venerdì 13 settembre 2019

RACCONTO: Grazie Dian!

(Tratto dal mio libro: IL CONFINE IMMAGINARIO)


Per gentile concessione dell'editore POLARIS

Quando raggiungemmo Kigali[1] trovammo un paese povero ma non disperato, nessuna traccia delle tragedie alimentari o sanitarie troppo spesso presenti nei paesi africani. Il Ruanda era verde e rigoglioso, non mancava l’acqua, era coltivato fin sulle cime delle colline e sembrava in grado di sfamare tutti i suoi figli. Certo le antiche foreste che ricoprivano il paese fino a pochi decenni prima erano ridotte a qualche triste appezzamento, ma almeno la gente sembrava condurre una vita dignitosa. 

I monti Virunga segnano il confine tra Congo e Ruanda e ospitano i parchi che ognuno dei due stati ha istituito sul proprio versante a protezione dei gorilla di montagna. Noi eravamo in visita al Parco dei Vulcani, sul versante ruandese. Su quelle montagne la foresta era ancora intatta e lussureggiante e s’arrampicava sulle pendici di cinque vulcani, in parte ancora attivi, svettanti a quattromila metri. Cinque cime sovente avvolte dalle nuvole, minacciose sentinelle di uno degli ultimi paradisi naturali e, soprattutto, degli ultimi esemplari di gorilla ancora liberi in natura. 

“Non riusciranno a fare di questa montagna un maledetto giardino zoologico. Eh no!” afferma determinata Sigourney Weaver, nei panni di Dian Fossey in Gorilla nella nebbia.[2] Se per giardino zoologico intendiamo un luogo, più o meno vasto, dove i grandi primati sono rinchiusi a portata degli occhi dei visitatori, credo che lo spettacolare Parco dei Vulcani un rischio simile non l’abbia mai corso, anche se molti viaggiatori vi giungono da ogni parte del mondo. E di certo non era un giardino zoologico quando anch’io ero tra i visitatori insieme ad alcuni compagni di viaggio. Dian Fossey, la ricercatrice americana che aveva iniziato a studiarli fin dagli anni ’60, aveva installato il suo campo alla base dei vulcani Karisimbi e Visokè, a Kari-soke, e aveva rivelato al mondo i primi risultati delle sue ricerche su di loro: vita, comportamenti e organizzazione sociale. Per incrementare i fondi del progetto, la Fossey da qualche anno aveva abituato alcuni gruppi di gorilla alla presenza degli esseri umani. Poterli osservare in libertà era lo scopo del nostro viaggio.

Non era facile allora capire come procedere per poterli raggiungere e quale burocrazia affrontare. Dopo aver effettuato un’incerta prenotazione nella capitale, ci presentammo al quartiere generale del parco, dove fu chiaro che incerta prenotazione significava non conoscere esattamente la data della visita. Ma la fortuna ci sorrise e il mattino seguente si presentò per tutti noi l’occasione di incontrare i gorilla nella stessa giornata. Ci sottoposero ad un veloce corso sul comportamento da tenere in loro presenza: non fumare, parlare a bassa voce, non fissarli direttamente negli occhi, rimanere chini, mantenere insomma un comportamento dimesso che non potesse essere considerato aggressivo. E soprattutto rimanere immobili nel caso avessero messo in atto una carica nei nostri confronti. Mi sembrarono raccomandazioni eccessive, ma a quei tempi i gorilla non erano molto conosciuti, non c’erano a disposizione i filmati presenti oggi sulla Rete e i documentari televisivi che raccontano la vita e gli studi della Fossey.

