Per concessione dell'editore POLARIS
C’era da scegliere: salire all’alba o al tramonto, in ogni caso nelle condizioni di luce più belle, sole nascente o sole calante. In ore diverse della giornata sembrava quasi sconsigliato raggiungere i 2.150 metri della cima del Nemrut Dagi tra le aspre montagne dell’Anatolia orientale.
Verso sera scoprimmo inoltre che
per salire sul monte in tempo per assistere all’alba, occorreva partire da
Adyaman, la città nella quale alloggiavamo, alle due del mattino, in piena
notte. Questo ci fece propendere per la visita serale, anche perché la luce del
tramonto rende i colori più caldi in confronto a quelli dell’alba, per me troppo
azzurri e freddi.
Il giorno dopo lasciammo quindi
Adyaman nella tarda mattinata per avere il tempo di visitare, lungo la pista
che sale alla montagna, alcuni luoghi che ci avrebbero preparato all’incontro
finale. Come tutto l’altopiano della Turchia centrale, anche la regione che
avevamo intorno si presentava arida e brulla, quasi un deserto. Qualche piccolo
e poverissimo villaggio curdo e qualche campo di nomadi ci accompagnarono nel
viaggio, insieme con un’infinita serie di montagne che si perdevano
all’orizzonte.
Più salivamo e più si allargava
in lontananza, verso est, la piana dell’Eufrate. Nella valle che baluginava all’orizzonte,
il serpeggiare del fiume sembrava cercare con fatica un passaggio verso il
mare. Laggiù, lungo le sue rive, si erano sviluppate antiche civiltà, le prime
che avevo studiato a scuola. Là era nata più di quattromila anni addietro la
mia cultura occidentale, quella a cui appartengo e che a scuola mi avevano
lasciato intendere, con troppa presunzione, che fosse la più grande, se non
l’unica. Babilonia, la Grecia, Roma… mi sentivo in profonda sintonia con la
regione che si espandeva verso oriente, arida alla vista. E sentivo il
contrasto tra un glorioso passato, studiato e immaginato sui libri scuola e un
presente povero e dimesso, anche dal punto di vista geografico.
Mentre salivamo lungo i fianchi
del Nemrut Dagi, incontravamo alcune vestigia di quella storia. Una colonna di
pietra che sorreggeva un’aquila un tempo bicefala, diventata monocefala a causa
del passare del tempo. O il grande ponte di Cendere, lungo una settantina di
metri e largo sette, ornato di quattro colonne poste alle due estremità. Un
ponte troppo imponente per superare un ruscello oggi insignificante. Tutte
opere costruite a cavallo dell’inizio dell’era cristiana. Non mi sorprendevo
per la loro importanza, nelle settimane precedenti l’Asia Minore ci aveva offerto
vestigia archeologiche ancora più imponenti, da Efeso a Mileto, da Afrodisias a
Priene. Mi colpiva la loro collocazione su montagne aride, impervie e in apparenza
inospitali.
Nel pomeriggio, alla fine della
salita, raggiungemmo la meta finale, lo scopo della giornata. Arrivammo al
maestoso mausoleo funerario costruito per sé da Antioco I di Commagene, un
piccolo regno che alla fine dell’era pagana si trovò nell’infelice posizione di
cuscinetto tra l’impero romano a ovest e il regno dei Parti a est. Non resse a
lungo la duplice pressione e alla fine, dopo centocinquant’anni di incerta
indipendenza, venne assorbito da Roma seguendo l’identica sorte toccata agli
altri regni dell’Asia Minore.
Appena giunti di fronte al
mausoleo, costatammo con sollievo che il rifiuto opposto all’alzataccia antelucana
ci aveva portato alla scelta migliore, quella di arrivare al tramonto. Il sole
calante inondava di morbida luce la terrazza ovest del mausoleo. Le cime brulle
e degradanti delle montagne che avevamo attorno creavano un maestoso scenario
al monumento, unico per la sua originalità.
Il Nemrut Dagi è la montagna più
alta della regione, ma ad Antioco I non bastò.
Non vi eresse solo un mausoleo, ma modificò pure la montagna e ne alzò
la cima. Nel punto più elevato fece infatti erigere un enorme cumulo di pietre
a forma conica - centocinquanta metri di diametro e cinquanta di altezza - e
alla base del cono, rivolte a nord, a est e a ovest, tre terrazze monumentali.
Era la sfida del re all’eternità e ai venti dell’Anatolia.
Della
terrazza nord, dove un tempo confluivano le strade che portavano i pellegrini
al mausoleo, rimaneva pochissimo, ma sulle terrazze a est e a ovest si ergevano
ancora, in parte conservate, statue colossali, tra le quali quella di Antioco.
