Per gentile concessione dell'editore POLARIS
Ti sembrerà strano, mio Signore, ma a Wieliczka non splende mai il sole
e la città è immersa in una notte perenne. E’ sempre stato così fin da quando
si cominciò a costruirla.
Il fatto sconcertante è che non ci fu un evento infausto o un
cataclisma che un giorno maledetto abbia spento la luce e precipitato la città
nel buio. No, perché già dall’inizio gli abitanti costruirono le prime
abitazioni sotto terra, al bagliore delle lampade e, sempre al buio, anno dopo
anno allargarono la città costruendo altre strade e altre abitazioni. Quando i
confini furono troppo larghi pensarono che, per meglio difendere la città dagli
assalti dei nemici, fosse preferibile procedere con le nuove costruzioni su un
secondo piano, poi su un terzo e così via.
Camminando per le strade si nota che sono molto anguste e strette,
quasi che i muratori, i carpentieri e i capomastri fondatori non abbiano voluto
sprecare spazio per qualcosa di utile solo per spostarsi da un posto all’altro.
E poiché evidentemente hanno ritenuto improbabile che molte persone possano
desiderare di andare tutte insieme in un unico luogo, hanno limitato lo spazio
riservato agli spostamenti della gente.
Sulle strade c’è da aggiungere che raramente si snodano in piano, quasi
tutte salgono o scendono, scavalcano laghetti e superano ostacoli di natura
diversa.
Se passiamo alle abitazioni, diciamo che sono essenziali e poco
orientate al lusso, alquanto semplici, alcune squadrate, altre ovali, alcune
basse, altre molto alte. Quelle che più colpiscono sono le abitazioni ovali. Guardando
verso il soffitto sembra che le intenzioni dei progettisti abbiano teso più
all’altezza che all’ampiezza, senza prevedere linee rette o angoli, come a
voler suggerire a chi vi abita l’idea di vivere dentro a un immenso uovo. Ma
nel tempo in alcune di esse l’ardita progettazione ha minacciato possibili
crolli, costringendo gli abitanti a sistemare al loro interno complicate
impalcature di legno per puntellare le volte.
Alla fioca luce delle lampade a olio stupisce lo scintillio che
proviene dalle pareti e dal suolo, dove brillano miriadi di minuscoli cristalli
di luce. Questa è la stupefacente particolarità di Wieliczka, mio Signore. E’
tutta costruita nel sale e col sale! Abitazioni, strade, tutto è di sale.
Gran Khan, di Wieliczka mi sono fatto l’idea che fosse una città santa
o che gli abitanti fossero molto religiosi, perché ho incontrato chiese,
cappelle e statue di santi in numero superiore al consueto. Parlo al passato
perché un’altra caratteristica che mi ha colpito della città è che ormai non ci
vive più nessuno. Ormai è una città abbandonata. Per le strade si aggirano solo
gli stranieri in visita. Forse vivere alla luce delle lampade per tutta la vita
è sembrato troppo duro e alla fine gli abitanti hanno preferito abbandonare la
città e, se necessario, affrontare i nemici in campo aperto, ma almeno vedere
il sole. Questa è un’ipotesi. Ma si può anche pensare ad un sortilegio,
altrimenti non si spiegherebbe la presenza lungo le strade di persone, non
molte per la verità, ferme in atteggiamenti rigidi. Guardandole meglio, però,
si scopre che anch’esse sono di sale, tutte inchiodate nel sale, come la moglie
di Lot.[1] Ritengo pertanto che gli abitanti della
città nascosta, per qualche motivo a noi sconosciuto, abbiano cominciato essi
stessi a diventare salini e che quelli che ancora erano di carne e ossa siano
fuggiti finché erano in tempo. Può anche essere che, esauritosi il sortilegio,
possano un giorno ritornare.
Di certo a Wieliczka vivevano molti artisti che hanno lasciato opere
insigni. Che tra loro ci fossero pittori è impossibile, perché non si incontrano
affreschi o icone. E infatti, com’è noto, è difficile dipingere sul sale,
troppo friabile. Per questo rinunciarono alla pittura, ma coltivarono
l’architettura e la scultura e in queste diventarono maestri. Nella grande
cattedrale di sale che sorge al centro della città, di per sé una mirabile
opera d’arte, scolpirono altari straordinari e lampadari la cui fattezza ed
eleganza potremmo invidiare anche noi Veneziani. Incisero bassorilievi di
sorprendente bellezza e grazia e non avevano a disposizione che sale, solo
sale.
Di tutte le Città Nascoste, mio Signore, garantisco che Wieliczka è la
più mirabile e la più sorprendente.
