La porta di tutte le nazioni, l'ingresso a Persepoli - Iran |
Itinerario: Teheran,
Shiraz, Persepoli, Naqsh-e Rostam, Bishapur, Firuzabad, Pasargade, Abarkuh,
Yazd, Na’in, Ardestan, Esfahan, Natanz, Kashan, Teheran
Periodo: aprile-maggio 2019
Durata: 2 settimane
Ne parlo nel libro: Ci sono posti così
Un viaggio
splendido in un paese che mi ha sorpreso per la sua varietà, pulizia e grande
attenzione per il passato. “Vai in Iran? Non è pericoloso?” mi sentivo spesso
chiedere prima di partire da chi troppo si fida dell’informazione (o propaganda?)
occidentale che descrive l’Iran come paese a rischio, un “paese canaglia”, uno
stato povero e represso dominato da una casta religiosa lugubre e oscurantista.
“Dovreste provare a documentarvi meglio, voi occidentali” ci ripeteva la nostra
guida.
NOTA DI DICEMBRE 2019: purtroppo alla fine di questo 2019 devo aggiungere che le cose in Iran non sono più tranquille come nel periodo del viaggio: manifestazioni, repressione e morti nelle piazze... Che tristezza!
NOTA DI DICEMBRE 2019: purtroppo alla fine di questo 2019 devo aggiungere che le cose in Iran non sono più tranquille come nel periodo del viaggio: manifestazioni, repressione e morti nelle piazze... Che tristezza!
La tragedia. Fortunatamente la salute non
c’entra, tuttavia il colpo è stato duro. Disattenzione e troppa fretta hanno
favorito il furto della mia macchina fotografica. Non in Iran, comunque, ma
alla Malpensa. Oltre al danno economico non indifferente si è aggiunta la vera
tragedia: nella fotocamera c’erano ancora le schede di memoria con tutte le
foto del viaggio (almeno 1.500). Non aggiungo altro, solo che me ne sono
rimaste meno di dieci che, caso strano, avevo scattato con il cellulare. Quasi
tutte le poche che mi servono per documentare questi testi provengono da
Internet e della loro qualità non posso rispondere.
I romani
sconfitti. A scuola abbiamo studiato la storia della nostra
civiltà cominciando dalla Mesopotamia e l’Egitto per arrivare alla Grecia,
quindi a Roma e avanti nei secoli. In questo percorso standard la retorica e
l’eurocentrismo, che da sempre segnano la nostra cultura, ci hanno spinto a
credere che i greci prima e i romani poi fossero gli unici portatori di civiltà
e quindi destinati storicamente a governare il mondo allora conosciuto e, per questo, destinati alla vittoria. E che quando vennero a contatto con popoli
lontani (gli Achemenidi per i greci, i Sassanidi per i romani, in entrambi i
casi comunque persiani), o “barbari” come li chiamavano, fossero destinati a
sconfiggerli per diritto storico e in nome di una superiorità da non mettere in
discussione.
Ma, ovviamente, dipende dai punti di vista: a Londra c’è la stazione di
Waterloo (perché a Waterloo gli inglesi vinsero), a Parigi c’è la stazione di
Austerlitz, perché qui vinsero i francesi. Il viceversa non è mai dato.
I greci subirono sconfitte dai persiani, ma l’epopea classica greca esaltò
la rivincita e la successiva, definitiva sconfitta di questi ultimi. I romani e
i persiani per sette secoli si combatterono lungo l’Eufrate con alterne vicende,
normali vicende storiche.
L'imperatore romano Valeriano, sconfitto e supplice, ai piedi dell'imperatore persiano Shapur, Naqsh-e Rostam, Iran |
Ma quello che mi colpiva profondamente, perché non avevo mai visto i
romani immortalati nella cruda evidenza della sconfitta, era il vacillare del mito
adolescenziale della loro invincibilità, che evidentemente sopravviveva in me. Ho provato
questa sensazione a Bishapur (vedi dopo) davanti alla seguente scena, ripetuta
in più di un bassorilievo scolpito da secoli nella roccia: l’imperatore
persiano Shapur riceve la resa degli imperatori romani Valeriano, Gordiano III
e Filippo l’Arabo (addirittura tre!). Dietro, i nobili e i dignitari persiani
in pompa magna, sotto, i romani supplici e sconfitti. Una colonna traiana all’incontrario.
