Le fondamenta dell'attuale San Pietroburgo furono gettate nel 1703, 299 anni prima del mio arrivo. Quindi al nostro arrivo la città si preparava alla celebrazione del terzo centenario della fondazione, organizzata per l’anno successivo. Era tutto un fermento. Spuntavano cantieri ovunque. Ma lo sforzo restauratore si concentrava soprattutto nel centro monumentale della città, la zona turistica, dall’Hermitage alla cattedrale di San Nicola. In quest’area, che potremmo chiamare “dello sfarzo imperiale” era possibile individuare vari percorsi attraverso le vie e canali del centro alla ricerca dei più sfarzosi ponti e palazzi imperiali e l’architettura nobile del periodo d’oro dell’impero russo.
Bastava però lasciarsi alle spalle la sobria eleganza della Prospettiva Nevsky e dirigersi verso la Neva e i suoi dintorni, per rendersi conto degli squilibri, tra un quartiere e l’altro, dei lavori già portati a termine. Anche questo era un percorso tematico suggerito dalla guida con un titolo evocativo: bellezza e decadenza. Potevo ammirare con tristezza palazzi che lasciavano intravedere, anche solo immaginare, tracce di una bellezza sfolgorante ai tempi di Pietro il Grande ormai ridotta a triste simulacro di una stagione e di uno sfarzo irripetibili, umiliata da decenni di incuria, disinteresse e carenza di mezzi.
Sulle orme di Rodion Raskolnikov: Stolyarny, canale Griboedova, ponte Kokushkin, via Sudovaya… e avanti, strada dopo strada, verso la casa dell’usuraia. Seguivo il percorso che conduce Rodion Raskolnikov dalla sua abitazione a quella della vecchia e notavo che il tragitto non era logico. La direzione cambiava a ogni incrocio, come se arrivare a destinazione non fosse una decisione convinta, il vero obiettivo dei passi di Rodion. Seguivamo il cammino di un ex studente destinato a diventare assassino, ma per il momento ancora innocente, ancora in tempo a fermarsi, tornare indietro. Ma Rodion non si ferma.
Fu una
passeggiata appassionante, anche senza conoscere l’antica toponomastica di San
Pietroburgo, era naturale immedesimarmi nella sua tragica storia, attraversare
i luoghi del capolavoro di Dostoevskij (Delitto
e Castigo, ovviamente).
Pur essendo
in centro, eravamo fuori dal flusso turistico, sembrava che la camminata fosse
una concessione destinata unicamente a noi. Incontravamo solo russi, alcuni
sorpresi nell’incontrare degli stranieri per quelle strade. I palazzi che ci
circondavano non sembravano cambiati dai tempi di Dostoevskij, se non in
peggio. Il degrado era evidente. Ma erano trascorsi poco più di dieci anni
dalla caduta del muro di Berlino e dagli sconvolgimenti dell’era di Gorbaciov:
impensabile che gli effetti di eventi di tale portata non apparissero palesi.
Nel bene e nel male, soprattutto nel male. Oggi mi auguro che la situazione sia
migliorata.
Le notti bianche: sarà “turistico” finché si vuole, ma il fascino della notti bianche è profondo. E’ uno spettacolo che si può vedere anche altrove (in Alaska, ad esempio, o in Scandinavia) e devo dire che nella natura forse può essere apprezzato di più, tuttavia anche in una bellissima città come San Pietroburgo vale la pena e molto. Il Palazzo d’invero alle spalle, la Neva di fronte, il sole che cala verso occidente, ma non del tutto, i ponti che si alzano… Il fenomeno si manifesta da fine maggio fino all'inizio di luglio (il massimo il 21 giugno). Noi arrivammo in ritardo di qualche settimana, non sufficienti tuttavia per sminuirne il fascino.
Le notti bianche , San Pietroburgo, Russia |
San Pietroburgo è molto grande, le stazioni della metro erano lontane le une dalla altre (una paio di km) e quindi si camminava molto a piedi. Alla sera eravamo molto stanchi e passare qualche ora in giro tra mezzanotte e la quattro del mattino era faticoso, ma ne valeva la pena.
