Itinerario: Yangon, Bago, Lago
Inle, Kalaw, Kakku, grotta di Pindaya, Mandalay, Inwa, Amarapura, Sagaing, Monywa,
Hpo Win Daung Caves, Bagan, Sittwe, Mrauk-U, villaggi Chin e fiume Lemyo, Yangon
Periodo: Novembre-Dicembre 2010
Durata: 4 settimane
Ne parlo nel libro: Il Gatto Buddhista
Sette regioni amministrative le cui popolazioni sono composte
prevalentemente dai birmani, in aggiunta a sette stati diversi le cui
popolazioni sono composte invece prevalentemente da minoranze etniche come
quelle degli Shan e dei Karen, le più numerose. Zone e divisioni
auto-amministrate diverse rendono il Myanmar un paese molto complicato e in
conflitto perenne, come dimostra la drammatica persecuzione dei
Rohingya, un gruppo di fede musulmana dello stato di Rakhine, al confine con il
Bangladesh.
Questa complicatissima situazione amministrativa si portava dietro
un’altrettanta complicata situazione storica e etnica, oltre ad una diversità
incredibile di storia, cultura e tradizioni. Un po’ potemmo toccare con mano
questa varietà, attraversando un paese che non aveva, e forse non ha, confronti
per originalità e differenze.
Anche la chiusura verso il mondo a cui una feroce dittatura militare
l’aveva sottoposta negli ultimi decenni, se da una parte aveva condannato il
paese ad un’arretratezza economica umiliante, dall’altra l’aveva preservato in
buona parte dall’aggressione del capitalismo cialtrone e sfrenato della vicina
Cina. Era più facile incontrare per le strade carri trainati da animali
(soprattutto zebù) che mezzi a motore. Un fortuna per il viaggiatore e che
ormai deve accontentarsi, praticamente ovunque, di realtà trasformate, se non
devastate, dal turismo di massa.
Suppongo che poco sia cambiato dal 2010. Spero invece che siano cambiate
un po’ le condizioni generali. Allora viaggiare nel paese era un delirio: voli
in ritardo di ore, a volta cancellati, compagnie aeree inaffidabili e anche
pericolose, insensati adempimenti burocratici, aree vietate agli stranieri, strade
pessime…
I gatti saltanti. Sbarcammo
nel pomeriggio al monastero di Nga Phe Kyaung, uno splendido edificio costruito
tutto in tek a metà del ’700 su centinaia di pali piantati nelle acque del lago
Inle. All’interno molti altari sorreggevano statue di Buddha di legno e lacca,
alcune con più di cento anni alle spalle, illuminate dalla luce dorata del sole
calante.
In
un angolo della grande sala che ospitava gli altari dei Buddha vidi una ventina
di gatti intenti a trastullarsi, sbadigliare e pisolare. Niente di strano,
eravamo nel Monastero dei gatti saltanti.
Sembra che negli anni sessanta l’unico monaco rimasto nel monastero, per
vincere la solitudine, passasse il tempo ad addestrare alcuni gatti a saltare
in un cerchio. Da allora i piccoli felini sono diventati l’attrazione del
monastero, forse più della bellezza dei Buddha che custodisce.
All’improvviso,
vincendo la naturale pigrizia, si alzarono tutti insieme e si diressero veloci
verso una finestra, come ubbidendo a un ordine del re dei gatti. Ma non erano
giunti ordini da nessuna autorità felina, solo un monaco che portava la cena.
Furono serviti a gruppetti in piccole ciotole e si misero a mangiare di gusto.
Da buon felino solitario, terminato il pasto, ognuno s'incamminò lentamente
verso un angolo tranquillo della sala a pensare ai fatti suoi. I più romantici
fecero un elegante balzo che li portò sui davanzali delle finestre per ammirare
il tramonto. Lo stesso tramonto che anch’io potevo intravedere di là dalle loro
sagome scure. “Ma sono questi i jumping
cats?” mi domandavo. Certamente no,
non potevano essere loro i famosi gatti saltanti.
Continuammo
la visita del monastero e dopo mezz’ora una piccola folla di visitatori attirò
la mia attenzione: tutti mi davano le spalle e guardavano in basso, davanti ai
loro piedi. Li raggiunsi e mi feci largo. Eccoli i gatti saltanti. Erano là.
