in Sudafrica: Johannesburg,
Kruger Nat. Park, riserva Hluhluwe-Unfolozi, Pietermaritzburg, Giant Castle Park,
Bloemfontein, Mossel Bay, Bontebok Park, Capo di buona Speranza, Città del
Capo, Augrabies Waterfall Nat. Park, Kalahari-Gemsbok Nat. Park, Kimberley,
Johannesburg
nello Swaziland: semplice
attraversamento
Periodo: luglio-agosto 1994
Era una
gioia vederlo, capitan Baresi, fermo in attesa del fischio, pronto a calciare
il primo dei rigori che avrebbero deciso la squadra campione del mondo di
calcio. Solo un mese prima, nella prima partita dell’Italia, il capitano si era
infortunato gravemente: lesione al menisco. Ma ce l’aveva fatta, era stato
operato, aveva recuperato e aveva giocato la finale: una ripresa miracolosa, di
buon auspicio. Di buon auspicio era anche che il Brasile nei tempi
regolamentari aveva meritato più di noi, ai punti avrebbe vinto. Ma nel calcio
contano i goal non la supremazia in
campo e a volte capita che il destino premi ai calci di rigore proprio i più
deboli. Chissà… pensavo davanti alla tele. Invece il tiro di Baresi volò
beffardo sopra la traversa e si perse sul fondo. Ebbi una brutta sensazione,
anche se il primo tiro dal dischetto dei brasiliani venne parato dal nostro
portiere pareggiando il conto degli errori. Poi anche Baggio sbagliò,
consegnando la vittoria al Brasile che non ebbe nemmeno bisogno di battere
l’ultimo rigore. Peccato. Era il 17 luglio 1994.
Salutammo
l’amico italiano, addetto alla nostra ambasciata a Johannesburg, che ci aveva
ospitato per la partita e ce ne andammo. Esplodevano gioia e felicità nelle
strade, giovani cantavano e improvvisavano caroselli, contenti che avesse vinto
il Brasile. Mi sorpresi perché non immaginavo che in Sudafrica la passione per
il calcio fosse così profonda e mi colpì l’entusiasmo che suscitava nei giovani
locali la vittoria di un paese di altre longitudini e non africano. Beh,
riguardo alla passione per il calcio sarei stato smentito nel 2010 quando il
Sudafrica ospitò i mondiali di calcio a casa sua: l’entusiasmo che i
sudafricani riversarono sulle partite fu clamoroso.
La
passeggiata che ci riportò all’albergo attraversava uno dei quartieri più
eleganti della città – rigorosamente bianco – e mi fece tornare alla realtà.
L’intervallo era finito – a proposito di partite di calcio… - e la parentesi
della finale dei campionati del mondo, con i successivi festeggiamenti, chiusa.
Si tornava alla tetra atmosfera di una città sotto assedio. “Difesa armata”,
“Sorveglianza armata”, “Keep out” minacciavano cartelli installati sui muri di
cinta di ville e giardini, eretti a difesa di un benessere che si sentiva
minacciato e accettato dalla maggioranza nera solo perché difeso con le armi. E
perché le minacce fossero chiare anche a chi non padroneggiava l’inglese, i
cartelli accostavano alle parole sagome di armi da fuoco e di cani ringhiosi.
La notte, poco rischiarata dalla scarsa illuminazione, aumentava
l’inquietudine. In mattinata lo stesso quartiere, inondato dalla luce del sole,
mi era apparso straordinario, ordinato e accogliente, ma ora, col buio, le
siepi e gli alberi che crescevano rigogliosi nei giardini ben tenuti che
abbracciavano le piscine, mi ricordavano quelli che adombrano i cimiteri. Il
silenzio era lo stesso. Non ero sorpreso, ovviamente ero al corrente della
situazione politica del Sudafrica, ma un conto è sapere, un altro è vedere,
anche se la stessa realtà. Non era quindi casuale la nostra presenza a
Johannesburg. Anche se il nostro rimaneva un viaggio di piacere, soprattutto
interessato alla straordinaria natura che offre, eravamo interessati agli
sconvolgimenti politici che il paese stava vivendo nel 1994.
Nelson Mandela. Solo qualche mese prima, il 27
aprile, si erano tenute le prime elezioni libere e aperte a tutta la
popolazione. Fino ad allora il governo del Sudafrica era stato controllato dal
National Party, il partito della minoranza bianca. E dal 1948 era in vigore l’apartheid, il sistema legalizzato
di discriminazione razziale che escludeva la popolazione nera dal potere e la
segregava dal resto della popolazione. Le elezioni di quell’anno erano state
vinte dall’African National Congress e Nelson Mandela, liberato solo quattro
anni prima dopo ventisette anni di prigione, era stato eletto primo presidente
nero della storia del paese. Non c’era quindi per noi anno migliore per
visitare il paese. Volevamo vedere gli effetti del cambiamento, cosa fosse
cambiato nella vita della gente, se qualcosa era cambiato.