Un fuoristrada ci condusse ai piedi del vulcano Visokè e da lì iniziò la salita. Eravamo stati avvertiti: l’incontro con i gorilla era quasi garantito, ma la ricerca poteva essere lunga, anche quattro o cinque ore, alle quali si dovevano aggiungere quelle del ritorno. Quando i gorilla sono tranquilli e hanno cibo a disposizione non si spostano di molto dal luogo dove trascorrono la notte, ma non eravamo in un giardino zoologico e anche un piccolo spostamento nella foresta a tremila metri di altezza, sui fianchi ripidissimi di una montagna costa agli umani fatica e sofferenza. Alcuni ranger si accampavano di notte nelle vicinanze dei gorilla per poter dare indicazioni più precise ai colleghi che il mattino seguente avrebbero accompagnato i visitatori.  Sempre che non si fossero spostati di molto dopo il riposo notturno, era di solito abbastanza facile rintracciarli. Di solito, ma non fu il caso di quel giorno.

Salimmo per un’ora attraverso vaste praterie soleggiate, mentre alle nostre spalle si aprivano panorami maestosi, un po’ velati dalla nebbia che andava sfumando man mano che il sole saliva in cielo. L’altitudine si faceva sentire, ma non volevamo sfigurare di fronte all’agilità delle guardie, tutte giovanissime, e quindi nessuno di noi rallentava la marcia. Il fresco del mattino lasciava il posto all’umidità che il sole ormai alto nel cielo faceva evaporare dall’erba e dalle piante impregnate della rugiada della notte. Ci fu un po’ di sollievo quando raggiungemmo l’ombra di un bosco di bambù giganteschi. Buon segno, ci dissero, perché le foglie e i germogli della pianta sono tra i cibi preferiti dai gorilla. Continuammo a camminare, sempre in salita, entrando nella foresta più fitta e scoscesa, mentre il capofila dei ranger che ci accompagnavano iniziò a chiamare via radio le guardie che erano già sul posto, per chiedere indicazioni sulla direzione da prendere. Il gracchiare continuo dell’apparecchio non appariva di buon auspicio, troppe erano le indicazioni che oltretutto sembravano indecise e confuse, anche se non comprendevo la lingua. Di tanto in tanto una controindicazione giunta via radio ci faceva scendere di qualche decina di metri, per poi risalire un po’ più in là dopo che i ranger avevano faticosamente aperto un altro passaggio nella foresta con i machete. Una fatica terribile. No, non eravamo proprio in uno zoo! Oltre la terza ora di cammino lo sguardo incerto delle guardie cominciò a preoccuparmi mentre continuava il fitto colloquio tra loro e quelli che stavano cercando i gorilla senza trovarli.

Faticammo ancora mezz’ora, poi improvvisamente un suono sconosciuto, una sorta di brontolio sordo e prolungato, come annoiato, accompagnato da rumori di rami spezzati e fronde calpestate. Erano loro! Un gesto della mano per invitarci al silenzio, un altro per indicarci di rimanere chini, un altro colpo di machete, poi il ranger spostò l’ultimo ramo di fronte ai nostri occhi. Avevo immaginato un avvistamento a distanza, di vederli da lontano, avevo al collo il binocolo per avvicinarli. Invece erano là, anzi lì, di fronte a me a dieci metri di distanza. Eccoli i terribili e feroci gorilla di montagna, gli epigoni di King Kong!

Stimai che fossero una decina, ma il conteggio non era facile perché la fitta boscaglia non mi consentiva di vederli tutti assieme ed io non ero in grado di distinguerli uno dall’altro, come certo sapeva fare Dian che aveva dato un nome a tutti loro. Sembravano intenti alle abituali attività. Alcuni mangiavano le loro prelibate foglie appoggiati comodamente ai cespugli, altri dormicchiavano, altri ancora si spulciavano. Due piccoli giocavano rumorosamente a rincorrersi disegnando nei loro volteggi cerchi che comprendevano una breve corsa sul terreno, poi la scalata al tronco di un albero, poi ancora una serie di balzi lungo i suoi rami più bassi, quindi uno slancio verso i rami di un albero vicino, poi la discesa lungo il tronco di quest’ultimo e infine una corsa sul prato di nuovo verso il tronco l’albero di partenza. E il circuito si ripeteva fino a quando uno dei due non decideva di accorciare il percorso per arrivare al più presto addosso all’altro. A quel punto iniziava una lotta fatta di capriole e assalti, in un coro di urla stridule. Tutto questo non interessava gli adulti che li guardavano con sufficienza e dopo un po’ notai che guardavano con sufficienza anche noi. Solo il maschio dominante, il silver back,[3] sembrava non svolgere alcuna attività precisa, ma in realtà era tra tutti era quello con la maggiore responsabilità, perché doveva controllare e proteggere il branco. Lo faceva con serietà e impegno, seduto in posizione più alta rispetto agli altri, attento e vigile. Ogni tanto scendeva nel gruppo, scrutava i compagni ad uno ad uno poi tornava al suo posto. Queste ispezioni fermavano il rumore dei piccoli che interrompevano i giochi, timorosi al cospetto del gran capo. Dimostravano una forza terribile quando spezzavano con una torsione netta del polso rami di dimensione tale che non potevo fare a meno di rabbrividire al pensiero che quelle mani potessero riservarmi lo stesso trattamento.