Perché con un po’ di attenzione sensibilità riuscivo a percepire la magia, odio usare questa parola ormai abusata, ma in questo caso serve. Bastava poco in quei momenti per diventare il Sognatore di Dostoevskij (Le notti bianche – 1848) che nella vaga inquietudine di una di quelle notti, durante una passeggiata notturna, incontra un ragazza che suscita in lui un sentimento d’amore…. Un racconto che va letto.
I ponti levatoi, San Pietroburgo, Russia |
Tirare tardi per ammirare le notti bianche consente anche la vista dei ponti levatoi che tra l’una e le quattro di mattina si alzano per lasciar passare le navi in entrata e in uscita dal porto. Anche i ponti mobili sono visibili in tutto il mondo, tuttavia nello scenario delle notti bianche assumono un fascino particolare.
La metropolitana: dopo averne viste tante, devo dire
che la metro di San Pietroburgo (a quale potrei abbinare quella di Mosca)
rimane la più impressionante. Scendere a 50 o 100 metri sottoterra, lungo scale
mobili di centinaia di gradini, salire su treni che non si vedono, nascosti
dietro a muri di marmo, lasciare la stazione su un treno che si lancia in
discesa per acquisire velocità fino a metà del tragitto, poi sentire spegnere
il motore (questa è la sensazione) per sfruttare l’abbrivio acquisito e
rallentare fino alla stazione successiva. E’ un metodo unico inventato per
limitare i consumi, che tuttavia dà la sensazione di viaggiare sulle montagne
russe. Normale: tutte le metropolitane viaggiano sottoterra, ma ricordo la
costante minaccia della claustrofobia… di cui io non soffro. E l’idea di fare
la fine del topo ogni tanto mi sfiorava.
Ma la sensazione di disagio veniva spazzata via d’incanto alla vista delle stazioni. Per dare l’idea riporto la descrizione che trovate nel sito https://visitaresanpietroburgo.it/le-piu-belle-stazioni-della-metro-san-pietroburgo/ (che può fornire molte altre info sull’argomento) dà di una delle più belle, quella di Antovo:
La stazione della metro Antovo, San Pietroburgo, Russia |
In sostanza dedicherei senza dubbio una mezza giornata a viaggiare in metropolitana tra una stazione e l’altra solo per ammirarle.
L'Ermitage: non perdo tempo a dare notizie su uno dei più bei musei del mondo: Internet ne è pieno. Preferisco esprimere le mie sensazioni che possono aiutare per farsi un’idea. San Pietroburgo non è paragonabile a Parigi, questo è ovvio, ma l’Hermitage (con o senza H iniziale) è paragonabile al Louvre, come minimo. Per questo a Parigi si può andare per tanti motivi oltre al Louvre, mentre credo che a San Pietroburgo si vada soprattutto (se non solo) per l’Hermitage. Da qui discende il consiglio di dedicare a questo museo almeno, sottolineo almeno, 2 giorni pieni, se si vuole goderne con un minimo di calma. Ricordiamo tra l’altro che, oltre alle opere esposte, meritano una visita anche i luoghi (siamo all’interno di cinque splendidi ex palazzi imperiali).
Lo scalone centrale dell'Ermitage, San Pietroburgo, Russa |
Ma come si fa
a fare una visita veloce di fronte ad una quantità sorprendente di opere d’arte
e di tale livello: alcune madonne di Leonardo, la preistoria e l’oriente russo,
le clamorose collezioni di ori degli Sciti provenienti dal Caucaso, dalla
Crimea e dall’Ucraina (VII-II secolo a.C.), gli impressionisti e
post-impressionisti, l’arte fiorentina, veneziana, spagnola, fiamminga e
olandese, Raffaello, Matisse…
Ricordo enormi difficoltà all’ingresso, file interminabili, scortesia degli addetti, una burocrazia micidiale (conservo gelosamente i biglietti di ingresso alla collezione speciale delle sale d’oro, scritta a mano e piena di timbri! Eravamo nel 2002, non nel medioevo!). Ma questi biglietti ci consentirono di entrare alle sale velocemente saltando la fila generale (le sale richiedevano un biglietto a parte e, per fortuna, una fila dedicata e molto più breve). Una volta dentro… fu fatta. Spero che le cose siano cambiate, altrimenti terrei in conto questo sistema.