Si erano
stemperate, almeno in parte, le cupe atmosfere che Una’arida stagione bianca ci aveva consegnato qualche anno prima?
Esistevano a Johannesburg altri Benjamin Du Toit[1] e
giornalisti decisi a lottare per una società che non discriminasse le persone
in base al colore della pelle? Da stranieri e nel volgere di un solo mese,
ovviamente, non avremmo potuto capire, ma almeno il tentativo di osservare
volevamo farlo. Il professor Benjamin Du Toit, un insegnante di liceo che
conduce una vita normale e tranquilla, lontano anche solo col pensiero dalle
tragedie che ogni giorno si perpetuano nel suo paese, prende coscienza della
realtà e alla fine paga con la vita il suo riscatto. C’era ancora bisogno in
Sudafrica, nel 1994, di eroi e di martiri? L’11 febbraio 1990, sotto la
pressione del mondo intero e considerando ormai insostenibile la segregazione
razziale, l’allora presidente Frederik de Klerk aveva decretato la fine dell’apartheid e la scarcerazione di Mandela.
Forse fu l’evento dell’anno, trasmesso in diretta dalle televisioni di mezzo
mondo. E allora, ci chiedevamo, spente le luci della ribalta, com’era andata a
finire?
La città
era ancora tappezzata di manifesti elettorali ormai inutili. Uno in particolare
mi colpì e trovai il modo di procurarmelo. Ora è appeso nel mio studio e posso
descriverlo. Da uno fondo giallo emerge la figura di Mandela, sorridente, un
braccio alzato a indicare la direzione del futuro. NOW IS THE TIME, dichiara il motto che campeggia in alto, seguito
da un’incitazione: KE NAKO! SEKUNJALO! Sono parole zulu, il traduttore di
Google dice che in ordine sparso significano: “crescere”, “anche”, “poi”.
Tradurre parola per parola può portare a risultati approssimativi, lo sappiamo
fin dal liceo, ma credo che il messaggio sia chiaro. E, allora, che ne era
stato di quel messaggio?
NOW IS THE TIME! - Johannesburg - Sudafrica |
I fatti che
cominciano a risvegliare la coscienza del professor Benjamin riguardano le
violenze inflitte dalla polizia ai partecipanti di una manifestazione di
protesta a Soweto (SouthWestTownship).
Ma le notizie di cui viene in possesso, a fronte delle menzogne e ai silenzi
delle autorità, non bastano al protagonista che decide di andare di persona sul
luogo dei fatti, accompagnato di nascosto da un attivista di colore: la
sterminata e famosa township che si
estende a sud di Johannesburg. Pur senza correre i rischi e provare le sue
paure, decidemmo di imitarlo: saremmo andati a Soweto.
Non ricordo
se fosse proibito e forse fu un pregiudizio pensare che per quattro bianchi
fosse un azzardo andare a Soweto non accompagnati. Ma non era un rischio
necessario. C’era Jimmy face to face
per questo.
Jimmy Face to Face. Oggi James Ntintili (Jimmy) ha
anche un sito web sul quale dichiara che con la creazione di Face
to Face Tours intende dare a tutti – lui li chiama non-Sowetani –
l’opportunità di conoscere ogni aspetto di Soweto di persona, piuttosto che
tramite i media. Mostrare com’è la
vita reale nella township, tutto
quello che c’è di buono, di cattivo, di brutto e di bello. Promette anche che
la vita non sarà più la stessa dopo una simile esperienza.
Sono
passati molti anni da allora, ormai la Face
to Face Tours si sarà ingrandita, magari Jimmy non conduce più le visite a
Soweto. Nel 1994 l’esperienza era agli inizi e fu lui ad accompagnarci. E posso
anche immaginare che allora tra le capanne di lamiera del quartiere soffiasse
un’aria diversa da oggi.
Nel lungo
percorso in auto che ci aveva portato da un estremo all’altro del paese non
potevamo mancare Città del Capo dove avevo provato per la prima volta il sapore
della parola apartheid. In centro si
viveva un’atmosfera molto rilassata, diversa – mi viene da dire più europea –
rispetto a tutte le altre città del Sudafrica. Chi aveva tempo libero prendeva
il sole nei giardini pubblici dove i bambini giocavano e i giovani correvano
per mantenersi in forma. Chi era occupato in qualche attività si affannava per
le strade, negli uffici e nei negozi. Questo valeva per i bianchi e per i neri,
certo i primi impegnati in attività più qualificate, supponevo, o a bordo di
eleganti auto europee e americane, i neri impegnati in attività più umili:
autisti, facchini, baby sitter, camerieri. Il porto turistico e il lungomare
erano appena stati riqualificati e la sera si riempivano di gente in
passeggiata. Insomma, in centro a Città del Capo sembrava di essere in una
qualsiasi città di mare della California o del nord Europa. Bastava però
allontanarsi verso sud per trovarsi in un quartiere nero segregato nella
miseria più squallida e profonda. Eravamo rimasti in città quattro giorni, ma
non avevamo trovato mai la forza per entrare nella sua township.