Antica propaganda (i bassorilievi di Bishapur ). Passa il
tempo, scorrono i secoli e i mezzi tecnologici moltiplicano le prestazioni, ma
alcune idee, alcuni principi mantengono una validità perenne. In questo caso
parlo dell’esaltazione dei vincitori, l’umiliazione degli sconfitti, della
ricerca del consenso. Possiamo chiamarla tranquillamente esposizione mediatica
verso il “popolo”.
Oggi abbiamo l’informatica, i Sassanidi (III-VII secolo d.C.) avevano la
pietra, ma l’obiettivo è sempre quello di imporre al pubblico l’immagine dei
potenti. Così, prima di giungere alle porte di Bishapur, l’antica capitale
dell’impero sassanide, si doveva attraversare un ultima stretta gola. Sulle pareti
a picco di questa gola, a qualche metro di altezza a ben visibili a chi passa
ai loro piedi, appaiono sei bassorilievi di eccezionale fattura e ancora ben
conservati. In essi appaiono i primi imperatori sassanidi (Shapur e Baharan I e
II) a cavallo vittoriosi su nemici interni ed esterni (anche romani, come
abbiamo detto). Un modo per fare pubblicità a se stessi e all’impero.
Avevo visto una scena simile, con gli stessi protagonisti, anche scolpita
accanto alle tombe degli Achemenidi a Nasq-e Rustam, presso Persepolis. Perché la
pubblicità sia efficace, occorre ripetere e ripetere il concetto.
La
canaletta birichina. I bassorilievi di Bishapur sono scolpiti su una
parete rocciosa verticale tutti alla stessa altezza e alla loro base qualche
demente (probabilmente in epoca abbastanza recente) ha scavato una canaletta
per trasportare acqua, usando la parete scolpita come uno dei bordi della
canaletta stessa. Risultato: lo scorrere dell’acqua nel tempo (quanto?) ha
eroso la parete tanto che oggi tutti bassorilievi mostrano nella parte bassa un
vero e proprio scavo (letterale!) profondo almeno un palmo e alto quasi mezzo
metro! Un danno che non pregiudica la vista la visione d’insieme, ma comunque
un insulto imperdonabile.
La canaletta birichina (sotto: il soldato morto), Bishapur, Iran |
Il restauro del sito ha comportato la rimozione del terreno sotto la
canaletta rivelando altri particolari di poco conto dei bassorilievi. Tranne in
un caso. In quel caso l’asportazione del terreno ha portato alla luce un
soldato morto, proprio sotto la canaletta. Lo scorrere dell’acqua ha corroso
gli zoccoli dei cavalli dei personaggi sovrastati, ma non è arrivata al soldato
morto. Nessuno l’aveva mai visto prima del restauro, se non ai tempi dell’imperatore
Shapur. L’acqua non l’aveva toccato e aveva protetto il suo secolare, anzi
eterno, riposo.
La tomba
di Ciro il grande (Pasargade). Foto viste: tante. Filmati visti: tanti. Racconti
ascoltati: tanti. Ma, come sempre, la presenza diretta cambia tutto. La tomba
non appariva diversa da come l’avevo immaginata, non era nemmeno tanto roboante
come lo erano le tombe egizie, di dimensioni imparagonabile a quelle delle
piramidi. Eppure era la tomba di Ciro il Grande, il fondatore dell’impero persiano.
Ero sorpreso, ma ho pensato che il fascino della tomba stava proprio nella sua sobria modestia,
nella sua semplicità: una casa su un piedistallo di blocchi di pietra. E in
questo leggevo il profilo di Ciro: essere tanto consapevole della propria
grandezza da non aver bisogno di sepolcri esagerati e clamorosi, difetti in cui spesso indulgono i potenti mediocri.
Anche il luogo si inchinava alla potenza della tomba, circondandola con
una piana erbosa dalla quale emergevano, a dovuta distanza, solo le basi di un
paio di templi: qualche resto di pavimenti e colonne. La piana, in realtà,
ricopre i resti dell’antica capitale dell’impero sassanide, ancora tutta da
scavare, ma mi piaceva considerarla una zona di rispetto: indegna di qualsiasi
confronto con la tomba che preferiva rimanere semplice e spoglia.
La tomba di Ciro il Grande a Pasargade, Iran |
Al cospetto della tomba di Ciro forse il ricordo dei resoconti degli
antichi storici greci su di lui e le guerre greco-persiane, che avevo tradotto
al liceo, era più forte in me del fascino della tomba stessa, ma ricordo quel
momento come uno dei più affascinanti del viaggio. La giornata fresca e
soleggiata e i pochi visitatori presenti mi hanno aiuto in questo.
