lunedì 10 giugno 2019

Viaggio in Iran

La porta di tutte le nazioni,
l'ingresso a Persepoli - Iran
Paese attraversato: Iran
Itinerario: Teheran, Shiraz, Persepoli, Naqsh-e Rostam, Bishapur, Firuzabad, Pasargade, Abarkuh, Yazd, Na’in, Ardestan, Esfahan, Natanz, Kashan, Teheran
Periodo: aprile-maggio 2019
Durata: 2 settimane
Ne parlo nel libro: Ci sono posti così

Un viaggio splendido in un paese che mi ha sorpreso per la sua varietà, pulizia e grande attenzione per il passato. “Vai in Iran? Non è pericoloso?” mi sentivo spesso chiedere prima di partire da chi troppo si fida dell’informazione (o propaganda?) occidentale che descrive l’Iran come paese a rischio, un “paese canaglia”, uno stato povero e represso dominato da una casta religiosa lugubre e oscurantista. “Dovreste provare a documentarvi meglio, voi occidentali” ci ripeteva la nostra guida.

NOTA DI DICEMBRE 2019: purtroppo alla fine di questo 2019 devo aggiungere che le cose in Iran non sono più tranquille come nel periodo del viaggio: manifestazioni, repressione e morti nelle piazze... Che tristezza!

Convengo che bisognerebbe dar ragione alla guida. Nelle regioni attraversate, ho trovato un paese normale, con tanti problemi, suppongo (ma chi non ne ha?), ottime strade, città pulite, siti archeologici molto ben tenuti, dove le donne portano il velo con naturalezza e disinvoltura accompagnato da jeans a vista e sono più numerose degli uomini alla guida di un parco auto abbastanza nuovo. Certo, da straniero e in un paio di settimane, non potevo nutrire alcuna speranza di rendermi conto della realtà di un paese passato da un impero di millenaria durata a un regime di matrice religiosa. Forse gli entusiasmi suscitati dal ritorno in patria di Khomeini, alla luce dei fatti, erano malriposti, ma come si fa a giudicare da qui? O da là, ma da stranieri?

La tragedia. Fortunatamente la salute non c’entra, tuttavia il colpo è stato duro. Disattenzione e troppa fretta hanno favorito il furto della mia macchina fotografica. Non in Iran, comunque, ma alla Malpensa. Oltre al danno economico non indifferente si è aggiunta la vera tragedia: nella fotocamera c’erano ancora le schede di memoria con tutte le foto del viaggio (almeno 1.500). Non aggiungo altro, solo che me ne sono rimaste meno di dieci che, caso strano, avevo scattato con il cellulare. Quasi tutte le poche che mi servono per documentare questi testi provengono da Internet e della loro qualità non posso rispondere.

I romani sconfitti. A scuola abbiamo studiato la storia della nostra civiltà cominciando dalla Mesopotamia e l’Egitto per arrivare alla Grecia, quindi a Roma e avanti nei secoli. In questo percorso standard la retorica e l’eurocentrismo, che da sempre segnano la nostra cultura, ci hanno spinto a credere che i greci prima e i romani poi fossero gli unici portatori di civiltà e quindi destinati storicamente a governare il mondo allora conosciuto e, per questo, destinati alla vittoria. E che quando vennero a contatto con popoli lontani (gli Achemenidi per i greci, i Sassanidi per i romani, in entrambi i casi comunque persiani), o “barbari” come li chiamavano, fossero destinati a sconfiggerli per diritto storico e in nome di una superiorità da non mettere in discussione.
Ma, ovviamente, dipende dai punti di vista: a Londra c’è la stazione di Waterloo (perché a Waterloo gli inglesi vinsero), a Parigi c’è la stazione di Austerlitz, perché qui vinsero i francesi. Il viceversa non è mai dato.
I greci subirono sconfitte dai persiani, ma l’epopea classica greca esaltò la rivincita e la successiva, definitiva sconfitta di questi ultimi. I romani e i persiani per sette secoli si combatterono lungo l’Eufrate con alterne vicende, normali vicende storiche.


L'imperatore romano Valeriano, sconfitto e supplice, ai piedi dell'imperatore persiano Shapur, Naqsh-e Rostam, Iran

Ma quello che mi colpiva profondamente, perché non avevo mai visto i romani immortalati nella cruda evidenza della sconfitta, era il vacillare del mito adolescenziale della loro invincibilità, che evidentemente sopravviveva in me. Ho provato questa sensazione a Bishapur (vedi dopo) davanti alla seguente scena, ripetuta in più di un bassorilievo scolpito da secoli nella roccia: l’imperatore persiano Shapur riceve la resa degli imperatori romani Valeriano, Gordiano III e Filippo l’Arabo (addirittura tre!). Dietro, i nobili e i dignitari persiani in pompa magna, sotto, i romani supplici e sconfitti. Una colonna traiana all’incontrario.