Erano
sei, gli unici a fare qualcosa mentre i loro compagni oziavano poco lontano. Un
monaco, inginocchiato a terra, li incitava a saltare in un piccolo cerchio che
teneva in mano. Dopo diversi incitamenti, i gatti spiccavano a turno un salto
con l’eleganza e la leggerezza dei felini e attraversavano il cerchio. Ero
stupito. Io amo moltissimo i gatti e li amo soprattutto per l’abilità che
dimostrano di vivere da millenni alle spalle dell’uomo senza dare nulla in
cambio, a parte la fantomatica caccia ai topi. Disinteressati a tutto,
solitari, indipendenti, nella mia esperienza di padrone di gatti non sono mai
riuscito a determinare il loro comportamento. Anche le mie carezze sono sempre
state soggette alla loro disponibilità, mai sono dipese da me. In quel momento,
vedendo i gatti che saltavano a comando, come ammaestrati, vacillava in me la
loro immagine.
Appena
atterrati, mi sembrava che i jumping cats
guardassero il monaco con sufficienza, come per dire: “Contento?” In realtà reclamavano la ricompensa, un bocconcino
che il monaco offriva loro ad ogni salto con un gesto furtivo. Ah, ecco! Tutto
era chiaro. Erano i soliti, indolenti e indisciplinati gatti che avevo sempre
conosciuto e che, fatti due conti, consideravano conveniente quel piccolo
sforzo in cambio dei graditi bocconcini. Ma senza esagerare, perché avevo
notato che nessuno di loro era andato oltre il terzo o il quarto balzo. Va bene
saltare un po’ in cambio dei bocconcini, ma non è che si possa saltare da
mattina a sera, nemmeno per tutti i bocconcini del mondo.
Evidentemente
quella era la giornata dei piccoli felini. Nella mattinata infatti eravamo
andati in visita a una fattoria dove allevavano gatti di una razza speciale.
Erano burmesi, bellissimi mici a pelo
corto, lucido e marrone. La Birmania è il loro paese di origine e alla fattoria
li allevavano cercando di preservare pura la razza.
Si fa presto a dire
lago (Inle). Se c’è acqua di cui l’occhio non percepisce il
fluire (come in un lago) o l’ondeggiare (come nel mare), allora siamo di fronte
un lago. Innegabile, tuttavia il lago Inle è molto di più. E’ dove vive il
popolo Intha che ha sviluppato un’affascinante cultura e uno stile di vita
tutto basato sull’acqua, costruendo case di bambù su palafitte e coltivando
prodotti agricoli in giardini galleggianti. Perché gli Intha abbiano deciso di
vivere sull’acqua non è chiaro, forse per difendersi da invasioni o a causa di
antiche competizioni con i vicini per la terra coltivabile. Sta di fatto che
questa gente vive e lavora qui, si sposta solo in barca, pesca lanciando reti e
nasse dalla piroghe che guidano per mezzo di un unico remo che governano con
una gamba. Non si capisce come ci riescano.