Invece dedicammo
quasi una giornata a Soweto, accompagnati da Jimmy. Già l’ingresso al quartiere
fu complicato, i controlli delle polizia non furono superficiali: mi resi conto
che non saremmo mai potuti entrare a Soweto da soli. Le vicende capitate al
professor Du Toit, le notizie che allora arrivavano dal Sudafrica, il
boicottaggio internazionale che giustamente isolava il paese dal mondo –
perfino nel tennis – mi avevano consegnato un’immagine quasi macabra della township, la stessa che ci aveva
consigliato di evitare quella di Città del Capo. Ho visto città africane o
indiane nelle quali degrado, miseria, sporcizia e fame superavano ogni
immaginazione, non dimentico Il Cairo, Varanasi o Accra. Entrando a Soweto mi
aspettavo di entrare in un girone dell’inferno, ma non fu così.
Soweto. Soweto mi apparve poverissima, ma
non miserabile. C’erano baracche di legno e di lamiera, ma c’erano anche case
in muratura. C’era una parvenza di illuminazione stradale e qualche antenna TV.
La vista non mi consolò, anzi penso che la realtà che mi scorreva davanti agli
occhi fosse addirittura più infame e ingiusta di quella che mi aveva toccato ad
Accra o a Varanasi. Anche là differenza tra poveri e ricchi era smaccata, i
poveri nelle bidonville delle periferie, i ricchi nei palazzi del centro
retaggio dell’era coloniale ormai tramontata. Ma i bianchi al Cairo o a Maputo
erano pochi: dipendenti da aziende straniere, addetti alla ambasciate, turisti…
Gli altri, i detentori delle ricchezza e del potere erano almeno della stessa
razza dei poveri. Solo ricchezza e potere distingueva gli uni dagli altri.
Invece a Soweto, cosa distingueva la donna che cucinava su un fuoco di legna
davanti alla porta della sua baracca o i bambini – nessuno malnutrito, comunque
– che giocavano a ricorrersi, dai bianchi ricchi che abitavano in centro,
dietro ai cancelli difesi dalle armi? Soprattutto la razza. Al potere e alla
ricchezza si aggiungeva il colore della pelle quale discriminante ancora più
odiosa della ricchezza.
Murales a SOWETO - Johannesburg - Sudafrica |
Su quelle
strade strette e polverose, percorse da qualche vecchia auto sgangherata,
avvenne nel 1976 una delle più infami stragi della storia dell’apartheid, la strage di Soweto: in dieci
giorni di manifestazioni e rivolte seguite al decreto del governo che obbligava
in alcune scuole l’uso della lingua afrikaans,
la lingua degli oppressori, furono massacrate centinaia di persone, soprattutto
studenti. Quella strage e le altre che avevano macchiato la storia del paese
prima del nostro arrivo erano state generate dal colore della pelle. Come le
torture e gli assassinii di tanti attivisti o oppositori, a cominciare da Steve
Biko che un altro bellissimo film[2]
racconta.
Mahatma Gandhi: Beh, allora non sapevo che il
Sudafrica avesse ospitato Gandhi. Mi posi la questione vedendo la sua statua a Pietermaritzburg. Come mai quella
statua? Gandhi spese venti anni della sua vita in Sudafrica prima di diventare
il Mahatma Gandhi. Nel maggio del 1983 mentre andava a Pretoria in treno, gli
fu ordinato da un bianco di andarsene in terza classe. Ma lui aveva un
biglietto di prima e rifiutò e… fu buttato giù dal treno proprio a
Pietermaritzburg. Il fatto fu cruciale per orientare la sua vita e decise di
fermarsi nella città per combattere l’oppressione che subiva da sempre la
comunità indiana alla quale anche lui apparteneva.
Monumento al Mahatma Ganghi - Pietermaritzburg - Sudafrica |
La statua di bronzo mostrava
la Grande Anima, magro e spoglio, proiettato in avanti con determinazione. La
statua fu eretta del 1993 a ricordo dei 100 anni passati da quando Gandhi fu
buttato fuori dal treno.