La prospettiva Nevsky: non è una prospettiva, ma l’italianizzazione
del russo Prospekt che significa viale. La strada che attraversa il
centro (4,5 km), la più importante, una delle più famose d’Europa. E’ la più importante
via della città, il centro della vita e dei commerci (e dei turisti). Vi si
trovano bar, ristoranti, negozi, gallerie d’arte, chiese, palazzi importanti,
banche, profumerie, negozi di souvenir e un fauna umana incredibile di
venditori ambulanti, manager, turisti e, si dice, borseggiatori e truffatori vari.
Nikolaj V. Gogol tra il 1831 e il 1835) la descrisse così:Ma più strani di tutti sono i fatti che accadono sulla prospettiva Nevskij. Oh, non credete a questa prospettiva Nevskij! Io mi imbacucco sempre ben stretto nel mio mantello, quando vi passo, e cerco di non guardare affatto gli oggetti che incontro. Tutto è inganno, tutto è sogno, tutto è diverso da quel che sembra! Voi pensate che quel signore che passeggia in un soprabito di splendida fattura sia molto ricco? Nemmeno per sogno, il soprabito è tutto quel che ha. Vi immaginate che quei due grassoni che si sono fermati davanti alla chiesa in costruzione ragionino della sua architettura? Niente affatto: dicono com’è strano il modo in cui due cornacchie si sono posate una di fronte all’altra. Pensate che quell’entusiasta che agita le braccia racconti come sua moglie abbia gettato una pallina dalla finestra contro un ufficiale a lui totalmente sconosciuto? Niente affatto, parla di Lafayette. Pensate che quelle signore…ma men che mai credere alle signore…”La Prospettiva Nevsky di Gogol è chiaramente una metafora e allora, suggerisce lo scrittore russo, ognuno ha la propria. Basta trovarla per conoscere un po’ meglio se stessi.
La famosissima via sarebbe la Rue de Rivoli della città. Mi rendo conto che sto citando spesso Parigi parlando di S. Pietroburgo. Ma, d’altra parte, per almeno due secoli i modelli culturali, architettonici e artistici furono la Francia (vedere la straordinaria collezione di arte francese dell’Hermitage) e l’Italia (oltre alla nutrita presenza di arte italiana al museo, lo dimostra la lunga listi di architetti italiani – primo tra tutti Rastrelli - che operarono a S. Pietroburgo).
Non è ovviamente
Rue de Rivoli, ma la lunga passeggiata
che serve per percorrerla tutta, mostra il cuore pulsante di S. Pietroburgo.
Oltre a
quanto di noto può offrire, ricordo un particolare che potrebbe sfuggire, una “chicca”
liberty: al num. 56, il negozio di alimentari
Yaliseevsky, la più clamorosa “drogheria” che abbia mai visto, costruita
tra il 1901 e il 1903.
Forse anche
lui, come noi, si aspettava una grande struttura, impianti imponenti, una
specie di Disneyland, anche se Disneyland di certo non l’aveva mai vista.
Invece il parco giochi occupava un piccolo spazio quadrato tra i palazzi che
incombevano intorno.
Secondo
quanto avevamo letto, dal ventiseiesimo congresso del Partito Comunista
Sovietico era emersa una direttiva: “abbellire i nostri cortili”. Poco importa
che sia vero o inventato, ciò che conta è che Arkady Kontsepolsky, clown
circense di mestiere, prese sul serio l’invito e cominciò a costruire un parco
giochi nel cortile sotto le finestre di casa sua. Era il 1979. Come sempre
capita - e non solo in Russia - non fu costretto a lottare solo con le
difficoltà dell’impresa, ma anche con la burocrazia, i ritardi nella
concessione del permesso ufficiale e le infinite commissioni di valutazione
subite, senza dimenticare l’ostilità dei vicini che non vedevano con favore la
sua iniziativa. Ma Arkady non si scoraggiò e proseguì nell’impresa. Completò il
parco giochi e lo battezzò col nome del suo amato cane: Ramses.