Più che a tentare di riconoscere i personaggi rappresentati, ammiravo la loro
magnificenza di custodi del riposo del re. E mi rendevo conto che per svolgere
degnamente l’onorevole ma difficile compito, i guardiani di pietra avevano dovuto
difendere innanzi tutto se stessi dalle offese del tempo. Avevano superato la
prova e, anche se un po’ malridotti, c’erano ancora. Scolpito alla base delle statue, un testo
greco riporta il desiderio di Antioco I, per loro un ordine, di essere sepolto
sul Nemrut Dagi e i riti da compiere in suo onore. Un editto regale. I riti non
erano un loro compito, ma la difesa della sepoltura del sovrano sì ed erano
ancora là di guardia a mantenere l’arduo impegno fin dal luglio del 61 o del 62
avanti Cristo. Immortali sentinelle della grandezza del Commagene, non
avrebbero mai consentito che il sonno del re fosse disturbato.
Mausoleo é un termine riduttivo
per descrivere il Nemrut Dagi, perché, forse andando oltre le sue intenzioni,
Antioco non eresse solo un monumento funerario, ma un intero pantheon dedicato a se stesso, alla sua
gloria e a quella degli dei venerati nel piccolo regno, di filiazione religiosa
sia ellenistica che persiana. Antioco I si considerava, infatti, erede della
tradizione culturale e religiosa di questi due mondi nemici e non a caso
vantava una discendenza, per la verità senza fondamento storico, sia da
Alessandro Magno per via di padre che da Dario, il grande re dei Persiani, per
via di madre. Un pantheon che sfidava
il tempo e segretamente la gloria della stessa Roma. Altrimenti perché tante
statue sulla cima del Nemrut Dagi? E perché di dimensioni tanto inusitate?
Le statue erano quasi tutte
acefale, poche avevano ancora la testa nella posizione naturale. Non mi
sembrava una condizione normale. Ho visitato molti siti archeologici nella mia
vita e non ne ricordo alcuno che lamenti un danno così diffuso e specifico: statue
quasi tutte con il capo mozzato e rotolato ai loro piedi. Come se un gigante
cattivo le avesse recise per dispetto.
La visita era una passeggiata tra
una selva di teste alte come me: uomini barbuti, volti incorniciati da eleganti
copricapo, leoni e aquile con gli occhi di pietra puntati sulle valli
circostanti. Gli antichi artisti avevano voluto infondere solennità a quegli
occhi e avevano scolpito volti severi e accigliati che sembravano chiedere
ragione della loro separazione dal corpo.
Nonostante le imponenti
dimensioni, le monumentali statue erette sulla cima di una montagna arida e
spoglia rimasero nascoste nel buio dei secoli fino alla fine dell’Ottocento, quando
furono riscoperte per caso. E dovettero aspettare fino al 1953 perché una
spedizione archeologica le facesse riemergere dall’oblio e le riconsegnasse al
mondo. La spedizione archeologica del ’53 riportò alla luce il mausoleo, ma non
risolse il problema principale.
In un sito archeologico il
ritrovamento di una tomba che si suppone ricca perché custode dei resti di un
sovrano, rivela molte informazioni sia sul defunto che sui tempi in cui visse.
Per questo la sua ricerca riveste un’importanza vitale e, per quanto possa
essere nascosta, alla fine si finisce per scoprirla. E’ successo con le
piramidi egizie e con le tombe dei Maya.
Sul Nemrut Dagi invece ciò non
avvenne nel ’53 e non è avvenuto ancora oggi. Ancora non si conosce
l’architettura interna del mausoleo, cioè non è ancora stata trovata la tomba
di Antioco I di Commagene. L’editto del re dichiara che Antioco è sepolto nella
cima della montagna, ma la posizione della tomba rimane un mistero e anche il
significato e lo scopo del mausoleo sulla cima del Nemrut Dagi non sono ancora
chiari. E credo che in questo stia il suo fascino. ‘Strano, no?’ pensavo, ‘in
fondo non abbiamo di fronte gli abissi di un oceano, ma solo un mucchio di
pietre alto centocinquanta metri.’
E mi spuntò nella mente un’idea
fantastica. E se Antioco avesse voluto organizzare per i posteri una colossale
beffa? Se la scritta che esprime la volontà del sovrano di essere sepolto lassù
fosse solo un millenario depistaggio? Se la sua tomba non fosse nascosta in
nessuna parte del mausoleo, ma in qualche altro luogo? Questo sì sarebbe stato
un modo sicuro per non farla scoprire: erigere quel magnifico e imponente
monumento e farsi seppellire altrove. Sorrisi a questa possibilità, la beffa di
Antioco I di Commagene.
La luce radente del sole al
tramonto aumentava i contrasti e faceva risaltare i particolari della piramide
di pietre, delle sculture giganti e delle teste che avevo intorno. Con la luce
del crepuscolo potevo scorgere dettagli che all’arrivo mi erano negati.
E allora, guardando con più
attenzione, i volti del re e degli dei, dei leoni e delle aquile mi apparvero
meno accigliati e severi. Anzi, mi sembrò che un leggero sorriso, appena appena
accennato, increspasse i loro volti di pietra. Di sicuro loro sapevano e
custodivano da duemila anni il fantastico segreto.
Nemrut Dagi, Turchia, agosto/settembre 1982
Nemrut Dagi, Turchia, agosto/settembre 1982
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