Donna Herero e giovani Himba, due popoli del Kaokoland - Namibia |
Itinerario:
in Namibia: Windhoek, Fish River
Canyon, Lüderitz,
Kolmanskop, Sossusvlei, Namib Nat. Park, Swakopmund, Cape Cross, monti
Drakesberg, Khorixas, Twyfelfontein, terrazze dell’Ugab, Kaokoland, Opuwo,
Etosha Nat. Park, Waterberg Nat. Park;
in Zimbabwe: cascate Vittoria e
Victoria Falls Nat. Park;
Periodo: luglio-agosto 1990
Durata: 1 mese
Ne parlo nel libro: Il Gatto Buddhista
Ne parlo nel libro: Il Gatto Buddhista
Come
sarà oggi la Namibia? Ai tempi del mio viaggio praticamente nessuno sapeva dove
fosse, l’ho anche sentita chiamare ‘Nabibia’. Tanto per dire: per procurarci
una guida del paese dovemmo rivolgerci ad un’amica che ce ne trovò una da
Stanford a Londra. Lo spunto per il viaggio c’era arrivato da un numero
speciale che la rivista ‘Airone’ dedicò alla Namibia nell’ottobre del 1987. Le
straordinarie foto degli Himba e degli Herero, degli orici sulle dune di Sossusvlei,
delle otarie di Cape Cross, delle formazioni rocciose dei monti Drakensberg ci
convinsero in fretta e partimmo. E colloco questo viaggio nella top 3 di tutti
quelli che ho fatto. La natura ai suoi massimi livelli (sia mondo animale che
minerale) non mi ha mai lasciato dubbi.
A
mantenere un ricordo fantastico del paese contribuì anche la sorprendente
organizzazione dei servizi che trovammo e le ottime piste che attraversavamo (Kaokoland
a parte). Basti ricordare, a proposito, questi due episodi.
Per
una gravissima rottura di un fuoristrada rimanemmo fermi a 600 km a sud della
capitale. Riuscimmo con un passaggio a raggiungere un’isolata stazione di servizio
che mandò immediatamente un carro attrezzi per recuperare l’auto. Dalla stazione
di servizio telefonammo all’agenzia che ci aveva affittato le Toyota (era ormai
pomeriggio) e questa nella notte inviò un’altra 4x4 alla stazione di servizio.
Il mattino seguente alle 8 potemmo ripartire per il nostro viaggio come se
nulla fosse successo.
L’altro
episodio riguarda un controllo che alle 6 di mattina nel parco del Namib effettuarono
i ranger (tirandoci fuori dal sacco a pelo) per verificare se le nostre
prenotazioni per il campeggio erano in regola. Precisione tedesca. Sottolineo
che stiamo parlando di Africa nel 1990.
La Namibia ha avuto per lo più un passato coloniale,
entrando nella storia moderna alla fine dell’Ottocento come colonia tedesca (appunto)
per diventare un secolo dopo un protettorato del Sudafrica. Fino al 1990,
quando acquistò l’indipendenza.
Non a caso eravamo
arrivati in quell’anno. Volevamo essere presenti, almeno come spettatori, alla
storica conquista. Purtroppo non mi sembrava di percepire un’aria nuova o che la gente potesse credere a un futuro diverso, ad altre possibilità
di vita. Di sicuro per i lavoratori neri addetti ai diversi servizi necessari
al funzionamento della città - commessi, venditori, operai, autisti – sembrava
che tutto continuasse come prima e senz’altro era così. Come sempre a sera
venivano caricati sui pullman e spediti nella locale Soweto di periferia. La città si svuotava dei neri, ma non si
riempiva dei bianchi, semplicemente restava deserta.
Kolmanskop,
la città fantasma.
Conosco amici che negli ultimi anni sono
tornati da Kolmanskop delusi lamentando che ormai la città perduta
nel deserto è diventata un museo a tutti gli effetti con accesso controllato, l’organizzazione
che ne consegue, ecc. ecc. Io ricordo invece un’esperienza esaltante, unica.
Nel 1908 un operaio trovò
un diamante in quell’area e fu l’inizio della corsa al prezioso minerale,
simile e quasi contemporanea alla corsa all’oro nel Klondike. Sembra che i
diamanti si trovassero addirittura all’aperto, sparsi sulla sabbia. E nello
sconfinato deserto del Namib sorse l’elegante Kolmanskop, dotata di ogni
confort: un casino, un teatro, una
piccola fabbrica di ghiaccio, negozi e abitazioni per dirigenti e operai, una
piscina e un ospedale che fu dotato, narrano le cronache, della prima macchina
per raggi-x dell’emisfero sud. Fu costruita anche la ferrovia che ora tendeva
al cielo i suoi monconi.
