martedì 8 agosto 2023

RACCONTO: Anime in fumo

(tratto dal mio libro: IL CONFINE IMMAGINARIO)

Per gentile concessione dell'editore POLARIS

All’entrata del nostro albergo a Ubud [1] un piccolo cartello scritto a mano informava che il giorno seguente in un villaggio a pochi chilometri da lì avrebbe avuto luogo una cremazione. Il giorno dopo un taxi ci condusse nel luogo indicato e subito notai l’esigua presenza degli stranieri.  Nella primavera del 1998 dimostrazioni e rivolte, anche sanguinose, si erano scatenate contro il dittatore Suharto [2] ed avevano lasciato tracce evidenti nelle città principali dell’Indonesia.  Bali non era stata coinvolta direttamente, ma era pur sempre un pezzo di Indonesia e quindi pagava, come tutto il paese, la fuga degli stranieri, con grandi vantaggi - prezzi bassi e ottimi servizi – per i pochi che come noi erano comunque arrivati. Quella mattina di stranieri ne contai al massimo una decina e questo consentiva alla cerimonia di svolgersi senza troppe interferenze esterne.

Il paese era povero, case di terra e tetti di paglia all’ombra delle palme. Confuso nella ressa di persone all’apparenza serene, all’inizio fui sorpreso dall’atmosfera che mi circondava, quasi una festa, e stentavo a credere di trovarmi a quello che consideravo un funerale. Chissà, forse intorno a me il dolore delle persone per la perdita di un amico o di un familiare era stato mitigato dal tempo, perché a Bali la cremazione quasi mai avviene subito dopo la morte, ma dopo mesi o anche anni. Perciò tra la morte e la cremazione a volte per i parenti c’è il tempo sufficiente per la rassegnazione. In attesa della cremazione il morto viene comunque sepolto e quando arriva il giorno dell’evento viene disseppellito, preparato e poi dato alle fiamme durante una cerimonia comune. Quello era il giorno.

La cremazione per gli Indù rappresenta la liberazione dell’anima dal corpo, dopo la quale, liberata dal suo peso, l’anima può librarsi verso altre dimensioni. E’ l’eterno karma che si perpetua finché essa non sarà definitivamente libera e pura. Se per gli Indù il colore del lutto è il bianco, allora devo dire che molti nell’occasione indossavano indumenti neri, dal classico sarong [3] alle fasce di stoffa che quasi tutti portavano sulla fronte.

Avevo intorno centinaia di uomini, donne e bambini, una moltitudine che sembrava concentrarsi in gruppi più serrati davanti ad alcune case. Ciò significava che le famiglie coinvolte nella cerimonia erano molte e così pure le cremazioni che si sarebbero tenute. Tutti portavano corone di spighe, mazzi di fiori, foglie e strisce di corteccia di bambù intrecciate a formare ghirlande elaborate ed eleganti. Un origami floreale allegro e fantasioso. A questi si aggiungevano i doni che gli abitanti del villaggio offrivano alle famiglie dei morti e anche il cibo non mancava, per lo più porchette infilate in lunghi spiedi. Dai loro strumenti di ottone che brillavano al sole alcune orchestre diffondevano senza sosta brani di gamelàn. [4] Fossimo stati in Europa avrei pensato di essere ad una sagra paesana o alla festa del patrono. Già alle dieci del mattino il caldo si faceva sentire e l’umidità dell’aria mi ricordava che Bali è un’isola tropicale. Davanti alle case dei defunti cominciarono ad apparire casse, portantine, veli e ombrelli di carta. E ancora fiori e piante ornamentali. Si cominciava a preparare il trasporto dei corpi dei defunti verso il luogo della cremazione e per la prima volta notai il bianco del lutto. Le stoffe che avvolgevano i sarcofaghi erano bianche e bianchi erano anche i vestiti di alcuni dei parenti più stretti. Quella che assomigliava ad una festa sembrò volgere ad una fase più intima e raccolta, i sorrisi si sciolsero sui visi, gli occhi si fecero assorti e profondi e spuntò qualche lacrima. E’ vero che la cremazione non è una manifestazione di lutto, tuttavia, nonostante le speranze di un buon karma, quella gente indaffarata stava deponendo nelle casse di legno i resti dei suoi cari e li preparava per il fuoco.