Antica propaganda (i bassorilievi di Bishapur ). Passa il tempo, scorrono i secoli e i mezzi tecnologici moltiplicano le prestazioni, ma alcune idee, alcuni principi mantengono una validità perenne. In questo caso parlo dell’esaltazione dei vincitori, l’umiliazione degli sconfitti, della ricerca del consenso. Possiamo chiamarla tranquillamente esposizione mediatica verso il “popolo”.
Oggi abbiamo l’informatica, i Sassanidi (III-VII secolo d.C.) avevano la pietra, ma l’obiettivo è sempre quello di imporre al pubblico l’immagine dei potenti. Così, prima di giungere alle porte di Bishapur, l’antica capitale dell’impero sassanide, si doveva attraversare un ultima stretta gola. Sulle pareti a picco di questa gola, a qualche metro di altezza a ben visibili a chi passa ai loro piedi, appaiono sei bassorilievi di eccezionale fattura e ancora ben conservati. In essi appaiono i primi imperatori sassanidi (Shapur e Baharan I e II) a cavallo vittoriosi su nemici interni ed esterni (anche romani, come abbiamo detto). Un modo per fare pubblicità a se stessi e all’impero.
Avevo visto una scena simile, con gli stessi protagonisti, anche scolpita accanto alle tombe degli Achemenidi a Nasq-e Rustam, presso Persepolis. Perché la pubblicità sia efficace, occorre ripetere e ripetere il concetto.

La canaletta birichina. I bassorilievi di Bishapur sono scolpiti su una parete rocciosa verticale tutti alla stessa altezza e alla loro base qualche demente (probabilmente in epoca abbastanza recente) ha scavato una canaletta per trasportare acqua, usando la parete scolpita come uno dei bordi della canaletta stessa. Risultato: lo scorrere dell’acqua nel tempo (quanto?) ha eroso la parete tanto che oggi tutti bassorilievi mostrano nella parte bassa un vero e proprio scavo (letterale!) profondo almeno un palmo e alto quasi mezzo metro! Un danno che non pregiudica la vista la visione d’insieme, ma comunque un insulto imperdonabile.


La canaletta birichina (sotto: il soldato morto), Bishapur, Iran

Il restauro del sito ha comportato la rimozione del terreno sotto la canaletta rivelando altri particolari di poco conto dei bassorilievi. Tranne in un caso. In quel caso l’asportazione del terreno ha portato alla luce un soldato morto, proprio sotto la canaletta. Lo scorrere dell’acqua ha corroso gli zoccoli dei cavalli dei personaggi sovrastati, ma non è arrivata al soldato morto. Nessuno l’aveva mai visto prima del restauro, se non ai tempi dell’imperatore Shapur. L’acqua non l’aveva toccato e aveva protetto il suo secolare, anzi eterno, riposo.

La tomba di Ciro il grande (Pasargade). Foto viste: tante. Filmati visti: tanti. Racconti ascoltati: tanti. Ma, come sempre, la presenza diretta cambia tutto. La tomba non appariva diversa da come l’avevo immaginata, non era nemmeno tanto roboante come lo erano le tombe egizie, di dimensioni imparagonabile a quelle delle piramidi. Eppure era la tomba di Ciro il Grande, il fondatore dell’impero persiano.
Ero sorpreso, ma ho pensato che il fascino della tomba stava proprio nella sua sobria modestia, nella sua semplicità: una casa su un piedistallo di blocchi di pietra. E in questo leggevo il profilo di Ciro: essere tanto consapevole della propria grandezza da non aver bisogno di sepolcri esagerati e clamorosi, difetti in cui spesso indulgono i potenti mediocri.
Anche il luogo si inchinava alla potenza della tomba, circondandola con una piana erbosa dalla quale emergevano, a dovuta distanza, solo le basi di un paio di templi: qualche resto di pavimenti e colonne. La piana, in realtà, ricopre i resti dell’antica capitale dell’impero sassanide, ancora tutta da scavare, ma mi piaceva considerarla una zona di rispetto: indegna di qualsiasi confronto con la tomba che preferiva rimanere semplice e spoglia.


