(Tratto dal mio libro: IL GATTO BUDDHISTA)
(per concessione dell'editore POLARIS)Giunto di fronte alla penisola Calcidica, il re Serse fermò esercito e flotta e si mise a pensare. Era il sovrano di un impero immenso che andava dal mar Egeo all’India e non poteva tollerare che quelle piccole e presuntuose città della Grecia, a cominciare da Atene, litigiose e sempre in lotta tra loro, rimanessero impunite per l’affronto fatto ai Persiani alcuni anni prima. Erano, infatti, accorse in aiuto delle colonie ioniche che si erano ribellate al potere di suo padre Ciro, il re dei re. Oltre alla punizione, Serse vagheggiava anche di espandere il suo potere sul Peloponneso e su tutta la Grecia e là, forse, si sarebbe spalancata davanti a lui la possibilità di conquistare le colonie greche dell’Italia meridionale e della Sicilia. Un progetto ambizioso. La strategia era chiara, eppure Serse indugiava.
La penisola Calcidica è una propaggine che si stacca dalla costa nord della Grecia e si spinge nel mare Egeo verso sud, simile a una mano d’uomo con tre sole dita. Il dito più a oriente, il più aspro, è il promontorio di Monte Athos. Non è pericoloso come capo Horn, ma Serse ricordava bene che dodici anni prima [1] la flotta del grande Ciro, mentre puntava verso la Grecia ai tempi della prima guerra persiana, era andata distrutta in una tempesta proprio al largo di Monte Athos. Per questo indugiava e cercava un’altra possibilità per non incappare nella medesima disgrazia e la trovò. Impiegò l’esercito nello scavo di un canale che separasse il promontorio dal continente, per far passare le navi oltre il Monte Athos senza affrontare il mare aperto e senza correre rischi. E la penisola di Monte Athos divenne un’isola. Nei secoli a seguire l’isola tornò a essere penisola, perché il canale finì interrato e scomparve dalla faccia della terra e dalla memoria della gente.[2]
Uranopoli è l’ultima cittadina che s’incontra, oltrepassato il canale
scomparso, andando verso la Repubblica monastica del Monte Athos.[3]
Là giunti scoprimmo che serviva un natante per raggiungere il Monte e per
sbarcare a Dafni, il piccolo porto che è il punto di arrivo obbligato per tutti
i viaggiatori che si recano sulla Montagna Santa. Perché non c'erano strade
alternative e l’unico mezzo di trasporto possibile era la barca.
Dato che l’accesso al Monte è proibito alle donne, a Uranopoli il nostro
gruppo si divise per genere, Stefano ed io ci imbarcammo per Dafni, Laura e
Sandra si fermarono a Uranopoli in attesa del nostro ritorno. Ci furono
controlli alla partenza per verificare che a bordo non ci fossero femmine - sembra
che il divieto valga anche per gli animali - controlli che furono ripetuti
anche allo sbarco a Dafni.
Durante la navigazione ebbi modo di osservare gli aspri fianchi della
penisola, coperti da una vegetazione molto più rigogliosa e verde di quella
incontrata i giorni precedenti nelle regioni circostanti. Segno che su Monte
Athos piove parecchio e, infatti, in lontananza la montagna appariva alta e
severa, con la cima avvolta da nubi insolitamente minacciose per essere agosto.
Si poteva capire come lo scenario avesse tanto preoccupato Serse da spingerlo a
ordinare lo scavo del canale. Per me, invece, più delle nuvole addensate
attorno alla cima del Monte, erano preoccupanti i fianchi scoscesi del
promontorio sui quali sapevo che si arrampicavano i sentieri che avremmo
percorso per raggiungere i monasteri. Sarebbe stato faticoso.
Viaggiando verso Dafni costeggiammo i primi tre dei venti monasteri
principali della penisola e dalla barca ottenni una prima visione d’insieme
della struttura di un monastero di Monte Athos. Prima Dochiarìou, poi
Xenofòntos e infine San Pantelèimonos mi apparvero come piccoli villaggi fortificati
e di solito una torre di guardia, eretta al fine di allargare la vista sui
dintorni, si innalzava nel punto più alto del monastero. Anche questa a scopo
difensivo. Infatti, nonostante siano stati fin dalla fondazione luoghi di
meditazione, di cultura e di preghiera, la loro architettura - quasi militare -
mostra che hanno dovuto sopportare nei secoli aggressioni e distruzioni, anche
se hanno sempre goduto della protezione di qualche stato dell’Europa orientale.