Ma,
come nel Klondike, anche a Kolmanskop l’Eldorado
svanì presto. Furono scoperti più a nord
giacimenti diamantiferi più redditizi e la scoperta, aggiunta al calo delle
vendite dei diamanti causato in Europa dalla prima guerra mondiale, convinse
l’industria estrattiva a trasferirsi là. Lentamente la città venne abbandonata,
fino a quando negli anni ’50 rimase deserta. Il vento e la sabbia, che si erano
piegati per alcuni decenni alla forza e al volere degli uomini, cominciarono
lentamente a riprendersi ciò che era stato loro da sempre, distruggendo a poco
a poco le case e gli altri presuntuosi manufatti umani. In circa quarant’anni
era nata e morta Kolmanskop, lasciando al suo posto il paese fantasma che avevo
intorno.
Le
case degli operai, più fragili e peggio costruite, erano state le prime a
crollare, anche se non del tutto. Qualcosa era ancora in piedi, qualche tetto,
a volte gli stipiti di porte e finestre, qualche trave dei soffitti. Sembrava
che, una volta entrata, la sabbia non fosse interessata a sgretolare subito
l’edificio, che le bastasse averlo conquistato. Spinta dal vento aveva
ammassato nelle camere dune a volte tanto alte da arrivare al soffitto. I
corridoi erano invasi dalla sabbia che entrava e usciva dalle porte sfondate e
mi consentiva, volendo, di entrare e uscire attraverso le finestre del primo
piano. C’erano ancora sedie, tavoli e qualche armadio a ricordare che c’era la
vita dove ormai la sabbia era padrona.
Gli
edifici più importanti, i più robusti, erano meglio conservati. C’era quello
che potremmo chiamare circolo ricreativo, destinato allo svago nelle ore libere
dal duro lavoro. C’era ancora il bar con uno splendido bancone di legno che
avrebbe fatto la felicità di qualsiasi antiquario. C’era un bel po’ di polvere
e sabbia ovunque, ma il bar sembrava pronto ad aprire il giorno dopo. C’erano
vassoi, bicchieri a disposizione e il listino prezzi delle bevande appeso alla
parete. C’era anche una piccola pista da bowling, con le bocce e i birilli
pronti all’uso, tutto di legno. Un fantastico museo di ebanisteria dei primi
del ‘900. C’era il teatro ancora dotato di palco, quinte e fondali appesi al
soffitto e di complicati macchinari necessari alla loro movimentazione.
Infine c’era il capolavoro architettonico della
città: l’abitazione del direttore della miniera. Nonostante fosse stata
soggetta nel tempo a evidenti devastazioni, lasciava ancora intravedere, o
almeno immaginare, il livello di eleganza che si poteva trovare tra quelle dune
all’inizio del secolo scorso. Due piani, grandi finestre e verande, carta alle
pareti, un’elegante scala interna con balaustra intarsiata.
La Baviera in Africa.
Conoscendo poco la sua
storia, quando arrivammo aWindhoek (la capitale) rimasi sorpreso nel costatare
che
dopo aver attraversato mezzo mondo per arrivare in Namibia, nella punta
meridionale dell’Africa, mi sembrava di essere in Baviera, poco lontano da
casa. Lo stesso mi successe a Lüderitz, come a Swakopmund, come in
altre città del paese. In sostanza accanto alle bidonville dove erano confinati i neri, incontravo edifici liberty
dell’inizio del ‘900 che non avrebbero sfigurato in una qualsiasi città europea
o americana. Fra questi mi colpì, a Lüderitz, la stazione ferroviaria
dove forse arrivavano ancora alcuni chilometri di rotaie, ma nessun treno, perché
ormai la ferrovia era caduta in disuso da tempo.
La vendetta degli
sciacalli.
Lo sciacallo dalla gualdrappa è coraggioso e furbo, ha capito che
con il suo sguardo simpatico e gli occhi vispi ispira fiducia e tenerezza nei viaggiatori.
Così te lo trovi a volte attorno al campo, soprattutto all’ora dei pasti.
Sappiamo che non si può dare cibo agli animali selvatici, perché in questo modo
imparano a dipendere dall’uomo per il cibo e possono contrarre da lui malattie
umane da cui non sanno difendersi. Al lodge di Okakwejo (Etosha Nat. Park) andammo a
dormire dopo esserci difesi, per tutta la cena, dalla petulanza di alcuni
sciacalli dalla gualdrappa che si erano intrufolati nel camping del lodge.
Nonostante la loro insistenza da noi non ottennero nulla, ma la loro vendetta
fu davvero cattiva. Al mattino le nostre scarpe, che avevamo lasciato fuori
dalle tende, furono ritrovate lì intorno in mille pezzi.
Kaokoland (Herero, Himba).
Si chiama Kaokoland la regione
a nord-ovest della Namibia al confine con l’Angola. Si tratta di una zona molto
vasta, desertica e montuosa. Bellissima. Era difficile attraversarla, non c’erano
piste decenti e segnate, nessuna possibilità di qualsiasi rifornimento. Avevamo
rinunciato a guide ed autisti locali e guidavamo da noi le due Toyota Hilux che
avevamo in dotazione. Ci affidavamo a carte militari comprate a Windoek. Furono tre giorni di guida durissimi durante i quali bucammo la
bellezza di 6 pneumatici esaurendo la nostra scorta: per fortuna bastarono. Per
sicurezza, ad intervalli regolari lasciavamo sulla pista dei segnali (mucchi di
pietre riconoscibili) come punti di riferimento nel caso non fossimo riusciti ad
attraversare la regione e avessimo dovuto ritornare indietro. Come compenso per
questa fatica vedemmo luoghi incontaminati e spettacolari e incontrammo il
popolo Himba, quando ancora aveva pochi contatti con il mondo cosiddetto “civile”.