Da un’altra parte del villaggio alcuni lavoravano alla costruzione di strane strutture difficili da descrivere. Erano una sorta di ampie griglie costruite con canne di bambù che si incrociavano ad angolo retto. Su di esse installarono poi alcune statue di tori variopinti, realizzate con intelaiature, anch’esse di bambù, rivestite di stoffe colorate, soprattutto nere e rosse. Sui tori si era scatenata la fantasia di ignoti artisti che li avevano dipinti e decorati in modo variegato. Uno aveva le corna dorate, le narici dipinte di rosso, orecchini e pendagli attorno al collo, un altro era addobbato con una maschera che lo faceva assomigliare a un pagliaccio e portava una parrucca che gli arrivava al garrese. Quando i tori vennero fissati ognuno sopra una griglia di bambù compresi a cosa servivano le griglie. A permettere a un gruppo di persone di sollevare e trasportare le pesanti strutture dei tori.

Era quasi mezzogiorno e il sole picchiava deciso quando due cortei si mossero dal villaggio. Il primo era la colonna dei sarcofaghi avvolti nel bianco, portati a spalla dai familiari, ognuno preceduto da una grande foto del defunto. Alcuni accompagnatori avevano aperto gli ombrelli di carta e cercavano con essi di riparare i sarcofaghi dal sole. Il secondo corteo era quello dei tori, ognuno fissato su una griglia portata da una squadra di almeno venti giovani. Anche noi ci incamminammo al seguito dei cortei verso il luogo della cremazione che si trovava alla periferia del villaggio. Durante il breve tragitto ci furono sorprese. Mentre il corteo delle spoglie procedeva lentamente nel cammino, alle sue spalle il gruppo che sorreggeva la griglia del primo toro, quello rosso, scattò avanti in una breve corsa, poi si arrestò di colpo, quindi fece alcuni balzi verso destra e poi altrettanti verso sinistra. Ripeté più volte la forsennata sequenza di movimenti. Conservo il ricordo di quella specie di monumento al toro rosso sorretto da una selva di gambe umane che balzano all’unisono da una parte all’altra della strada. I portatori, all’interno dei quadri della griglia che arrivava loro alla cintura, si muovevano con sincronia e mostravano una leggerezza che l’insieme non poteva avere. Lo sforzo, infatti, era enorme, tanto che altre persone a turno davano loro il cambio con tempismo e precisione. E per fortuna sotto il sole a picco cadde all’improvviso dal cielo un'inaspettata pioggia ristoratrice. In realtà dai bordi della strada qualcuno aveva cominciato a buttare acqua con secchi e tubi di gomma. Anche gli altri tori eseguirono le stesse evoluzioni e ricevettero la loro razione d’acqua. Lo sforzo non era stato inutile, perché la faticosa danza, quel procedere a corse e balzi erano serviti a far dimenticare al defunto la via di casa oltre che a confondere e allontanare gli spiriti malvagi che fossero nei dintorni.

Il luogo della cremazione, a vederlo da lontano, sembrava un’oasi di freschezza, un tappeto d’erba sotto un tetto di palme. Il verde non mancava ma la freschezza sì, perché anche all’ombra il caldo e l’umidità non davano tregua. Nel campo era già pronta una pira per ogni toro, ombreggiata da un telo bianco sorretto da quattro canne di bambù fissate agli angoli della pira. Il loro numero mi confermò che i morti destinati alla cremazione quel giorno erano più di dieci. Ogni famiglia si diresse accanto alla pira a lei destinata e cominciò il rituale della deposizione del toro su di essa e poi del sarcofago nel ventre del toro. Le operazioni furono abbastanza lunghe perché nel frattempo venivano aggiunte altre stoffe, altri doni e oggetti che avrebbero accompagnato i morti nel viaggio estremo. Erano gli ultimi gesti che si potevano compiere per loro e forse per questo mi sembravano più lenti del necessario, solenni e consapevoli della loro fatalità. Molti aggiunsero altra legna sotto le pire perché il fuoco non fosse esiguo o incerto nell’opera finale.

Fu chiaro che l’incendio sarebbe stato contemporaneo su tutte le pire. Le famiglie che avevano terminato attendevano infatti che anche le altre completassero la preparazione, mentre cominciarono ad apparire le fiaccole accese. Aumentarono le lacrime sui volti dei parenti. Quando tutto fu pronto ci fu un attimo di attesa, carico di una tensione vibrante e palpabile, dedicato agli ultimi saluti che i vivi, a capo chino, rivolgevano ai morti. Fu come se il mondo trattenesse il respiro. Infine le fiaccole appiccarono il fuoco.