Avvicinandomi
provai una profonda delusione. Mi sembrò quasi una discarica di rottami di
natura e materiali diversi, accatastati negli anni senza criterio. Il cielo
grigio, le nuvole scure che lasciavano cadere una pioggerella fredda e
insistente aggiungevano tristezza al tutto e alimentavano la delusione per un
luogo abbandonato che non reggeva al confronto con quanto avevo immaginato o
sperato. Nemmeno alla lontana.
Quando
cominciai a mettere a fuoco i dettagli dell’opera di Arkady e a rendermi conto
che forse il parco non era una semplice accozzaglia di tubi e legni incastrati
tra loro, udimmo un rumore di passi alle nostre spalle. Mi voltai e vidi un
vecchio che si avvicinava, un po’ curvo, accompagnato da un grosso cane, un alano. Ci venne incontro e di fronte a noi si fermò.
Lo osservai
con attenzione e non ebbi difficoltà a riconoscerlo. Era Arkady, senza dubbio!
La Lonely Planet riportava una sua
foto. Sorrideva… Sorridevano le sue labbra, sorridevano gli occhi, emanavano la
stessa felicità dei bambini per i quali aveva lavorato tutta la vita e ci
ringraziavano. Ringraziavano noi, bambini ormai cresciuti, venuti da lontano
per ammirare la sua opera proprio nel giorno in cui la pioggia aveva tenuto
lontani quelli veri, lasciando il parco deserto. Anche il cane che lo
accompagnava sembrava felice di vederci e ci faceva festa.
Come si fa a
comprendersi quando manca una lingua comune? Il russo era a noi sconosciuto e
qualsiasi altra lingua non era quella di Arkady. Ma noi italiani possediamo ciò
che gli anglosassoni disprezzano: la mimica, la gestualità. E Arkady, un clown,
figuriamoci, in quest’arte era maestro. Ci capivamo a gesti, senza difficoltà.
Mentre lo
accarezzavo, scoprii che il cane era Ramses, cioè non il vero Ramses, ma un suo
discendente che ne aveva ereditato il nome. Aveva conservato pure l’abitudine
di portare in groppa i bambini più piccoli, come faceva il suo antenato dal quale
aveva ricevuto in dote una stazza che quasi lo faceva assomigliare a un pony.
Arkady ci
introdusse nel suo parco e, a gesti, ci mostrò quello che conteneva e noi
cominciammo a distinguere un gioco dall’altro e a renderci conto di quanto era
riuscito a costruire. Ciò che da fuori sembrava indecifrabile e confuso, da
vicino mostrava la fantasia e la maestria del costruttore che aveva condensato
un numero incredibile di attrazioni in uno spazio così limitato. Non erano
opere perfette, è chiaro, ma come si fa a costruire una casetta di legno su due
zampe di pollo con i pochi mezzi che Arkady aveva a disposizione, senza
ammettere qualche difetto? Qua un piccolo giardino, là una fontana luminosa, da
questa parte un mulino a vento, da quella un castello “tipo Biancaneve”. E poi giostrine, statue, sedie e lettini per
il riposo dei bambini. A poco a poco le evidenti imperfezioni e le
approssimazioni costruttive svanivano per lasciare posto alla meraviglia per
un’opera che la volontà di un uomo solo non avrebbe mai potuto compiere, se non
sorretto da un amore smisurato per i bambini. L’amore di un clown.
Commossi, alla fine della visita salutammo Arkady e Ramses e chiedemmo al taxista quanto ci sarebbe costata la corsa verso l’aeroporto. Gli chiedemmo di essere preciso perché avremmo portato con noi solo la cifra necessaria a pagarlo, non un copeco in più. Tutti i rubli che ci erano rimasti sarebbero infatti andati a loro, ad Arkady e Ramses, per il loro piccolo, meraviglioso parco giochi che nessuna Disneyland potrà mai eguagliare.
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