Sullo speciale di Airone ricordo la foto di una ragazza Himba, con
i costumi tradizionali (vedere foto), che sceglie prodotti sullo scaffale di un
supermercato a Opuwo. Gli Himba appartengono alla grande famiglia degli Herero
e provengono da nord. Nelle loro migrazioni verso sud, alcuni si fermarono nel
Kaokoland, altri proseguirono finendo a contatto con i colonizzatori bianchi (tedeschi,
sarà un caso?) che prima li vestirono poi li sterminarono. Con il solito sistema
dei Bianchi: armarono un popolo (i Nama) e lo scatenarono contro gli Herero. Gli
Herero rimasti nel Kaokoland intanto conducevano una vita tanto miserabile che
i vicini Angolani presero a chiamarli Himba (accattoni) e questo nome è rimasto
fino ad oggi.
Questi hanno mantenuto l’abbigliamento tradizionale, le donne di quelli che invece si erano sparpagliati per il paese adottarono il caratteristico abito coloniale e ispirato alla moda europea del tempo; è costituito da una enorme crinolina, una serie di sottogonne e un copricapo a forma di corno.
Il nostro arrivo a Orupembe, il villaggio principale Himba nel centro del Kaokoland, sollevò curiosità e un’enorme sorpresa tra la gente: non erano molti gli stranieri che arrivavano allora da quelle parti.
Questi hanno mantenuto l’abbigliamento tradizionale, le donne di quelli che invece si erano sparpagliati per il paese adottarono il caratteristico abito coloniale e ispirato alla moda europea del tempo; è costituito da una enorme crinolina, una serie di sottogonne e un copricapo a forma di corno.
Il nostro arrivo a Orupembe, il villaggio principale Himba nel centro del Kaokoland, sollevò curiosità e un’enorme sorpresa tra la gente: non erano molti gli stranieri che arrivavano allora da quelle parti.
Dov’è il leone?
E' un test che ho proposto
tempo fa sul web. Dov’è il leone? Cercatelo nella foto con attenzione, perché
non è facile scovarlo anche se è in bella vista. Anche dal vivo non l’avevo
scoperto, tuttavia poi mi sono accorto che si vedeva benissimo.
Su questa foto posso fornire dati preoccupanti, fate attenzione:
- Obiettivo: 50 mm, ottica fissa
(non un tele, né uno zoom);
- Distanza del leone dal
finestrino del nostro 4x4: max 5 m;
- Distanza del leone dal lodge
di Halali nell’Etosha N.P: max 250 m.
Dov'è il leone? Un test interessante - Namibia |
Ripropongo
il test per mostrare che gli animali nei parchi africani ci sono, ma non è
sempre facile vederli. Sono selvaggi e quindi potenzialmente pericolosi. E non
parlo solo dei felini, ma anche di ippopotami, elefanti, rinoceronti, bufali,
coccodrilli, scimmie, iene… Sul web circolano filmati di turisti sbruffoni che
non ne hanno tenuto conto e ci hanno rimesso la pelle. Tenetelo presente se vi
capita di visitare un parco africano.
Il fumo che tuona (le cascate Vittoria).
Chissà se l’emozione provata da David Livingstone quando
arrivò qui nel 1855 fu paragonabile alla mia quando mi affacciai per la prima
volta sul precipizio che dà, come un vertiginoso balcone, sul salto principale.
Per me fu veramente profonda. Il rombo assordante, la nebbia creata dall’acqua
che precipita (da cui il nome locale che significa ‘il fumo che tuona’), gli arcobaleni che si
formano di continuo generano un contrasto impressionante con la calma placida
del fiume a monte del gran balzo. Gli ippopotami in queste acque calme trascorrono
la loro vita, poco attenti ai rischi che corrono. Qualcuno infatti ogni tanto
perde la gara con la corrente e viene trascinato via sfracellandosi in fondo alle rapide. Questo
fu il racconto (un po’ preoccupante) del barcaiolo che ci condusse sul fiume a
monte delle rapide, a poca distanza dalla cascata.
Cascate Vittoria sullo Zambesi - Zimbabwe |
Ricordo l’impressione che mi
fece arrivare a un centinaio di metri dal salto: davanti ai miei occhi avevo il
fronte placido del grande Zambesi, largo più di un km, che scompariva sotto una
linea immaginaria oltre la quale c’era solo il cielo. E tutta quell’acqua sembrava scomparire nel nulla. Attorno alla cascate la nuvola d’acqua perenne
garantisce la vita di due parchi naturali, tutt’altro che trascurabili (uno in
Zimbabwe e l’altro in Zambia), che danno asilo a una flora rigogliosa e a molti
animali, anche di grosse dimensioni come giraffe e bufali. A mio avviso solo quelle di Iguazù superano le cascate Vittoria per imponenza e maestosità.
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