Questi giardini galleggianti sono prodigiosi. Sono
essenzialmente isole, lunghissime e larghe circa un metro, costruite dall’uomo
e formate da un intreccio di canne e giacinti d’acqua, una pianta invasiva che
cresce nel lago. Su questo groviglio si depone il terreno che serve per le
coltivazioni. L’isola galleggiante nel tempo perde questo terreno che va a
depositarsi sul fondo del lago mettendo a rischio l’isola stessa. Ma il lago è
poco profondo, basta ripescarla e rimetterla sull’isola. E il ciclo continua… E’
una buona idea: coltivare prodotti sul lago aumenta la disponibilità di terreno
coltivabile, c’è un facile accesso all’acqua, anche nella stagione secca…
Un sistema geniale che però rischia di avere nel suo successo le ragioni del suo declino. Purtroppo l’aumento della popolazione e il turismo minacciano il lago. Agricoltura e attività umane comportano inquinamento dell’intero ecosistema. Sopravviverà l’Inle? Troppo turismo, sovrapproduzione agricola, uso di pesticidi, fertilizzanti chimici, scarsa manutenzione (le isole hanno una vita breve e quelle più vecchie aumentano la sedimentazione del lago). Qualche tentativo di proteggerlo sembrava venisse messo in campo, speriamo…
Un sistema geniale che però rischia di avere nel suo successo le ragioni del suo declino. Purtroppo l’aumento della popolazione e il turismo minacciano il lago. Agricoltura e attività umane comportano inquinamento dell’intero ecosistema. Sopravviverà l’Inle? Troppo turismo, sovrapproduzione agricola, uso di pesticidi, fertilizzanti chimici, scarsa manutenzione (le isole hanno una vita breve e quelle più vecchie aumentano la sedimentazione del lago). Qualche tentativo di proteggerlo sembrava venisse messo in campo, speriamo…
E mentre spero, posso solo ricordare con gioia
l’acqua piatta del lago Inle che rifletteva i tramonti infuocati, le case e le
palafitte, i pescatori Intha che lanciavano le reti, le barche che correvano da
un villaggio all’altro. In lontananza, sulle colline che lo circondano,
luccicavano pagode e stupa dorati…
Le
donne Padaung. La
meravigliosa atmosfera del lago Inle venne un po' rattristata dalla vista di alcune
donne Padaug diventate tristemente famose per la loro abitudine di indossare
attorno al collo numerosi anelli. Si portano anche dietro l'offensivo soprannome di "Donne Giraffa".
Non eravamo interessati a vederle per non assistere a questa tortura e loro per fortuna provenivano da una regione molto lontana a sud del lago interdetta agli stranieri. Non pensavamo quindi di incontrale, ma per non rinunciare alla fiera delle meraviglie, le autorità Birmane avevano pensato di trasferirne alcune sul lago a disposizione delle macchine fotografiche degli stranieri più numerosi qui che altrove. Un incontro angosciante nel quale ricordo di non essere riuscito nemmeno a capire se ero più turbato dalle due ragazze giovani, con pochi anelli e il collo ancora di proporzioni normali, ma già condannate a un destino atroce o dalle due donne anziane con molte rughe sul viso e molti anelli intorno al collo. Più di venti. Ho potuto costatare le modifiche fisiche provocate dagli anelli di bronzo che portano fin dall'età di 5 anni. Poi incrementati di numero e sostituiti con altri di dimensioni sempre maggiori fino a che la pressione non provoca uno slittamento della clavicola e una compressione della gabbia toracica. Diversamente da quanto può apparire, quindi, non è il collo che si allunga, ma il torace che si abbassa.
Ovviamente non pubblico le loro foto.
Non eravamo interessati a vederle per non assistere a questa tortura e loro per fortuna provenivano da una regione molto lontana a sud del lago interdetta agli stranieri. Non pensavamo quindi di incontrale, ma per non rinunciare alla fiera delle meraviglie, le autorità Birmane avevano pensato di trasferirne alcune sul lago a disposizione delle macchine fotografiche degli stranieri più numerosi qui che altrove. Un incontro angosciante nel quale ricordo di non essere riuscito nemmeno a capire se ero più turbato dalle due ragazze giovani, con pochi anelli e il collo ancora di proporzioni normali, ma già condannate a un destino atroce o dalle due donne anziane con molte rughe sul viso e molti anelli intorno al collo. Più di venti. Ho potuto costatare le modifiche fisiche provocate dagli anelli di bronzo che portano fin dall'età di 5 anni. Poi incrementati di numero e sostituiti con altri di dimensioni sempre maggiori fino a che la pressione non provoca uno slittamento della clavicola e una compressione della gabbia toracica. Diversamente da quanto può apparire, quindi, non è il collo che si allunga, ma il torace che si abbassa.
Ovviamente non pubblico le loro foto.
Una
foresta di stupa (Kakku). La strada per arrivarci era lunga anche se molto
bella, immersa tra colline e campi coltivati. Non sapevamo se valeva la pena
sobbarcarci quella trasferta, ma appena arrivati a Kakku fu chiara la risposta:
valeva, sì. Su una collina sorgeva l’incredibile foresta di stupa di 3 o 4 metri di dimensione,
perfettamente allineati, prevalentemente bianchi o gialli, alcuni crollati
sotto il peso degli anni, altri perfettamente restaurati, delimitati da siepi
in fiore. E i turisti? Non c’era nessuno a parte noi, una visita emozionante.