Ma, come sappiamo, i poteri temporali si formano e si sgretolano e così anche i
monasteri nei secoli hanno seguito la sorte dei loro protettori ed hanno spesso
avuto la necessità di difendersi. A volte senza riuscirci.
Sbarcati a Dafni, un pullman ci prese in consegna e ci condusse sulle
montagne al centro della penisola, a Karye, la piccola capitale dello
stato. Qui hanno sede le istituzioni della repubblica monastica oltre a qualche
servizio pubblico e qui ricevemmo il Diamonitìrion,
il permesso per spostarci tra i monasteri di Monte Athos per quattro giorni. Il
tempo di prepararci e lasciammo Karye diretti a sud, verso il Grande Lavra. Da quel momento eravamo
pellegrini e quindi viaggiavamo a piedi, come tutti.
Prima dell’arrivo a Monte Athos
la nostra permanenza in Grecia era trascorsa tra sole, mare e archeologia, una
vacanza insomma. Anche i brevi viaggi della mattinata, quello in barca e quello
in corriera, potevano far parte della vacanza, come anche camminare da un
monastero all’altro. Che c’era di diverso? Arrivati a Karye, invece, mi resi
conto che il contesto era mutato, non ero più in vacanza. Mi trovavo in un
altro ambiente, la vacanza era sospesa. L’atmosfera era più sobria e composta.
Andavo incontro a un mondo semplice e lento, protetto e isolato dal mare e dalla
sottile striscia di terra che Serse un tempo aveva reciso. Sentivo intorno a me
pacatezza e calma, a cominciare dalle parole del monaco che ci aveva rilasciato
il Diamonitìrion, per arrivare ai
passi lenti e misurati dei religiosi che camminavano lungo le strade della
cittadina. Tutto ciò che mi circondava m’invitava alla concentrazione e mi
prometteva un’esperienza alla quale, per la prima volta, temetti di non essere
preparato. Perché a quel tempo di Monte Athos conoscevo solo l’ovvio e il
banale, oltre a ciò che ero riuscito a capire di fronte ai monasteri di
Meteora,[4]
appollaiati su rocce scolpite dall’erosione, e a qualche monaco dalla folta
barba incontrato sulle strade della Grecia. Nel lasciare Karye mi portai dietro
questa incertezza.
La giornata, mite e soleggiata,
era l’ideale per camminare, la strada non era tanto faticosa e ci lasciava il
tempo di ammirare il mare azzurro che di tanto in tanto spuntava tra i pini che
avevamo intorno. In poco tempo arrivammo a Ìviron che sorge sulla costa
orientale, quasi in riva al mare. Giusto un’occhiata per scoprire la sua forma
a quadrilatero, con gli edifici addossati alle mura e disposti intorno al
cortile centrale. Uno dei monasteri forse meno conosciuti, ma in possesso di
una biblioteca tra le più importanti di Monte Athos. Un monastero idiorrìtmico, scoprimmo, ma al momento
non sapevamo cosa questo significasse. Anche gli studi fatti al liceo non ci
furono di aiuto: idiorrìtmico, da idios (proprio, privato) e rythmòs (regola, ordine): che
significava? Dopo poco tempo lasciammo il monastero diretti al Grande Lavra,
ancora lontano.
Camminammo per diverse ore,
sempre accompagnati dalla vista del mare, finché non giungemmo davanti all’entrata
del grande monastero, il più antico dei monasteri della Montagna Santa, il più
importante. Superato l’ingresso raggiungemmo il cortile, anch’esso circondato
da mura. Secondo la tradizione i due cipressi altissimi che si stagliavano nel
cielo furono piantati mille anni prima da Sant'Atanasio, il fondatore del
monastero.
Un monaco ci accolse, controllò
la regolarità del nostro Diamonitìrion
e ci accompagnò nel dormitorio, una camerata da condividere con altri
pellegrini, pochi per la verità. Oggi pare che occorra prenotare per essere
certi di trovare posto nelle foresterie dei monasteri e che solo una parte
delle richieste possa essere esaudita. Allora il problema dell’alloggio non
esisteva e i pochi pellegrini che arrivavano trovavano sempre da dormire.
Dopo che ci fu assegnato un
letto, fummo lasciati soli. Giusto. Chi va nei monasteri di Monte Athos deve
conoscere il motivo che lo spinge ed avere coscienza di ciò che desidera o di
cui ha bisogno. Nessuno ci suggeriva o ci proponeva qualcosa da fare o visite
da compiere, avremmo potuto rimanere in attesa di qualche evento fino alla
scadenza del Diamonitìrion.