Swaziland: Quanti sono stati nello Swazialand,
piccolissimo stato nero ai confini col Mozambico? Per Andare dal parco Kruger nel
nord-est del Sudafrica verso Città del Capo c’era da attraversare lo Swaziland,
oppure compiere un largo giro. Optammo per prima soluzione. Per attraversare lo
stato non impiegammo più di quattro cinque ore, ma dovemmo affrontare i
controlli di una vera frontiera e un vera dogana, nonché un cambio obbligatorio
di moneta per poter pagare le tasse di ingresso. Oggi credo di essere tra i
pochi italiani a possedere ancora qualche lilangeni,
la moneta locale o, almeno, quella di allora.
Solo canna
da zucchero, ovunque. Non fosse stato per la gente di colore che incontravamo
sembrava di essere a Cuba. File di trattori correvano per le strade trascinando
carri carichi di canne che trasportavano agli stabilimenti di trasformazione
(si chiameranno anche in questo caso zuccherifici?). Il cielo era grigio e
pesante, l’aria afosa e impregnata di fumo, particamente ovunque. Erano gli
stabilimenti di lavorazione della canna a vomitare in aria quel fumo. Cercammo
di attraversare lo Swaziland nel minor tempo possibile.
Caccia ai licaoni: dedicammo quattro giorni
alla riserva Hluhluwe-Unfolozi che forse ne avrebbe meritati di più per la sua
vastità e bellezza. E anche per la sua importanza “ecologica”: in essa si
praticava la riproduzione “protetta” dei rinoceronti bianchi, a quei tempi a
rischio di estinzione ovunque nel continente tranne che in Sudafrica. Quei
rinoceronti andavano a ripopolare i parchi naturali dell’Africa sub-sahariana, massacrati
dal bracconaggio. E ritengo che, se questi animali sopravvivono ancora oggi, lo
dobbiamo in gran parte alle politiche naturalistiche di questo paese. Ma al di
là dei rinoceronti il clou della visita alla riserva erano i licaoni, se non li
conoscete, cliccate qui: (https://it.wikipedia.org/wiki/Lycaon_pictus). Dopo averli mancati in
Zimbabwe e Botswana, volevamo vederli in Sudafrica. La fortuna ci aiutò,
facendoci incontrare Günther, giovane ricercatore sudafricano impegnato nello
studio del licaone e che nella riserva Hluhluwe-Unfolozi osservava e seguiva un
piccolo branco nel quale c’era un esemplare dotato di radiocollare. Fu un
incontro fortuito che ci procurò qualche speranza di incrociare il branco dei
licaoni, senza di lui non li avremmo mai visti.Licaone nella riserva Hluhluwe-Unfolozi - Sudafrica |
Ma anche con l’aiuto della
ricetrasmittente di Günther non fu facile. Ogni mattina e ogni pomeriggio lo
accompagnavamo nelle sue ricerche, ascoltavamo i deboli segnali che la sua antenna
riceveva e rincorrevamo il segnale. Il secondo giorno captammo un bip-bip
distinto e gli andammo dietro e più lo seguivamo, più il segnale aumentava di
intensità. Eravamo nella direzione giusta. Raggiungemmo la riva di un fiume, il
segnale era forte e chiaro, i licaoni erano vicinissimi… ma erano nel bosco
dall’altra parte del fiume. Dopo due giorni di inutili ricerche la delusione fu
grande, tanto che un compagno di viaggio mandò al diavolo i licaoni e gli altri
concessero loro un’ultima possibilità. Günther sorrideva. Il mattino dopo
ricominciammo le ricerche quando era ancora buio e il compagno deluso non venne
con noi. Ovviamente sappiamo che il destino è cinico e baro: incontrammo il
gruppetto dei licaoni (sei esemplari) quasi subito e li seguimmo da vicino per due
o tre ore, disturbandoli purtroppo durante la loro caccia. Anche questo
avvistamento fu uno di quelli che non dimenticherò.
Qual'è la punta dell'Africa? La punta più a sud dell'Africa non è il Capo di Buona Speranza, che è la punta di una penisola a sud di Città del Capo, ma è Capo Agulhas, nome sconosciuto ai più. Si tratta di un promontorio roccioso e selvaggio, battuto dai venti e dalle correnti, affascinante.
Qual'è la punta dell'Africa? La punta più a sud dell'Africa non è il Capo di Buona Speranza, che è la punta di una penisola a sud di Città del Capo, ma è Capo Agulhas, nome sconosciuto ai più. Si tratta di un promontorio roccioso e selvaggio, battuto dai venti e dalle correnti, affascinante.
[1] Benjamin Du Toit è il protagonista del film Un'arida stagione bianca del 1989, diretto da Euzhan
Palcy e interpretato da Donald
Sutherland, Susan Sarandon e Marlon
Brando.
[2] Grido di libertà è un film del 1987 diretto da Richard Attenborough.
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