Marco Polo, ambasciatore di Kublai Khan, Imperatore della Cina
In piedi al centro della navata,
dopo aver camminato per qualche ora senza attraversare due volte gli stessi
ambienti, cominciai a rendermi conto delle dimensioni della miniera. Mi fecero
pensare a una città, una città nascosta. E mi riportarono alla memoria altre
cinque città nascoste: Olinda, Raissa, Sibilla, Teodora e Berenice, che rappresentano
solo una parte delle cinquantacinque Città
Invisibili[2] che Italo Calvino
immagina descritte da Marco Polo all’imperatore Kublai Khan. Hanno tutte
amabili nomi di donna, armoniosi, dolci alla pronuncia e all’ascolto: Diomira,
Isidora, Dorotea e Zaira, Anastasia e Isaura. Difficili da individuare,
sfuggenti e impalpabili, anche se sorgono di fronte ai nostri occhi. Come
Argia, che ha terra al posto dell’aria, dove “le vie sono completamente
interrate e le stanze sono piene di argilla fino al soffitto.”
Delle Città Nascoste Marco descrive le case e gli abitanti, ne esalta le peculiarità
più potenti, quelle eccellenti. Come fa con Olinda, la più stupefacente di
tutte, che cresce per cerchi concentrici che si espandono e si allargano, ma i
nuovi quartieri non sorgono in periferia attorno a quelli antichi. Spuntano
invece al centro della città come funghi in un’aiuola e spingono quelli vecchi
lontano, verso la periferia.
Così, insieme con lo stupore, nacque
in me la curiosità di immaginare come il viaggiatore veneziano avrebbe potuto
descrivere a Kublai Khan la sesta e ultima città nascosta, Wieliczka. Se avesse
voluto chiudere le sue favolose cronistorie con questa, che parole avrebbe
usato? Immaginai quelle che aprono questo racconto.
Wieliczka al nostro arrivo si era
presentato per quello che era: un paesone buttato nella campagna polacca a nord-ovest
di Cracovia. Alla tristezza dei paesi dell’Est prima della caduta del Muro,
quel giorno si aggiungeva la malinconia di un pomeriggio di gennaio freddo e
nebbioso. Non era la piccola città polacca l’oggetto della nostra visita, ma la
miniera di sale che porta lo stesso nome e che sprofonda sotto terra, su nove
piani sovrapposti, proprio sotto le sue case.
La miniera vanta una storia antichissima,
il sale è stato strappato dalle sue viscere dal tredicesimo fino al secolo
scorso. Le dimensioni sono molto vaste e comprendono corridoi, gallerie, grotte
e laghi sotterranei che si estendono in ogni direzione per chilometri, fino a
trecento metri sotto terra.
Nella visita avevamo percorso anguste
gallerie, attraversato ponti di legno gettati su pozzi e laghi sotterranei,
salito e disceso ripide scale per sbucare in ampi ambienti dalle forme più diverse.
E poi sale, sale e ancora sale.
Sotto il suolo di Wieliczka il
sale, o meglio il salgemma, si trova in grandi conglomerati simili a grandi ‘bolle’
nelle quali i minatori penetravano svuotandole dall’interno del loro materiale
e creando caverne di tutte le dimensioni. Ma non potevano estrarne tutto il
minerale per evitare il rischio che il terreno sovrastante franasse e con esso
la città che c’era sopra. E per questo, per evitare i crolli, molte caverne e
corridoi avevano i soffitti rivestiti, anzi puntellati, da enormi impalcature
di legno. Con tutto quelle travi di legno intorno, in alcuni momenti mi era sembrato
di essere in una baita di montagna più che in una miniera sotterranea.
Avevamo incontrato pozzi e
gallerie man mano che eravamo scesi verso il basso. Ogni ambiente ci aveva mostrato
una struttura particolare, creata dalle conformazioni che l’agglomerato del
salgemma aveva assunto nei millenni. I minatori non si erano limitati a scavare
il minerale, ma avevano riempito anche i vuoti che nel frattempo creavano e ad ognuno
avevano assegnato un destino speciale. Non avevano lasciato che i grandi vuoti rimanessero
sciatte caverne, buchi dove mancava qualcosa, ma approntarono ambienti arredati
con opere d’arte, come se avessero voluto ricompensare la terra per il furto del
salgemma. Sculture, bassorilievi, busti di santi, sovrani e uomini illustri erano
esposti con gusto e attenzione lungo le gallerie e nelle sale. C’erano gruppi scultorei
che rappresentavano scene di vita e di lavoro nella miniera o antiche leggende.