Poi ci rendemmo conto che nessuno
ci aveva obbligato a recarci sulla Montagna Santa, avevamo deciso noi di andare
e questo ci costringeva a manifestare, soprattutto a noi stessi, le nostre
intenzioni. Con una certezza: a Monte Athos potevamo scordarci di essere
turisti o semplici camminatori. Per quanto potessimo essere poco preparati alla
dimensione mistica e ascetica del luogo, non ci sarebbe stato possibile
sfuggire all’attrazione che emanava. Impossibile rimanere estranei e non essere
contagiati. Alla fine manifestammo i nostri desideri e quando lo facemmo sembrò
che l’intero monastero si mettesse a nostra disposizione. Da dove cominciare?
Cominciammo dalla biblioteca e un
monaco ci condusse nella visita. Mi aspettavo qualcosa di grande, tuttavia mai
avrei potuto immaginare un ambiente simile e simili contenuti. Trentamila libri
stampati, quasi duecento codici[5] e più
di duemila manoscritti. Alcuni di questi erano aperti sui leggii e mostravano
miniature fantastiche di immagini sacre, santi, soggetti floreali.
Quelle che apparivano all’inizio
della prima riga di alcune pagine ricordavano tortuosi labirinti o intrecci di
rami e fiori, ma erano semplici lettere dell’alfabeto. Si può rimanere affascinati
da una ‘B’ o una ‘M’ o da una lettera greca che nel nostro alfabeto non c’è?
Posso testimoniare che si può. Per i nostri occhi stupefatti il monaco sfogliava
pagine di botanica, vangeli, liturgie sacre, testi filosofici e letterari. Alcuni
manoscritti erano troppo preziosi e delicati per essere maneggiati per noi e rimasero
dentro alle teche di protezione. Eravamo circondati da centinaia di volumi di
cui potevo scorgere solo i dorsi, mortificato dal rammarico di non poterli
sfogliare ad uno ad uno. Invidiai i
monaci ai quali era riservato questo privilegio.
Verso sera ci recammo in chiesa per i Vespri.[6] Fu
per me una funzione criptica per via della lingua sconosciuta e della diversità
dei riti a cui stavo assistendo, ma questo limite, se non mi permetteva di
seguire con cognizione, mi lasciava più tempo per ammirare lo splendore della
chiesa.
Mi sembrava che dall’alto dell’abside Cristo Pantocrator[7] mi
guardasse con occhi indulgenti e uno sguardo di commiserazione per la mia
inadeguatezza al luogo e che il libro aperto che teneva nella mano mi invitasse
ad emendare l'ignoranza di cui avevo dovuto prendere atto in biblioteca. Ma mi
consolava la bellezza dei tesori che avevo intorno. Secoli di storia e di
opulenza avevano arricchito la chiesa di molte opere d’arte preziose, a
cominciare dalle icone. E poi c’erano candelabri e lampadari in oro e paramenti
sacri confezionati con stoffe preziosamente ricamate e all’apparenza molto
pesanti.
Finita la funzione ci
incamminammo verso il refettorio per la cena. Un po’ presto per le nostre abitudini,
ma nei monasteri di Monte Athos la vita di studio e di preghiera è scandita da
ritmi diversi dai nostri ed occupa anche molta parte della notte. Per questo le
attività e i pasti si susseguono nella giornata con cadenze orarie inconsuete
per i laici.
La cena la consumammo insieme con
i religiosi, mentre un monaco leggeva brani delle Sacre Scritture. Il cibo
distrae dalla concentrazione e quindi il tempo dedicato alla cena fu esiguo,
meno di mezz’ora, e anche la quantità non fu abbondante. Mi trovai ancora
impegnato nello sforzo di godere dell’esperienza che stavo vivendo senza capire
la lingua.
Finita la cena, il sole non era
ancora tramontato e i monaci tornarono alle loro mansioni, mentre noi ci
trasferimmo nel cortile del monastero ad aspettare il tramonto.
Seduti sotto il cipresso
millenario, mentre aspettavamo l’ora di andare a dormire, mi misi a osservare il
piccolo mondo che mi circondava, fondato e mantenuto nei secoli per la gloria
di Dio: il cortile, gli edifici, la chiesa, la porta e le mura. Un mondo che
non mi appariva molto diverso da quello dei paesini delle nostre montagne che
risentono dell’abbandono degli abitanti, con qualche casa lasciata andare e qualche
altra che avrebbe bisogno di un po’ di cure. Come questi anche il Grande Lavra
sembrava troppo vasto per i monaci che l’abitavano ed era evidente che il
monastero in passato ne aveva ospitato un numero ben superiore e quasi tutti
gli edifici, compresa la chiesa, reclamavano po’ di manutenzione.