Il
Marino Piazza locale. Nella mia infanzia c’è un ricordo vago di Marino Piazza
(“Piazza Marino, poeta contadino”, come lui amava definirsi), celebre cantastorie,
in teoria venditore ambulante, in realtà “trovatore” moderno, musicante e imbonitore,
assiduo frequentatore nel secolo scorso dei mercati delle province di Bologna e
Modena, in particolare della nostra “Piazzola”. Una targa in piazza VIII agosto
a Bologna lo ricorda. Marino rappresentava un mondo che non c’è più e che già
ai suoi tempi faticava a resistere al mutare della società. Ad esempio, mi
domando quanti degli attuali frequentatori della “Piazzola” oggi lo
capirebbero, visto che si esprimeva in dialetto.
Questo mondo invece pare resistere in Iran. Al bazar di Yazd ho assistito
allo spettacolo di un attore di strada che declamava testi tratti dal “Libro
dei re”, poema epico di Firdowsi, un famoso poeta persiano del 1.300. Il bello
era che non c’ero solo io ad ascoltarlo (senza capire nulla, ovviamente) ma
decine di persone che partecipavano e apprezzavano. Alla fine dello spettacolo
ha raccolto molte offerte dai presenti, sufficienti a mio avvivo per fare delle
sue recite un lavoro.
La voce
del fiume (o l’incredibile destino dello Zayandeh). Osservavo
con ammirazione il Pol-e Khaju, il ponte che qui a Esfahan attraversa il fiume
Zayandeh da più di trecento anni. Ha una struttura imponente, due carreggiate
sovrapposte, una per i carri, l’altra per i pedoni. Da tempo entrambe solo per
i pedoni. Nonostante mostrino una struttura massiccia, gli antichi piloni di
pietra mostrano una certa leggerezza, un elegante slancio verso l’alto.
Quello non era giorno
di festa, eppure si festeggiava sotto le campate. Gruppi di persone di ogni età
banchettavano allegre, ridevano e parlavano ad alta voce, i bambini schiamazzavano
intorno. La giornata era assolata e nell’ombra proiettata dalle arcate le
sagome nere delle donne velate dal chador
si confondevano in un impasto scuro di ombre e veli dal quale emergevano solo i
volti e le mani.
Non tutti si univano ai banchetti, molti sedevano fuori dalle arcate ai
bordi dell’acqua. Erano per lo più gruppi di famiglia: un uomo, una donna, che
il chador nero nascondeva allo
sguardo, e qualche bambino. Notavo che quei bambini non schiamazzavano, osservavano
e ascoltavano attenti e silenziosi, come fossero a scuola. Forse avevano
imparato che non dovevano fare rumore per rispetto al fiume, perché tutti potessero
udire la sua voce. Gli adulti si comportavano nello stesso modo, anche gli
anziani: spalle al Pol-e Khaju, fissavano la corrente che andava e ascoltavano
la voce del fiume. Qualcuno immergeva i piedi nell’acqua, altri chiacchieravano
a bassa voce. C’era uno scambio silenzioso e continuo tra chi festeggiava sotto
le arcate e chi sedeva in silenzio al cospetto della corrente, come se ai
festeggiamenti si dovessero alternare pause di concentrazione e raccoglimento.
Il ponte Khaju, Esfahan, Iran |
Se l’acqua è un dono divino, avrei voluto credere che ringraziassero il
loro dio per quel dono, ma so che forse ringraziavano l’uomo, perché è
dall’uomo che giungeva il dono, un dono che sarebbe durato poco. Già all’indomani
infatti l’uomo avrebbe potuto negare l’acqua a Esfahan, di sicuro l’avrebbe
fatto nelle settimane successivo, l’aveva già fatto, lo faceva da quasi dieci
anni. Avrebbe fatto morire il fiume per otto o dieci mesi. Lo Zayandeh sarebbe scomparso
all’improvviso, sarebbe diventato prima fango, poi polvere. E la sua voce si sarebbe
spenta. Nessuno sarebbe venuto più al ponte e quel luogo di ritrovo avrebbe
perso sua ragione di vita. Il fiume sarebbe rivissuto la primavera successiva,
quando l’acqua sarebbe scorsa ancora sotto il Pol-e Khaju e sarebbe tornata la
gente a vedere il fiume, ad ascoltare la sua voce. Inshallah.