La tomba di Ciro il Grande a Pasargade, Iran

Al cospetto della tomba di Ciro forse il ricordo dei resoconti degli antichi storici greci su di lui e le guerre greco-persiane, che avevo tradotto al liceo, era più forte in me del fascino della tomba stessa, ma ricordo quel momento come uno dei più affascinanti del viaggio. La giornata fresca e soleggiata e i pochi visitatori presenti mi hanno aiuto in questo.

Il Marino Piazza locale. Nella mia infanzia c’è un ricordo vago di Marino Piazza (“Piazza Marino, poeta contadino”, come lui amava definirsi), celebre cantastorie, in teoria venditore ambulante, in realtà “trovatore” moderno, musicante e imbonitore, assiduo frequentatore nel secolo scorso dei mercati delle province di Bologna e Modena, in particolare della nostra “Piazzola”. Una targa in piazza VIII agosto a Bologna lo ricorda. Marino rappresentava un mondo che non c’è più e che già ai suoi tempi faticava a resistere al mutare della società. Ad esempio, mi domando quanti degli attuali frequentatori della “Piazzola” oggi lo capirebbero, visto che si esprimeva in dialetto.
Questo mondo invece pare resistere in Iran. Al bazar di Yazd ho assistito allo spettacolo di un attore di strada che declamava testi tratti dal “Libro dei re”, poema epico di Firdowsi, un famoso poeta persiano del 1.300. Il bello era che non c’ero solo io ad ascoltarlo (senza capire nulla, ovviamente) ma decine di persone che partecipavano e apprezzavano. Alla fine dello spettacolo ha raccolto molte offerte dai presenti, sufficienti a mio avvivo per fare delle sue recite un lavoro.

La voce del fiume (o l’incredibile destino dello Zayandeh). Osservavo con ammirazione il Pol-e Khaju, il ponte che qui a Esfahan attraversa il fiume Zayandeh da più di trecento anni. Ha una struttura imponente, due carreggiate sovrapposte, una per i carri, l’altra per i pedoni. Da tempo entrambe solo per i pedoni. Nonostante mostrino una struttura massiccia, gli antichi piloni di pietra mostrano una certa leggerezza, un elegante slancio verso l’alto.
QuelloOggi non era giorno di festa, eppure si festeggiava sotto le campate. Gruppi di persone di ogni età banchettavano allegre, ridevano e parlavano ad alta voce, i bambini schiamazzavano intorno. La giornata era assolata e nell’ombra proiettata dalle arcate le sagome nere delle donne velate dal chador si confondevano in un impasto scuro di ombre e veli dal quale emergevano solo i volti e le mani.
Non tutti si univano ai banchetti, molti sedevano fuori dalle arcate ai bordi dell’acqua. Erano per lo più gruppi di famiglia: un uomo, una donna, che il chador nero nascondeva allo sguardo, e qualche bambino. Notavo che quei bambini non schiamazzavano, osservavano e ascoltavano attenti e silenziosi, come fossero a scuola. Forse avevano imparato che non dovevano fare rumore per rispetto al fiume, perché tutti potessero udire la sua voce. Gli adulti si comportavano nello stesso modo, anche gli anziani: spalle al Pol-e Khaju, fissavano la corrente che andava e ascoltavano la voce del fiume. Qualcuno immergeva i piedi nell’acqua, altri chiacchieravano a bassa voce. C’era uno scambio silenzioso e continuo tra chi festeggiava sotto le arcate e chi sedeva in silenzio al cospetto della corrente, come se ai festeggiamenti si dovessero alternare pause di concentrazione e raccoglimento.