“Dio mio” - mi veniva da pensare - “sono quasi come noi”! Nonostante il mantello peloso, i movimenti goffi ed il linguaggio limitato all’apparenza a pochi suoni, i comportamenti avevano molto di umano, quando ad esempio accudivano ai piccoli o quando si scambiavano rami buoni da mangiare. E quando li guardavo negli occhi, nei loro occhi gialli, mostravano l'espressione umana di chi sta pensando, di chi sta per dirti qualcosa.  

Forse qualcuno di noi fece un movimento troppo brusco o qualcun altro sembrò avere uno sguardo minaccioso verso quegli occhi gialli. O forse fu soltanto un gioco, una blanda prova di forza per farci capire, se mai fosse stato necessario, che eravamo in casa loro e che avrebbero potuto spazzarci via con facilità.  Qualunque fosse il motivo, un giovane maschio si alzò e si batté vigorosamente il petto. Era il segnale di una carica imminente che puntualmente avvenne. Riuscii ad assistere solo all’inizio della finta aggressione, quando il gorilla con le braccia alzate e pugni serrati si gettò verso di noi urlando come un forsennato, la bocca spalancata e i canini in evidenza. Memore delle istruzioni ricevute, come tutti i miei compagni chinai la schiena coprendomi la testa con le braccia e appoggiai la fronte a terra. In quella posizione non riuscivo a vedere il gorilla che era arrivato di fronte a me ed ora se stava immobile ad urlare la sua rabbia. Quando secondo lui avevamo capito la lezione se ne tornò sui suoi passi, tranquillo come se nulla fosse accaduto. Alzai gli occhi e intorno a me osservai di nuovo la scena che era rimasta immutata. C’erano quelli che mangiavano e quelli che sbadigliavano. I due piccoli che prima si rincorrevano ora si rotolavano nell’erba. Poi si fermarono e uno di loro ci guardò, con severità mi parve, si alzò con i pugni serrati e si batté il petto ripetutamente, come a ribadire la precedente minaccia.

Dopo un’ora decisero di spostarsi. Le guardie ci fecero cenno di non muoverci, perché non li avremmo seguiti. Il tempo della visita era ormai terminato e comunque, pensai, la loro agilità non ci avrebbe permesso di farlo. Si sparpagliarono in diverse direzioni, come per impedirci di seguirli, ed il giovane maschio che prima ci aveva caricato si diresse di nuovo verso di noi, ma questa volta solo per attraversare il nostro gruppo.

Impossibile per me chiamarli animali perché mi sembra che la parola indichi esseri viventi molto diversi o distanti da me, come i cani, i gatti o anche i leoni.  Nei gorilla invece riconoscevo una parentela molto più stretta di quanto il loro mantello peloso potesse suggerire.

