e Botswana, volevamo vederli in Sudafrica. La fortuna ci aiutò, facendoci incontrare Günther, giovane ricercatore sudafricano impegnato nello studio del licaone e che nella riserva Hluhluwe-Unfolozi osservava e seguiva un piccolo branco nel quale c’era un esemplare dotato di radiocollare. Fu un incontro fortuito che ci procurò qualche speranza di incrociare il branco dei licaoni, senza di lui non li avremmo mai visti.


Licaone nella riserva Hluhluwe-Unfolozi - Sudafrica

Ma anche con l’aiuto della ricetrasmittente di Günther non fu facile. Ogni mattina e ogni pomeriggio lo accompagnavamo nelle sue ricerche, ascoltavamo i deboli segnali che la sua antenna riceveva e rincorrevamo il segnale. Il secondo giorno captammo un bip-bip distinto e gli andammo dietro e più lo seguivamo, più il segnale aumentava di intensità. Eravamo nella direzione giusta. Raggiungemmo la riva di un fiume, il segnale era forte e chiaro, i licaoni erano vicinissimi… ma erano nel bosco dall’altra parte del fiume. Dopo due giorni di inutili ricerche la delusione fu grande, tanto che un compagno di viaggio mandò al diavolo i licaoni e gli altri concessero loro un’ultima possibilità. Günther sorrideva. Il mattino dopo ricominciammo le ricerche quando era ancora buio e il compagno deluso non venne con noi. Ovviamente sappiamo che il destino è cinico e baro: incontrammo il gruppetto dei licaoni (sei esemplari) quasi subito e li seguimmo da vicino per due o tre ore, disturbandoli purtroppo durante la loro caccia. Anche questo avvistamento fu uno di quelli che non dimenticherò.

Qual'è la punta dell'Africa? La punta più a sud dell'Africa non è il Capo di Buona Speranza, che è la punta di una penisola a sud di Città del Capo, ma è Capo Agulhas, nome sconosciuto ai più. Si tratta di un promontorio roccioso e selvaggio, battuto dai venti e dalle correnti, affascinante.



[1] Benjamin Du Toit  è il protagonista del film Un'arida stagione bianca  del 1989, diretto da Euzhan Palcy e interpretato da Donald SutherlandSusan Sarandon e Marlon Brando.

[2] Grido di libertà è un film del 1987 diretto da Richard Attenborough.

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