Commovente un piccolo edificio con una rara statua del Buddha morto circondato
da quelle dei suoi discepoli, la penombra suggeriva al visitatore
partecipazione, come se si trattasse di una vera veglia funebre.
Bagan.
Ci sono luoghi che conservano per l’umanità resti di antiche civiltà e
imperi che impressionano ancora oggi per
dimensione, importanza e spettacolarità. Cito Karnak (Egitto), Machu Pichu
(Perù), Anghor (Cambogia), Persepolis (Iran), Khajuraho (India), Palmira
(Siria), Petra (Giordania). Tra questi non può mancare Bagan, un luogo
imperdibile. Uso per dare un’idea le parole dell’UNESCO, di cui è patrimonio:
“Posta su un’ansa del fiume Irrawady, nella pianura centrale del
Myanmar, Bagan è un grande luogo sacro (almeno 10 km quadrati) che presenta un
ventaglio eccezionale d’arte e architettura buddhista. Composta da sette
elementi, conta numerosi templi, stupa,
monasteri e luoghi di pellegrinaggio oltre a vestigia archeologiche, affreschi
e sculture. Testimonia in modo spettacolare della civilizzazione di Bagan
(XI-XIII secolo) quando il sito era la capitale di un impero regionale. Questo
insieme d’architettura monumentale riflette l’intensità del fervore religioso
di un antico impero buddhista”.
Nei quattro giorni della nostra visita, ho visto in ogni
luogo di culto (dal più maestoso al più semplice) secoli di storia fondersi con
la vita attuale di un popolo devoto che continua a frequentare i templi ancora
oggi, si toglie con rispetto le scarpe all’entrata, prega in ginocchio davanti
alle statue del Buddha, fa donazioni ai monaci… Si respirava un’aria serena, pacifica
e un po’ rarefatta, solo un po’ infastidita dal vociare delle delegazioni
straniere in visita, soprattutto giapponesi.
Purtroppo la rozza giunta militare al potere aveva
ristrutturato alcune opere d'arte antiche, templi ed edifici, curandosi poco
degli stili architettonici originali, usando materiali moderni incompatibili quelli
originali. Questi restauri raffazzonati urtavano la mia sensibilità, ma per
fortuna non erano molti. E l’UNESCO stava entrando a Bagan per eseguire i restauri
più delicati (soprattutto affreschi), dopo aver patteggiato discretamente la
propria presenza con il regime.
Dalle terrazze dei templi più alti potevo (soprattutto al
tramonto) assistere ad uno spettacolo unico: le guglie rosse degli edifici che
spuntano dalla foresta sullo fondo delle montagne che circondano la valle di
Bagan.
Panoramica di Bagan - Myanmar |
Non si può pensare di visitare tutta Bagan, ovviamente, ci
vorrebbero mesi, tuttavia quelli rimarchevoli sono una cinquantina di cui almeno
una ventina non si possono mancare e meritano una vista possibilmente non
frettolosa.
Da ultimo un consiglio, anche se non richiesto: dedicate a
Bagan, e magari anche a qualche villaggio Bhamar, nascosto tra i templi o nei
dintorni, almeno 4 giorni.
Monaci. Non
solo nelle campagne, ma anche a Yangon e nelle città principali, si percepiva
una tensione religiosa ormai difficilmente riscontrabile altrove. Un milione di
monaci su una popolazione di circa cinquanta dimostravano l’importanza della
religione buddhista per ogni famiglia birmana. Chiunque può abbracciare la vita
monacale per un periodo della sua vita per ritornare poi alla vita laica. Per questo
il monaci, di ogni età, vestiti di una sola tunica ocra, si incontravano
ovunque, soprattutto al mattino quando andavano in giro per la questua dalla
quale ricavavano il loro unico sostentamento.
Giovani monaci alla questua giornaliera - Bagan - Myanmar |
Non pensiamo che chiedessero la
carità, non erano mendicanti, nei monasteri di lavora e si studia, erano
religiosi che ricevevano un profondo rispetto dalla popolazione ed esercitavano un
diritto riconosciuto perché è compito della comunità provvedere al loro sostentamento. E
infatti era raro che la gente non offrisse qualcosa da mangiare, soprattutto
riso bollito. Per quanto potesse essere invadente, assistere alla distribuzione
del cibo nei monasteri, quando i monaci si presentavano al tavolo dove la loro
ciotola veniva riempita di riso, rimaneva un’esperienza toccante.