L’afa non tormentava solo gli uomini, ma osteggiava anche le fiamme, perché la legna, molto umida, non bruciava facilmente. Dalle pire si alzava un fumo nero e denso che in assenza di vento ristagnava immobile nell’aria rendendola ancora più greve, quasi irrespirabile. Il caldo, l’umidità, il fumo cominciavano a mettere alla prova la mia resistenza di spettatore, anche psicologica, soprattutto quando vedevo alcune famiglie che alimentavano i roghi in difficoltà con fiamme sprigionate da bombole a gas. O quando ne vedevo altre che con lunghe pertiche di bambù attizzavano il fuoco, come se fossero davanti ad un caminetto. Le fiamme procedevano con fatica nella loro opera e bruciavano ovviamente prima le cose più facili da ardere, come i veli e i drappi che coprivano le casse e avvolgevano i tori. E questo rendeva la scena ancora più angosciante, perché mi costringeva ad osservare i profili dei corpi che bruciavano e lo facevano con una tale lentezza che mi sembrava volessero resistere alle fiamme e che ancora non fossero pronti ad andarsene. Per me era come se morissero una seconda volta, anche se ero consapevole che, grazie ai roghi, i parenti si liberavano solo di corpi inutili e corruttibili.

Sembrava che l’incendio delle pire fosse stato l’ultimo momento di commozione e di dolore. Rimaneva solo qualcuno a presidiare e ad aiutare il fuoco a completare il lavoro purificatore, intanto gli altri si dedicarono serenamente ai picnic. Nell’indifferenza dei più, i tori crollarono uno dopo l’altro quando alla fine le fiamme ebbero ragione di loro. Cedettero al fuoco che divorò a poco a poco le decorazioni, i lustrini, le collane e le parrucche che li ornavano. Le fiamme non erano ancora spente quando la gente cominciò ad accalcarsi attorno a quello che rimaneva delle pire per recuperare i resti dei morti. Osservavo con ansia la calca delle persone che tentavano di raccogliere le reliquie ancora roventi. Alcuni si aiutavano con gli attrezzi più disparati o indossavano ruvidi guanti da lavoro, ma altri procedevano a mani nude, si scottavano e si soffiavano sulle dita. Alla fine ogni famiglia portò via una ciotola con quello che rimaneva del congiunto. Dentro, distinguevo con chiarezza ossa ed altri resti.

Il rituale vuole che alla fine della giornata un ultimo corteo porti i resti dei morti al mare o ad un fiume e li consegni all’acqua, mentre tutti si bagnano in un rito di purificazione. Non so se questo sia avvenuto, perché noi, provati dalla fatica, decidemmo nel pomeriggio di rientrare a Ubud. Penso però che non aver assistito al rito conclusivo sia stato un errore, perché non completò la cerimonia e non mi consentì di sciogliere con serenità la tensione accumulata durante il giorno.

“Macabro” pensai più volte in quella giornata, con la consueta arroganza dell’occidentale che giudica e poco o nulla conosce. Eppure non fu meno macabro, solo qualche mese prima, assistere alla chiusura del corpo di mia madre in una cassa di legno, poi murata in un buio e gelido loculo. Almeno a Bali quei corpi se ne erano andati in una giornata di splendido sole. Invece il corpo di mia madre è ancora là, occultato al cimitero. Inutilmente.

Dintorni di Ubud, Bali, Indonesia, agosto 1998


[1] Antica capitale dell’isola di Bali

[2] Suharto fu un politico indonesiano che prese il potere nel 1965 con un colpo di Stato e venne costretto a ritirarsi dalla vita politica nel 1988.

[3]  Il sarong è un largo pezzo di cotone o seta, drappeggiato intorno alla vita e indossato come una gonna da uomini e donne in molte zone dell'Asia del sud e dell'Est.

[4] Il gamelan è un'orchestra di strumenti musicali di origine indonesiana che comprende metalllofoni, xilofoni, tamburi e gong; può comprendere anche flauti di bambù, strumenti a corda e la voce. Tradizionalmente il termine gamelan è usato in riferimento più al gruppo di strumenti che lo formano, che ai suonatori degli stessi strumenti o alla musica

 

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