Per gentile concessione dell'editore POLARIS
Il sentiero si allungava davanti
ai miei passi costeggiando la riva di un canale. Oltre il canale correva un
reticolato, alto tre o quattro metri e dietro si alzava una torre di guardia. Guardando
avanti, altre torri identiche ed equidistanti e da ogn’una un altoparlante
gracchiava una musica solenne, un misto tra classica e militare, accompagnata
da un canto baritonale. Ricordava i cori dell’armata rossa e russa era infatti la
lingua dei canti che mi giungevano. Troppo facile riconoscere intorno a me,
nella luce del mattino, i dettagli di un campo di concentramento, in quel caso
di un gulag.
Sulla destra il sentiero lambiva
la foresta e poco più in là raggiungeva una radura che ospitava una grande
statua di Lenin che con gesto teatrale sembrava indicare a masse popolari
invisibili il cammino verso il riscatto. Non si udivano fischi in aria e non
c’erano attorno contadini curvi, ma la promessa storica sembrava confermata: fratello non temere che corro al mio dovere,
trionfi la giustizia proletaria! Più avanti in un'altra radura incontrai
Stalin, anch’egli di bronzo e alto almeno tre metri, intento a meditare sulle
responsabilità e i compiti che la storia gli aveva affidato. Più altero di
Lenin, che nello sforzo di indicare l’orizzonte aveva gli abiti scomposti dal
vento, Stalin stava in posizione eretta, quasi sull’attenti, il cappotto
abbottonato ed il berretto militare calato sugli occhi.
Quel giorno conobbi e riconobbi, tra
betulle e musiche marziali, quasi un centinaio di protagonisti del comunismo europeo,
tutti irrigiditi nelle posizioni tipiche che la propaganda dei regimi affida ai
monumenti, catalogati per ruoli e tendenze. Qua i pensatori e i politici con
Marx, Engels e Lenin, là i fautori del terrore con i responsabili del Partito
Comunista Lituano e più lontano gli ufficiali dell’Armata Rossa sovietica. Mi
trovavo in Lituania ai confini con la Bielorussia, più precisamente a Grutas, non
in un gulag, ma nel Mondo di Stalin,
la cui storia merita di essere raccontata.
Dopo la caduta del muro di
Berlino la Lituania riacquistò l’indipendenza dall’Unione Sovietica e, tra i tanti
sconvolgimenti di quegli anni, uno poco conosciuto all’estero coinvolse le
statue e i monumenti eretti in tutto il paese al regime comunista e ai suoi
eroi. Vennero smantellati a decine e in attesa di deciderne la sorte furono
ammassati ovunque ci fosse un po’ di spazio. In Lituania, nonostante l’odio che
li circondava, la mancanza di una precisa strategia sul loro destino li salvò dalla
distruzione, sorte che invece subirono in Estonia e Lettonia, le altre repubbliche
baltiche. Dopo qualche tempo cominciò il dibattito: cosa farne? Distruggerli o
conservarli?
Nel pieno della discussione un
industriale del posto propose di raccoglierli a proprie spese in un unico luogo
di sua proprietà da dedicare alla tragica memoria del periodo sovietico. La
proposta fu accolta e il primo aprile del 2001 il luogo venne inaugurato con il
nome ufficiale di Grutas Park. Ma per la gente diventò il Mondo di Stalin perché fosse chiaro fin dal nome il genere del
luogo.
La storia della Lituania nel ‘900
fu caratterizzata da un susseguirsi di invasioni periodiche da ovest e da est
per mano del terzo Reich e dell’Unione Sovietica, che misero in atto nel paese
le nefandezze più atroci, dalle deportazioni di massa allo sterminio degli
oppositori. La ferocia arrivò da oriente come da occidente, tuttavia i Lituani sembrano
ricordare i Russi con odio più profondo di quello riservato ai Tedeschi.
La mia famiglia ha vissuto più di
una tragedia durante la guerra di liberazione dai nazifascisti ed io, fortunato
a nascere dopo la fine di quel terribile periodo, ho ereditato dai miei vecchi l’immagine
del soldato tedesco quale emblema della crudeltà. Sì, c’erano anche i fascisti,
ma quelli erano pur sempre italiani, certamente crudeli, ma anche un po’
ridicoli, un po’ cialtroni, Italiani insomma. I Tedeschi invece erano il Male, quello
vero, precisi nella loro malvagità, disumani, implacabili. Penso che ogni
popolo abbia sopportato nella sua storia oppressori e lutti, eppure quella
mattina mi appariva insolita l’idea che, dopo aver sperimentato sia il regime
di Hitler che quello di Stalin, i Lituani potessero scegliere quest’ultimo come
più tragico.