Le regioni di Yazd, di Esfahan e della parte orientale dell’altipiano
iraniano si estendono ai limiti del deserto, la scarsità d’acqua colpisce anche
da queste parti, mentre lo sviluppo agricolo e industriale, forse non ben
programmato, ne richiede sempre di più… E allora, quando nei mesi successivi il
sole si sarebbe fatto più caldo e la temperatura più alta, le riserve d’acqua sarebbero
calatw e lo Zayandeh sarebbe stato sacrificato, immolato ai bisogni,
considerati più importanti, dell’industria e dell’agricoltura di terre lontane.
A monte di Esfahan il fiume sarebbe stato deviato e l’acqua non sarebbe più
scorsa sotto le arcate del Pol-e Khaju.
Mentre mi lasciavo contagiare dall’allegria delle gente e la corrente del
fiume scorreva veloce, pensavo all’aridità delle province che chiedono acqua e
alle loro ragioni, senz’altro giuste, perché l’acqua è di tutti e tutti ne
abbiamo diritto. Ma pensavo anche al fiume senza un goccio d’acqua e alla
mortificazione di un ponte che scavalca un fiume asciutto.
Avrei dovuto essere felice, mi dicevano, perché ero fortunato: nell’ultima
primavera era piovuto molto, come non accadeva da tempo e avevo il privilegio
di vedere il Pol-e Khaju attraversare un fiume vero, un evento ormai quasi raro
a Esfahan. In molti prima di me si erano accontentati del ponte senza l’acqua
sotto.
Le torri
del silenzio. A che destino affidare l’uomo dopo la morte? Che
fare di un corpo impuro che imprigiona un’anima pura ed eterna? Inumarlo
significherebbe rendere impura la terra, cremarlo contaminerebbe l’aria con il
fumo del rogo. I Zoroastriani risolvevano il dilemma depositando i morti su
costruzioni rotonde costruite in luoghi elevati esposti agli eventi
atmosferici. Si chiamano “Torri del silenzio”, un nome evocativo, perché la
loro forma usuale ricorda quella di una torre. Lassù li offrivano agli uccelli
che, smembrandoli, liberavano le loro anime senza contaminare il mondo.
Due esempi ben conservati di torri del silenzio li abbiamo incontrati a
Yazd. Si alzavano al culmine di un paio di colline rocciose. Lassù i seguaci di
Zoroastro deponevano i morti. Non erano le prime incontrate durante il viaggio,
ma le meglio conservate, erette in una delle città iraniane più importanti per
i seguaci di questa religione. Era una visita a cui tenevo molto.
Torre del silenzio a Yazd, Iran |
Giunto all’ingresso dell’area archeologica, ho notato che sul fianco di
una delle colline era stato scavato un ripido sentiero per agevolare la salita
alla torre. Nella foschia mattutina forse avrei avuto difficoltà a
individuarlo, se un serpente di turisti multicolori non me lo avesse indicato
con precisione. Salivano lentamente uno dietro all’altro, un serpente di
formiche che arrancava a zig-zag. Ho provato la sensazione di offesa verso
qualcosa che non meritava l’oltraggio: una fila di trekker che aggredivano un luogo sacro.
Non era quello che avevo immaginato, anche se non potevo sperare in una
visita solitaria alle torri del silenzio. La vista di quella fila di turisti mi
ha riempito di tristezza e delusione. Avrei voluto salire sulla collina, mi
sarebbe piaciuto entrare nella torre, scoprire la sua architettura, chissà se
avrò un’altra occasione di vederne una in futuro. Ma c’era troppa gente. Perciò
non l’ho fatto, non sono salito.
Oltre ai troppi visitatori impegnati sul sentiero, altri motivi mi hanno
trattenuto. Cosa avrei visto, infatti, da lassù? Nulla che non potessi scorgere
anche senza spostarmi di un metro dal punto in cui mi trovavo.
Avrei visto la città di Yazd espandere i suoi tentacoli verso le colline
delle torri come a volerle ingoiare, avrei scrollato il capo di fronte alle
abitazioni appena costruite e appena decenti che, potendo, avrei indirizzato
verso altre direzioni, lontane dalle torri dei morti che un tempo erano isolate
dai vivi, sole nel silenzio, un luogo di pace.
Cosa avrei visto ancora? L’insulto di un fascio di cavi dell’alta
tensione che attraversava il sito archeologico senza alcun rispetto, alla sola
ricerca della via più breve e meno costosa per giungere a destinazione.
Lassù avrei visto anche una pletora di turisti guardarsi intorno forse
senza capire, scattare inutili selfie.
Avrei dovuto ascoltare i discorsi banali delle guide turistiche e le loro voci
troppo alte. Avrei subito tutto questo... E ho rinunciato.
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