Il sole si nascose dietro al Monte
Athos, ma prima di scomparire, imporporò le cime dei vecchi cipressi. Fu un
attimo, poi anche queste si spensero e in cambio cominciarono ad accendersi le
luci negli edifici e nella chiesa. Nella penombra del cortile le ombre fugaci
dei monaci scivolavano via lentamente, sole o in piccoli gruppi, in silenzio o
conversando. Una visione che infondeva serenità, anche se ero quasi intimorito
al cospetto delle mura del Grande Lavra, erette a difesa della Chiesa e della
fede. Molti anni dopo a Ponferrada, lungo il cammino di Santiago di Compostela,
di fronte al possente castello dei Templari, i monaci guerrieri, avrei
ricordato il Grande Lavra.
Dopo la lunga camminata i nostri
corpi reclamarono un po’ di riposo e andammo a dormire. Nulla e nessuno
disturbò il nostro sonno fino all’alba, perché anche il Grande Lavra é un
monastero idiorrìtmico.
Il mattino seguente lo stesso
monaco che ci aveva accolti ci accompagnò alla porta del monastero, ci
benedisse con un ampio sorriso ed il segno della Croce disegnato nell’aria di
fronte ai nostri occhi e ci augurò buona fortuna per il viaggio. Notai che era
molto vecchio.
La camminata di quel giorno fu la
più lunga e faticosa dell’intero pellegrinaggio, dal Grande Lavra ad est fino
al monastero di Simonas Petras a ovest della montagna. Il sentiero scavato sui
fianchi scoscesi del Monte Athos era tutto salite e discese, solo in parte
addolcite dal profumo dei pini che ci accompagnò per tutta la giornata. Anche
il sole ci fu amico, splendente fin dal primo mattino e le nuvole scure che il
giorno prima si ammassavano attorno alla cima della montagna, per fortuna si
erano dissolte nella notte.
Il sentiero che collega i due monasteri è il più remoto di tutti ed
allora era anche il meno battuto, e, a quel che ricordo, privo di qualsiasi
segnalazione. Per questo qualche incertezza sul percorso aggiunse un po’ di
inquietudine al cammino. In realtà non c’erano reali pericoli di perdersi,
bastava mantenere il mare a sinistra e la montagna a destra per essere sicuri
della direzione da seguire. Ma anche il più piccolo errore di percorso che ci
avesse costretto ad un giretto inutile o ad allungare un po’ il cammino in quel
sali-scendi continuo, andava evitato con grande attenzione o rischiavamo di non
arrivare al monastero prima di sera.
A metà del pomeriggio,
consultando la carta geografica della penisola, pensammo di essere quasi
arrivati. Errore. Sulla cartina non erano riportate le altimetrie. Sollevando
gli occhi al cielo riuscimmo a scorgerlo, il monastero, sopra di noi, appeso
alle nuvole, appollaiato su uno sperone di roccia che ci sembrò altissimo.
Simonas Petras, la roccia di Simone,
dove il monaco Simone ebbe l’ardita idea di costruire un monastero, avendo
visto, la notte di Natale, una stella ferma su quella roccia a strapiombo sul
mare. Diverse centinaia di metri in verticale sopra le nostre teste.
Dopo tanto camminare ricordo la
salita al monastero – in realtà un’unica, interminabile scalinata - come una
penitenza. Se mai avevo commesso peccati gravi prima di allora, nella scalata a
Simonas Petras sono sicuro si averli espiati tutti. E non bastò a consolarmi la
vista dell’Egeo che si allargava, sempre più maestosa, mentre salivamo
faticosamente gradino dopo gradino. E nemmeno quella delle vigne che crescevano
rigogliose sulle terrazze ai lati degli ultimi tornanti del sentiero.
La gioia per essere finalmente arrivati
- una vera e propria conquista - ricompensò la fatica sopportata per arrivarci,
perché da lassù la vista era davvero fantastica. Più degli altri monasteri
Simonas Petras sembrava una fortezza. Costruito, distrutto, ricostruito,
incendiato, ricostruito ancora, sempre nello stesso luogo e con lo stesso
stile, con i ballatoi e i porticati
sporgenti sul vuoto. Sconsigliati a chi
soffra di vertigini.