L’apertura del parco non poteva
lasciare indifferente la popolazione che accusò l’ideatore di svendere la
memoria del paese in un parco di divertimenti, una Disneyland del dolore. In
effetti c’erano anche altre attrazioni, alcune meno solenni dei monumenti: un
piccolo zoo, un parco giochi per i bambini ed un museo che esponeva molti
cimeli, giornali, documenti e ricordi di ogni tipo dell’era sovietica. C’erano
i manifesti, i dipinti e le foto inneggianti al socialismo reale. Contadini,
soldati e intellettuali intenti a costruire, nella classica iconografia della falce e martello, un avvenire di pace e lavoro.
C’erano anche tappeti che raffiguravano i capi del comunismo e all’ingresso non
mancava un vagone ferroviario utilizzato per la deportazione degli ebrei
lituani in Siberia.
Di fronte ai monumenti, in
maggior parte dedicati a veri e propri criminali, pensavo che la storia non si possa
cancellare e che talvolta sia preferibile conoscere da dove si viene piuttosto
che cercare di immaginare dove si andrà. Per un paio di generazioni di Lituani sarà
ancora impossibile guardare i monumenti senza rabbrividire, ma i discendenti dei
testimoni e delle vittime ci riusciranno. E allora forse le statue appariranno per
quello che sono: pezzi di bronzo e marmo forgiati casualmente ad immagine di
personaggi del passato. E racconteranno con equilibrio la storia della Lituania
ai Lituani e a coloro che passeranno di là. Per me, estraneo alla storia del
paese, era ciò che accadeva in quel momento. Quelle icone del passato, sbalzate
dal piedistallo originale, erano ormai oggetti da esposizione e avevano perduto,
credo per sempre, la loro carica ideologica insieme con i valori che un tempo le
accompagnarono. I grandi monumenti improntati al realismo socialista, le
scritte, i cippi fusi nel bronzo facevano quasi tenerezza e i volti severi non
incitavano, non ammonivano e non minacciavano più. Né esortavano ormai
all’ubbidienza e alle eroiche imprese.
Era una giornata di sole, i
monumenti erano immersi nel verde ed io non mi trovavo in una piazza nebbiosa
di fronte a un lugubre ministero dell’Est. Persino la musica che si spandeva
nell’aria non lasciava indifferenti, tanto che mi chiedevo: anche di fronte ai
simulacri dell’oppressione e della barbarie, come si può non provare un brivido
ascoltando le note di Kalinka? [1] Il
parco mi raccontava il terrore, me ne presentava i protagonisti, ma non lasciava
che mi invadesse e, mentre i bambini si rincorrevano nel parco giochi, mi sembrava
che gli idoli del comunismo che mi sfilavano davanti avessero perso la loro
ferocia. E non fui sorpreso nell’apprendere che alcuni dei monumenti del
parco erano opera dello stesso scultore che molti anni dopo aveva forgiato il
busto di Frank Zappa ammirato il giorno prima in una piazza di
Vilnius. [2]
Lo spirito del luogo mi faceva rivivere le scene di Good Bye Lenin! [3] In un appartamento
di Berlino Est di settantanove metri quadrati, la Repubblica Democratica
Tedesca sopravvive ancora un po’ di tempo dopo la caduta del muro. Anzi, il
protagonista Alex riesce addirittura a portare la madre Christiane, destinata
ad una morte imminente, a credere ad una Germania finalmente riunificata, anche
se grazie al passaggio all’est dei Tedeschi dell’ovest. Quando la madre muore l’illusione
finisce e la storia riprende il suo corso, ma Alex è felice perché lei se n’è
andata senza soffrire per il crollo del mondo in cui credeva.
Nell’appartamento di Alex
l’illusione della sopravvivenza della DDR non era destinata a resistere a lungo,
anzi era legata al brevissimo tempo che a sua madre restava da vivere. Nel Grutas
Park invece i monumenti dureranno ancora molto tempo, ma solo perché il marmo e
il bronzo sono più resistenti del debole cuore di Christiane. Fuori
dall’appartamento di Alex e dal mondo di
Stalin nulla era più come prima, ma nel Grutas Park rimaneva la bellezza
del luogo che non poteva lasciare indifferente nessuno, che volesse sputare in
faccia a Lenin o rimpiangesse la sua impossibile utopia.
[1] Kalinka è considerata la canzone russa più famosa
di tutti i tempi.
[2] Vilnius é la capitale della Lituania
[3] Good Bye Lenin! è un film del 2003 diretto da Wolfgang Becker
Grutas, Lituania agosto 2005
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