In aggiunta erano state scavate e scolpite anche molte cappelle. Il lavoro del
minatore è sempre stato duro e pericoloso, dalla creazione della prima galleria
fino a quando la miniera ha cessato l’attività. Per i minatori scendere nelle viscere
della terra era ogni giorno una sfida alla morte ed é facile pensare che la
loro fede in Dio e nei Santi potesse manifestarsi scolpendo statue e cappelle
con paziente dedizione. E più le opere manifestavano pregio artistico, più gli
autori si auguravano di acquisire nei cieli meriti speciali che potessero
salvar loro la vita un giorno in più.
Avevamo scoperto che in passato viaggiatori
più illustri di noi ci avevano preceduto nella visita. Nella grotta a lui dedicata
avevamo incontrato una grande statua di sale di Niccolò Copernico, scolpito
nell’atto di scrutare cieli lontani.
Ci eravamo imbattuti anche in molte
attrezzature e strumenti usati dai minatori, alcuni presentati in teche e
diorami, altri abbandonati in un angolo e rimasti là per secoli. La guida ci aveva
spiegato che era facile calcolarne l’età dall’altezza delle incrostazioni di
salgemma che li avevano ricoperti. La velocità di formazione del sale nella
miniera di Wieliczka è nota, per cui bastava un semplice calcolo. Ricordo un
piccone che aveva superato i duecento anni di vita bloccato dalle incrostazioni
nella medesima posizione. Quando nel tempo lo stillicidio di acqua e di
salgemma non era caduto su un attrezzo o su un’impalcatura di supporto alla
volta, ma aveva avuto la libertà di svilupparsi secondo le leggi della natura, aveva
creato candide stalattiti e stalagmiti.
Ufficialmente è la cappella di Santa
Kinga, o Kunegonda, patrona della Polonia. Io preferisco chiamarla cattedrale per
le dimensioni e per il livello artistico che in essa gli scultori hanno saputo esprimere.
E’ il tempio sotterraneo più grandioso e ricco nel suo genere. Immaginai che prima
di abbandonare quella vita da topi per fuggire verso destini più umani, i
minatori avessero voluto innalzare al cielo il loro gloria a Dio e avessero scavato, eretto, costruito, scolpito,
modellato e intagliato la meravigliosa cattedrale di sale che sorge nel fondo
della miniera, un inno al Paradiso nel cuore dell’Inferno. Eleganti
bassorilievi scolpiti sulle pareti illustravano scene del Nuovo Testamento. La
cattedrale era rischiarata da splendidi lampadari di sale. Tutto l’arredo era scolpito
nel sale, anche il pavimento e l’altare.
In piedi, al centro della
cattedrale, non mi sentivo soffocare come, penso, gli abitanti di Argia che - racconta
Marco - ha terra al posto dell’aria. Là sotto non c’erano finestre alle pareti
e nemmeno vetrate colorate, ma non ce n’era bisogno. La luce che non arrivava
da fuori arrivava da dentro, molto più chiara e scintillante di quella diffusa
dalle deboli lampade della navata. E mi bastava per immaginare la cattedrale
dall’esterno, con le guglie, i contrafforti, i portali e le grondaie. Era la
luce, per chi avesse saputo coglierla, emanata da chi nella miniera aveva
sputato sangue e perduto a volte la vita.
Gli spiriti dei vecchi minatori aleggiavano
ancora tra gli altari e i bassorilievi, attorno alle statue di sale che avevano
scolpito nei momenti di riposo e nell’aria immobile della cattedrale. Balenavano
negli infiniti riflessi che rimbalzavano tra i cristalli di sale delle pareti e
dei lampadari appesi al soffitto. Riflessi che vedevo accendersi e spegnersi ad
ogni passo, come lucciole in una notte d’estate.
Guardavo in alto e mi sembrava di
vederli, quegli spiriti, librarsi verso la volta della navata. Ed io con loro. E
appena sfiorata, la volta si apriva con dolcezza al nostro passaggio e noi salivamo
senza sforzo e senza paura, su su, nel cielo della cattedrale fatto di terra, attraverso
le sale e i maledetti cunicoli della miniera, su su, sempre più lontani dalle tenebre
e dalla sofferenza, su su, liberi e leggeri. Per tornare al mondo e alla vita e
per scoprire, come Ciàula,[3] che
fuori c’era la luna.
Wieliczka, Polonia, gennaio 1978
[1]
Durante la fuga da Sodoma e Gomorra, quando Dio decise di distruggerle per
punirle, la moglie di Lot, per aver contravvenuto all'ordine di non voltarsi a
guardare, fu tramutata in una statua di sale. (Wikipedia)
[2] Italo Calvino pubblicò il
libro Le città invisibili nel
1972.
[3]
Ciàula
é il protagonista di Ciàula scopre la luna, una novella di Luigi Pirandello.
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