Il ponte Khaju, Esfahan, Iran
Se l’acqua è un dono divino, avrei voluto credere che ringraziassero il loro dio per quel dono, ma so che forse ringraziavano l’uomo, perché è dall’uomo che giungeva il dono, un dono che sarebbe durato poco. Già all’indomani infatti l’uomo avrebbe potuto negare l’acqua a Esfahan, di sicuro l’avrebbe fatto nelle settimane successivo, l’aveva già fatto, lo faceva da quasi dieci anni. Avrebbe fatto morire il fiume per otto o dieci mesi. Lo Zayandeh sarebbe scomparso all’improvviso, sarebbe diventato prima fango, poi polvere. E la sua voce si sarebbe spenta. Nessuno sarebbe venuto più al ponte e quel luogo di ritrovo avrebbe perso sua ragione di vita. Il fiume sarebbe rivissuto la primavera successiva, quando l’acqua sarebbe scorsa ancora sotto il Pol-e Khaju e sarebbe tornata la gente a vedere il fiume, ad ascoltare la sua voce. Inshallah.
Le regioni di Yazd, di Esfahan e della parte orientale dell’altipiano iraniano si estendono ai limiti del deserto, la scarsità d’acqua colpisce anche da queste parti, mentre lo sviluppo agricolo e industriale, forse non ben programmato, ne richiede sempre di più… E allora, quando nei mesi successivi il sole si sarebbe fatto più caldo e la temperatura più alta, le riserve d’acqua sarebbero calatw e lo Zayandeh sarebbe stato sacrificato, immolato ai bisogni, considerati più importanti, dell’industria e dell’agricoltura di terre lontane. A monte di Esfahan il fiume sarebbe stato deviato e l’acqua non sarebbe più scorsa sotto le arcate del Pol-e Khaju.
Mentre mi lasciavo contagiare dall’allegria delle gente e la corrente del fiume scorreva veloce, pensavo all’aridità delle province che chiedono acqua e alle loro ragioni, senz’altro giuste, perché l’acqua è di tutti e tutti ne abbiamo diritto. Ma pensavo anche al fiume senza un goccio d’acqua e alla mortificazione di un ponte che scavalca un fiume asciutto.
Avrei dovuto essere felice, mi dicevano, perché ero fortunato: nell’ultima primavera era piovuto molto, come non accadeva da tempo e avevo il privilegio di vedere il Pol-e Khaju attraversare un fiume vero, un evento ormai quasi raro a Esfahan. In molti prima di me si erano accontentati del ponte senza l’acqua sotto.

Le torri del silenzio. A che destino affidare l’uomo dopo la morte? Che fare di un corpo impuro che imprigiona un’anima pura ed eterna? Inumarlo significherebbe rendere impura la terra, cremarlo contaminerebbe l’aria con il fumo del rogo. I Zoroastriani risolvevano il dilemma depositando i morti su costruzioni rotonde costruite in luoghi elevati esposti agli eventi atmosferici. Si chiamano “Torri del silenzio”, un nome evocativo, perché la loro forma usuale ricorda quella di una torre. Lassù li offrivano agli uccelli che, smembrandoli, liberavano le loro anime senza contaminare il mondo.


Torre del silenzio a Yazd, Iran
Due esempi ben conservati di torri del silenzio li abbiamo incontrati a Yazd. Si alzavano al culmine di un paio di colline rocciose. Lassù i seguaci di Zoroastro deponevano i morti. Non erano le prime incontrate durante il viaggio, ma le meglio conservate, erette in una delle città iraniane più importanti per i seguaci di questa religione. Era una visita a cui tenevo molto.
Giunto all’ingresso dell’area archeologica, ho notato che sul fianco di una delle colline era stato scavato un ripido sentiero per agevolare la salita alla torre. Nella foschia mattutina forse avrei avuto difficoltà a individuarlo, se un serpente di turisti multicolori non me lo avesse indicato con precisione. Salivano lentamente uno dietro all’altro, un serpente di formiche che arrancava a zig-zag. Ho provato la sensazione di offesa verso qualcosa che non meritava l’oltraggio: una fila di trekker che aggredivano un luogo sacro.
Non era quello che avevo immaginato, anche se non potevo sperare in una visita solitaria alle torri del silenzio. La vista di quella fila di turisti mi ha riempito di tristezza e delusione. Avrei voluto salire sulla collina, mi sarebbe piaciuto entrare nella torre, scoprire la sua architettura, chissà se avrò un’altra occasione di vederne una in futuro. Ma c’era troppa gente. Perciò non l’ho fatto, non sono salito.
Oltre ai troppi visitatori impegnati sul sentiero, altri motivi mi hanno trattenuto. Cosa avrei visto, infatti, da lassù? Nulla che non potessi scorgere anche senza spostarmi di un metro dal punto in cui mi trovavo.
Avrei visto la città di Yazd espandere i suoi tentacoli verso le colline delle torri come a volerle ingoiare, avrei scrollato il capo di fronte alle abitazioni appena costruite e appena decenti che, potendo, avrei indirizzato verso altre direzioni, lontane dalle torri dei morti che un tempo erano isolate dai vivi, sole nel silenzio, un luogo di pace.
Cosa avrei visto ancora? L’insulto di un fascio di cavi dell’alta tensione che attraversava il sito archeologico senza alcun rispetto, alla sola ricerca della via più breve e meno costosa per giungere a destinazione.
Lassù avrei visto anche una pletora di turisti guardarsi intorno forse senza capire, scattare inutili selfie. Avrei dovuto ascoltare i discorsi banali delle guide turistiche e le loro voci troppo alte. Avrei subito tutto questo... E ho rinunciato.


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