(per concessione dell'editore POLARIS)
Un gioiello, un vero gioiello. Ecco
cosa pensavo di Trinidad mentre passeggiavo per le sue strade acciottolate. Avevamo
trascorso la giornata a camminare tra le case basse con i cancelli di ferro
verniciati di fresco, a visitare musei, non molto importanti in verità, ma parte
irrinunciabile dell’ambiente caldo e rilassato della città. Eravamo passati da
un bar a una piazza, da un negozio ad un patio
fresco e ombreggiato. La Plaza Mayor
sembrava finta, quasi un set cinematografico
per film ambientati nel ’600, con la chiesa parrocchiale della Santissima
Trinità e i palazzi barocchi che le fanno da cornice. Qualche fantastica Buick e
Cadillac degli anni ’50 circolava lentamente per le strade del centro,
sfoggiando ancora i colori originali.
Con poca fatica Trinidad si può
ammirare anche dall’alto. Basta incamminarsi per la calle Simòn Bolìvar che porta alla Ermita de Nuestra Señora de la Candelaria de la Popa, a nord della
città. Un nome che da solo vale la camminata. La chiesa, che pure ha una storia
gloriosa ed è la più antica della città, allora era poco più di una rovina.
Costruita nel diciassettesimo secolo, faceva parte di un antico ospedale
spagnolo, ma di fronte a me rimaneva solo la facciata barocca e qualche muro
sbrecciato. Tutto il resto erano macerie o poco di più. Il luogo aveva un
fascino austero, emanato dalle rovine silenziose che la luce del tramonto
incendiava di rosso e da un vento teso che arrivava dalle montagne. Ai miei
piedi si estendeva la città con le antiche vie e i palazzi storici. E oltre, in
lontananza, la pianura raggiungeva il mare e terminava con una spiaggia bianca
che si perdeva a est e a ovest.
Eravamo in pochi quella sera
sulla collina, qualche viaggiatore che come noi era venuto a godersi il
panorama e una decina di ragazzini di dieci o dodici anni che lanciavano in
cielo i loro aquiloni. Era il posto ideale per questo gioco. I ragazzi si
mettevano al bordo del piazzale, proprio dove iniziava il declivio della
collina. Per lanciare gli aquiloni non avevano nemmeno bisogno di correre,
potevano rimanere immobili, tenderli verso il cielo, lasciarli andare con un
gesto veloce e trattenere il filo. Il vento li catturava e i ragazzi cominciavano
a rilasciare il filo. Gli aquiloni lentamente si alzavano fino a diventare
puntini nel cielo e con il sole del tramonto negli occhi si faticava a scorgerli.
Capelli neri e carnagione scura, i ragazzi erano come io mi ero immaginato Amir
e Hassan, i Cacciatori di aquiloni. Ma
le somiglianze finivano qui. Nel romanzo di Hosseini gli aquiloni di Amir e dei
suoi amici sono belli, colorati e tecnicamente perfetti, possono volare con
eleganza e attaccare i concorrenti e abbatterli, se il manovratore a terra è
bravo. Quando invece i ragazzi di Trinidad li recuperavano, i loro aquiloni mi
apparivano meno che artigianali, costruiti con materiali di risulta,
soprattutto fogli di plastica. Come i miei.
Avete mai fatto volare un
aquilone? Da bambini, intendo, non da adulti.
Chi non l’ha fatto si é privato di una delle emozioni più profonde che
un bambino possa provare. Non parlo degli aquiloni che nelle giornate di vento
volteggiano sulle spiagge, legati e trattenuti da tanti fili che li costringono
alle acrobazie volute dai manovratori. Quelli non sono aquiloni, sono
pagliacci. Ubbidienti e tristi, anche se colorati, come uccelli in gabbia o
animali al circo. Parlo degli aquiloni che non si possono controllare perché
tenuti da un solo filo. Il vento li solleva, li fa volteggiare e sceglie per
noi la loro direzione. Si può riavvolgere il filo e recuperarli, come si può accorciare
il guinzaglio a un cane, ma non si possono costringere all’ubbidienza. Farli volare
è un atto di fiducia e di amore perché é il vento che decide il loro destino. E
il vento talvolta li rifiuta, nonostante gli sforzi fatti per lanciarli in
cielo, oppure li accetta ma non li restituisce e li trascina lontano.