Comunque, ripeto: era il numero a sorprendere. Sarebbe come se a Bologna
incontrassimo per le strade 7/8.000 monaci ogni giorno.
Per dare un’idea dell’importanza e del ruolo che i monaci rivestono nella
società birmana riporto questo aneddoto. Fummo invitati alla festa per il
noviziato del figlio minore di una famiglia in procinto di entrare in monastero.
Alla festa, oltre a noi, tutto il piccolo villaggio sul lago Inle era stato
invitato. L’orgoglio di quella famiglia, l’onore che le veniva riservato da
amici e parenti, le offerte in denaro dei vicini di casa erano commoventi.
Lamine
d’oro. Il Myanmar è ricco d’oro e l’oro è abbondante ed evidentemente abbastanza
a buon mercato, perché tutto il giallo che luccica nel paese è oro. Intendo
ovviamente il giallo che luccica dove è importante: templi, pagode, stupa, statue del Buddha. Una forma di
devozione religiosa che quasi tutti rispettavano era quella di applicare ai
luoghi e agli oggetti di culto una piccola lamina d’oro. Piccole e così
sottili da non poterne nemmeno percepire lo spessore, non dico con le dita, ma
forse nemmeno con un calibro (dato tecnico: il calibro misura un decimo, un
ventesimo, un cinquantesimo o un centesimo di mm). Una pratica tanto comune che
ho visto statue del Buddha che avevano perso la forma umana di partenza, ormai trasformate
in oggetti indefiniti tante erano le lamini d’oro appiccicate su di esse una
sull’altra. E dove si trovavano queste lamine? Esistevano delle “fabbriche” apposite che le producevano
e ho visto come lavoravano. Il processo produttivo era geniale, ma costava molta fatica. Solo per i più giovani. Funzionava così.
La faticosa produzione delle lamine d'oro - Mandalay - Myanmar |
Si metteva una piccola quantità d’oro in un involucro di cuoio (come una
moneta in un portafoglio). I battitori (tutti giovanissimi) appoggiavano
l’involucro su un sasso a terra tra i loro piedi e con una mazza di legno lo
battevano con cadenza regolare. Colpo dopo colpo la pepita si appiattiva. Si
lavorava in piedi e non bastava la forza delle braccia, occorreva aggiungere
quella che può garantire un secco colpo di reni, quindi ad ogni colpo occorreva
flettere con violenza la schiena: un lavoro massacrante. Tanto massacrante che
ogni quarto circa i lavoranti dovevano fare un intervallo. Di quanto tempo?
Anche per misurare il tempo di riposo usavano un sistema originale e preciso.
Sulla superficie dell’acqua di una bacinella che tenevano al loro fianco facevano
galleggiare un contenitore con un piccolo foro sul fondo. L’acqua entrava
lentamente dal foro e a poco a poco riempiva il contenitore (se ricordo bene,
circa 5 minuti). Quando questo affondava l’intervallo era finito e si
ricominciava a colpire. L’oro è duro: per passare dalla pepita al foglio sottilissimo
servivano moltissimi colpi. Incredibile, eppure posso testimoniare che funzionava.
Ma a che prezzo!
Mrauk-U.
Arrivarci via terra era praticamente impossibile, l’unica possibilità
era l’aereo da Yangon a Sittwe e da qui mezza giornata di navigazione sul fiume
Kaladan fino agli stupefacenti templi di Mrauk-U, una “piccola” Bagan.
Arrivarci è scomodo, i viaggi organizzati standard di solito evitano la
trasferta, ma vale decisamente la pena, anche per il limitato numero di turisti
che si incontrano. Una settantina di templi, stupa ben conservati, resti di palazzi e mura. Come a Bagan non si
possono vistare tutti, ma sette/otto sono imperdibili, anche perché sono di
foggia molto diversa da quelli che si incontrano altrove. Datati qualche secolo
dopo Bagan, i templi di Mrauk-U sono bassi e tozzi, hanno una struttura
massiccia e scura, si vede che erano templi-fortezza. Gli stupa hanno una forma a campana e non presentano le guglie
classiche. Un mondo diverso. Piccole finestre lasciano entrare poca luce e
poca aria nei templi; dalla penombra dei corridoi e della gallerie interne
emergono centinaia di enigmatici sorrisi delle statue e dei bassorilievi del
Buddha.