Non potevo che ringraziare Dian Fossey per il lavoro che stava svolgendo a Karisoke, a pochi chilometri da lì, e che mi aveva permesso di vivere una simile esperienza. La ringraziai ancora ventitré anni dopo quando ritornai in Africa per visitare un altro gruppo di gorilla di montagna, nella foresta di Bwindi in Uganda. Quel secondo incontro fu però molto diverso dal primo. Avevo letto la sua storia[4], avevo più informazioni su di lei e sui gorilla di montagna.  Le fatiche della ricerca furono identiche come identiche furono le sensazioni provate, ma tutto nel frattempo era cambiato per me e forse anche per loro. Infatti, nel 1985, due anni e centodiciassette giorni dopo la mia visita al parco dei Vulcani in Ruanda, Dian Fossey era stata uccisa a colpi di machete nel suo centro di ricerca di Karisoke, in circostanze mai chiarite da allora. Con disumana barbarie era stata spenta la voce dei gorilla tra gli uomini, colei che con tenacia e determinazione li aveva difesi, forse salvandoli dall’estinzione e aveva consentito a me di incontrarli per due volte in libertà. Osservando un piccolo che camminava su un ramo, tenendosi in precario equilibrio a due liane che pendevano ai suoi fianchi, attento e concentrato nel nuovo esercizio, potevo comprendere da dove scaturiva la forza che spinse Dian a dedicare tutta la sua vita a quelle creature. A studiarle per capire come proteggerle sia dai bracconieri che alimentavano e forse alimentano ancora il macabro traffico di teste e mani mozzate, sia dall’ingordigia dello stesso governo del paese, disponibile a vendere a caro prezzo dei piccoli di gorilla agli zoo che ne facevano richiesta. E per catturare un piccolo bisogna uccidere la madre e a volte sterminare l’intero gruppo, disposto al sacrificio estremo per difenderlo. Anche da morta Dian rimase tra loro ed ora è sepolta là, nel piccolo cimitero del centro ricerche di Karisoke che prima di lei aveva accolto solo gorilla. Ora c’è anche lei con Digit, zio Bert, Macho, Kwely e tutti gli altri che non era riuscita a salvare dai bracconieri.

Oggi, mentre scrivo, penso alle guerre civili e ai massacri avvenuti attorno ai monti Virunga negli anni ‘90 che hanno sconvolto il Parco dei Vulcani, spingendovi migliaia di profughi disperati. Come stanno ora i gorilla? In quanti ne sono rimasti? Nel giugno del 2005 il presidente del Ruanda incontrò le guardie e i contadini che vivono nei pressi del parco per dare un nome a trenta piccoli gorilla nati da poco. I loro bambini proposero molti nomi e alla fine scelsero. Se sono ancora in vita, da quel giorno i piccoli gorilla si chiamano - in Swahili[5] - Costruttore di paceSoleCooperazioneVivere insiemeVittoria.  Questa notizia avrebbe fatto la felicità di Dian ed è la prova che la sua lotta forse è stata vittoriosa e mi piace pensare che quei piccoli siano i discendenti dei gorilla che incontrai la prima volta sulle pendici del Visokè. La manifestazione del 2005 si sarebbe dovuta ripetere ogni anno. Non so se questo sia avvenuto, ma certo da allora sono nati altri piccoli e le ricerche e i censimenti degli ultimi anni sembrano confermare che i gorilla sono in aumento, aiutati dall’evidenza che ormai per i paesi che hanno la fortuna di ospitarne gli ultimi esemplari sono diventati una fonte di reddito insostituibile.

E allora coraggio, amici pelosi, siete diventati un business! Non è molto, ma è la sola speranza che avete per sopravvivere.

(Parco Naz. dei Vulcani, Ruanda, agosto/settembre 1983)




[1] Kigali è la capitale del Ruanda
[2] Gorilla nella nebbia è un film del 1988, diretto dal regista Michael Apted e tratto dal libro Gorilla nella nebbia, autobiografia di Dian Fossey, interpretata da Sigourney Weaver.
[3] Si tratta del capogruppo, così chiamato per il colore argentato della schiena che i maschi assumono nell’età adulta
[4] Farley Mowat, Una donna tra i gorilla, Rizzoli editore, 1989
[5] Lo Swahili o Kiswahili, diffuso in gran parte dell'Africa orientale e centrale, è la lingua nazionale di TanzaniaKenya e Uganda ed è inoltre la lingua ufficiale dell'Unione Africana.

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