Quando ero bambino non era facile
far volare un aquilone. Non era quasi mai come quel giorno a Trinidad. Nei miei
ricordi d’infanzia ritrovo poche giornate di vento adatto, ma in quelle
giornate speciali anche una breve corsa bastava per far volare l’aquilone. E io
lo seguivo con lo sguardo, lo vedevo impennarsi di qua e di là e precipitare
per poi riprendere il volo, fino a trovare l’equilibrio che lo manteneva in
cielo. Erano questi i momenti più delicati e rischiosi. Era come se l’aquilone
volesse liberarsi del legame, come un animale cerca di sfuggire alla trappola
in un disperato anelito di libertà. Giovanni Pascoli in una famosa poesia[2]
descrive con verbi incalzanti e pertinenti i primi istanti di un volo rischioso:
“ondeggia”, “pencola”, “urta”, “sbalza”, “risale.” Trascorsi questi primi,
incerti momenti, era come se l’aquilone accettasse la nuova libertà
condizionata. Assieme al vento poteva andare dove voleva, ma ero io a decidere
la distanza. “Prende il vento …”, dice ancora il poeta. Finalmente la calma, la
pace. Non ho mai amato la sua poesia, ma devo ammettere che di aquiloni se ne
intendeva.
Tutto quello che sapevo sugli
aquiloni, l’avevo imparato da Giorgio, un amico un po’ più grande di me.
Durante gli anni della nostra amicizia ne costruimmo molti. Due leggere verghe
di vimini, fissate a croce tra di loro, formavano l’intelaiatura, tenuta ai
quattro vertici da un filo e rivestita da un foglio di robusta carta colorata.
Tutto era artigianale, dalla carta recuperata dai sacchi di mangime alla colla
ottenuta con un impasto di farina e aceto. Le maggiori difficoltà nella
costruzione stavano nella progettazione della coda e dell’attacco del filo di
pilotaggio, dettagli determinanti per l’assetto in volo dell’aquilone. Come
quelli di Trinidad non erano perfetti, ma volavano.
Un giorno di primavera Giorgio mi
confidò che a novembre la sua famiglia si sarebbe trasferita altrove e senza
aggiungere altro ci rendemmo conto che la stagione degli aquiloni era finita,
almeno per me, perché il vero costruttore dei nostri aquiloni era lui. Come ogni
primavera, ne costruimmo uno nuovo, coscienti che sarebbe stato l’ultimo. E
proprio per questo ci adoperammo perché fosse il più bello ed il più grande di
sempre. Rosso, con una coda di quasi tre metri. Era abbastanza pesante e per
lanciarlo dovemmo aspettare una giornata molto ventosa. Quando finalmente
arrivò il giorno adatto, ci preparammo al lancio. Giorgio si lanciò in una
corsa contro il vento con l’aquilone in una mano e l’asticella alla quale era avvolto
il filo nell’altra, come aveva sempre fatto, ma non riuscì a farlo decollare.
Riprovò un’altra volta e un’altra ancora, senza successo.
“Perché non vola, secondo te?”
gli chiesi mentre osservava, ansimando, ora l’aquilone ora il filo, in cerca di
una spiegazione.
“Forse la coda è troppo lunga,
pesa troppo” rispose e così dicendo strappò un pezzo di coda e ritentò il
lancio.
Aveva ragione. Dopo una breve
corsa l’aquilone si impennò e sfruttando il vento forte iniziò a salire.
Gli occhi puntati al cielo, Giorgio
con destrezza rilasciava lentamente il filo, poi lo tratteneva per stabilizzare
l’aquilone, quindi lo rilasciava di nuovo. Dopo un po’ non ci fu più filo da
svolgere. L’aquilone era molto piccolo lassù, un puntino rosso, immobile.
Padrone della situazione, l’amico mi porse l’asticella del filo e passai io al
comando, il che richiedeva solo di ammirare la nostra creatura senza lasciarsela
sfuggire.
Con l’asticella ben salda tra le
mani scrutavo l’aquilone e cercavo di scorgere il filo che partiva dal cielo
per arrivare sulla punta delle mie dita. Ma anche quella volta, come a
Trinidad, ero contro sole e non ci riuscivo. Senza la vista della sottile
catena l’aquilone sembrava libero e immobile per sua volontà. Mi voltai verso Giorgio
e vidi che anche lui guardava in alto, assorto e sorridente.
Fu una brutta sorpresa quando l’aquilone
decise di andarsene. Tic. Avvertii una leggera vibrazione sulla punta delle
dita, la tensione sul filo svanì d’incanto e vidi l’aquilone precipitare. Ancor
prima di toccare terra era scomparso. Nessuno dei due fiatò. Pensai che i
palloncini sfuggono alle mani dei bambini per volare in cielo, mentre il nostro
aquilone, sfuggito alla mia mano, dal cielo era caduto sulla terra. Ma dove?
Non poteva essere finito molto lontano, ma al contrario di Amir e Hassan non andammo
a cercarlo. Era inutile. Il nostro aquilone non avrebbe volato mai più, perché
quel giorno io e Giorgio avevamo solo tristezza nel cuore.
Sulle ali del vento, invece, gli
aquiloni dei ragazzini di Trinidad non cadevano. Troppi sorrisi e troppa gioia
li sorreggevano. Veleggiavano sul soffio di troppe speranze perché potessero cadere.
Cadere non era nel loro destino.
Cuba, dicembre 2003, gennaio 2004
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[2] Il titolo della poesia è: L’aquilone.
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