Tempio Shittaung - Mrauk-U - Myanmar |
Tra una visita e l’altra attraversavamo campi ben coltivati e le
consuete scene “bucoliche” dei contadini al lavoro e donne con grandi anelli di
metallo inseriti nei lobi delle orecchie. Una visita a Mrauk-U dovrebbe concludersi
assistendo al tramonto sulla terrazza di un tempio, uno spettacolo affascinante.
Noi scegliemmo l’Haritaug. Si vedevano le colline coperte dalla foresta sotto
la quale si intuiva che sorgevano le case di bambù del villaggio. Le denunciavano
le voci e i rumori smorzati che ci arrivavano e il fumo dei fuochi delle cucine
che si spandeva tra le colline come nebbia. Il sole infuocato calava di fronte
ai nostri occhi arrossando i templi e gli stupa
che si perdevano a perdita d’occhio.
Isole
a motore. Le isole possono essere molto diverse tra loro,
ma di sicuro stanno ferme in mezzo al mare. In Myanmar invece, risalendo la
corrente sul fiume Lemyo verso lo stati Chin, si incontravano isole che si muovevano,
navigavano. Erano isole di enormi agglomerati di canne di bambù che veniva
tagliato a nord e doveva andare al sud, verso il mare per essere imbarcato. Un
viaggio di circa una settimana. Come fare a fronte di assenza di strade decenti?
Si intrecciavano tra loro le canne di bambù fino a costruire delle isole (delle
zattere, in realtà) anche lunghe 100 metri e si lasciavano scivolare a valle
sulla corrente del fiume. In problema era che andavano governate, pilotate per
evitare che si arenassero in qualche ansa o si schiantassero sulla riva. Allo
scopo c’erano dei “piloti” che abitavano per tutto il viaggio sulle isole stesse,
dove montavano delle tende per la notte, cucinavano, facevano cioè la loro vita
controllando il procedere della navigazione.
Una isola/chiatta di bambù scende lungo il fiume Lemyo - Myanmar |
Come un traghetto anche queste
isole/zattere dovevano poter manovrare e ogni tanto attraccare alla riva: in
diversi punti della zattera venivano allora applicati dei motori fuori bordo
che la spingevano nelle direzioni volute. I “piloti” ogni tanto scendevano a
terra: in questi casi bastava dare gas ai motori interessati e spingere l’isola
verso riva. Vedevamo i “piloti” balzare a terra, inforcare bici e moto e andare
verso un villaggio, magari per fare la spesa. Le bici e le moto poi le vedevamo
parcheggiate sulla isole di bambù accanto alle loro tende.
I villaggi Chin. Un giorno di navigazione ci portò
da Myauk-U ai villaggi Chin, altra “trasferta” altamente consigliabile. Lo
stato Chin è uno dei sette già menzionati, uno dei più remoti e forse più autentici,
al confine con l’India e il Bangladesh. La vita sul fiume è sempre affascinante
e anche quel giorno non si smentì. Sorprendevano la grandi vele colorate delle
chiatte che trasportavano di tutto. Pescatori, agricoltori erano indaffarati
nella abituali attività, mentre i bambini giocavano e nuotavano nel fiume e le
donne attingevano acqua con brocche di metallo che scintillavano al sole:
sembravano d’argento. Villaggi con case di bambù e foglie di banana, materiali
che tengono a bada l’umidità.
Una delle ultime donne tatuate - villaggi Chin - Myanmar |
Incontravamo solo donne: bambini a scuola e uomini
al lavoro nella foresta.
Alcune di
esse, le più anziane, mostravano tatuaggi al volto, leggeri, non molto
invadenti. Un’usanza che ormai andava scomparendo. Indossavano eleganti coperte
di cotone che tessevano loro stesse e ornamenti di rame e ottone.
Come sempre
gentilezza nei nostri confronti e, da parte nostra, una consistente donazione
per la scuola.
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