Purtroppo Simonas Petras, oltre
alla inarrivabile posizione, non aveva molto da proporre, perché nei secoli
distruzioni e incendi hanno lasciato tracce evidenti e gli edifici originali
sono andati perduti. Nel 1891 l’ultimo incendio distrusse addirittura l’intera
biblioteca.
La fatica per la lunga camminata
aveva forse fatto scemare in me la tensione per la Montagna Santa, forse ero
appagato dall’esperienza unica vissuta al Grande Lavra, forse la bellezza più sobria
di Simonas Petras stemperò un poco l’emozione della visita. Anche là
incontrammo i monaci, visitammo la chiesa e consumammo i pasti con loro,
accompagnati ancora dalle parole delle Sacre Scritture. Ma il ricordo più
nitido che mi rimane di Simonas Petras fu la visita al piccolo cimitero che
custodiva la pace di monaci morti quasi tutti a più di novant’anni.
A Simonas Petras andammo a
dormire quando il sole non era ancora tramontato. Eravamo distrutti dalla
stanchezza e il giorno dopo ci aspettava un’altra lunga camminata che ci
avrebbe riportato a Karye e alla fine del pellegrinaggio.
Ma il riposo a Simonas Petras non fu sereno come al Grande
Lavra, perché in piena notte, verso l’una o le due, fummo svegliati di
soprassalto da un rumore sordo e fastidioso. Un monaco stava chiamando i
confratelli battendo ritmicamente con un martello un asse di legno chiamato simàndron, come ho scoperto in seguito.
Non avrei mai immaginato che un martelletto picchiato su un’asse di legno
potesse fare tanto rumore. Vero: i tempi dei monaci non erano i nostri. Quel
suono era il richiamo per la comunità a dedicarsi alla preghiera notturna.
Anche noi eravamo invitati, ma in silenzio e senza consultarci, declinammo
istintivamente l’invito.
I colpi ritmati e insistenti significavano anche che
eravamo in un monastero cenobìtico e
non idiorrìtmico come il Grande Lavra
o Ìviron. In quel momento, con gli occhi sbarrati nel buio della notte, gli
studi classici ci vennero finalmente in aiuto e scoprimmo la differenza. Cenobìtico: dal latino cenòbium che a sua volta deriva dal
greco koinòs (comune) e bìos (vita). Vita in comune. Già!
Bastava rendersene conto prima e magari farsi accogliere per la notte in un
altro monastero idiorrìtmico. Ma
Simonas Petras è un monastero cenobìtico,
dove i tempi e i ritmi sono scanditi dal simàndron, di giorno e di notte, come
constatammo di nuovo prima dell’alba.
Anche quando il
mattino seguente lasciammo il monastero, incamminandoci sul sentiero che ci
avrebbe ricondotti a Karye, il richiamo del simàndron
ci ricordava una nuova scadenza nel ritmo di vita e di preghiera dei monaci di
Simonas Petras.
[1] Accadde nell’anno 480 a.C.
[2] A proposito
del canale di Serse si dubitò anche
della credibilità di Erodoto, che l’aveva descritto nelle sue opere, fino a
quando negli anni ’90 del secolo scorso prospezioni geologiche e immagini
satellitari dimostrarono che era esistito davvero e non era stato un’invenzione
del grande storico greco.
[3] La Repubblica monastica del Monte Athos è un territorio autonomo nella Repubblica Greca
dotato di uno statuto speciale di autogoverno.
[4] Meteora è
sede di uno dei principali raggruppamenti di monasteri della Grecia, secondo
solo a quello del Monte Athos. Vi furono
edificati, in cima a falesie di arenaria, più di venti
monasteri in parte ancora abitati. (Wikipedia)
[5] Un codice
è un manoscritto antico di più carte riunite a libro. (Devoto-Oli)
[6] I vespri
o vesperi sono la preghiera del tramonto, una
delle maggiori ore canoniche della Chiesa. (Wikipedia)
[7] Il Cristo
Pantocratore (dal greco pantocrator, "sovrano di tutte le
cose") è una raffigurazione di Gesù tipica dell' arte bizantina ed in genere paleocristiana e medioevale,
soprattutto presente nei mosaici e affreschi absidali. Egli è ritratto in atteggiamento maestoso e severo,
seduto su un trono, nell'atto di benedire con le tre dita della mano destra, secondo l'uso ortodosso.
(Wikipedia)
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