venerdì 19 febbraio 2016

RACCONTO: Ciao Stalin!

(tratto dal mio libro: IL CONFINE IMMAGINARIO)

Per gentile concessione dell'editore POLARIS

Il sentiero si allungava davanti ai miei passi costeggiando la riva di un canale. Oltre il canale correva un reticolato, alto tre o quattro metri e dietro si alzava una torre di guardia. Guardando avanti, altre torri identiche ed equidistanti e da ogn’una un altoparlante gracchiava una musica solenne, un misto tra classica e militare, accompagnata da un canto baritonale. Ricordava i cori dell’armata rossa e russa era infatti la lingua dei canti che mi giungevano. Troppo facile riconoscere intorno a me, nella luce del mattino, i dettagli di un campo di concentramento, in quel caso di un gulag.


Sulla destra il sentiero lambiva la foresta e poco più in là raggiungeva una radura che ospitava una grande statua di Lenin che con gesto teatrale sembrava indicare a masse popolari invisibili il cammino verso il riscatto. Non si udivano fischi in aria e non c’erano attorno contadini curvi, ma la promessa storica sembrava confermata: fratello non temere che corro al mio dovere, trionfi la giustizia proletaria! Più avanti in un'altra radura incontrai Stalin, anch’egli di bronzo e alto almeno tre metri, intento a meditare sulle responsabilità e i compiti che la storia gli aveva affidato. Più altero di Lenin, che nello sforzo di indicare l’orizzonte aveva gli abiti scomposti dal vento, Stalin stava in posizione eretta, quasi sull’attenti, il cappotto abbottonato ed il berretto militare calato sugli occhi.

Quel giorno conobbi e riconobbi, tra betulle e musiche marziali, quasi un centinaio di protagonisti del comunismo europeo, tutti irrigiditi nelle posizioni tipiche che la propaganda dei regimi affida ai monumenti, catalogati per ruoli e tendenze. Qua i pensatori e i politici con Marx, Engels e Lenin, là i fautori del terrore con i responsabili del Partito Comunista Lituano e più lontano gli ufficiali dell’Armata Rossa sovietica. Mi trovavo in Lituania ai confini con la Bielorussia, più precisamente a Grutas, non in un gulag, ma nel Mondo di Stalin, la cui storia merita di essere raccontata.

Dopo la caduta del muro di Berlino la Lituania riacquistò l’indipendenza dall’Unione Sovietica e, tra i tanti sconvolgimenti di quegli anni, uno poco conosciuto all’estero coinvolse le statue e i monumenti eretti in tutto il paese al regime comunista e ai suoi eroi. Vennero smantellati a decine e in attesa di deciderne la sorte furono ammassati ovunque ci fosse un po’ di spazio. In Lituania, nonostante l’odio che li circondava, la mancanza di una precisa strategia sul loro destino li salvò dalla distruzione, sorte che invece subirono in Estonia e Lettonia, le altre repubbliche baltiche. Dopo qualche tempo cominciò il dibattito: cosa farne? Distruggerli o conservarli?

Nel pieno della discussione un industriale del posto propose di raccoglierli a proprie spese in un unico luogo di sua proprietà da dedicare alla tragica memoria del periodo sovietico. La proposta fu accolta e il primo aprile del 2001 il luogo venne inaugurato con il nome ufficiale di Grutas Park. Ma per la gente diventò il Mondo di Stalin perché fosse chiaro fin dal nome il genere del luogo.

La storia della Lituania nel ‘900 fu caratterizzata da un susseguirsi di invasioni periodiche da ovest e da est per mano del terzo Reich e dell’Unione Sovietica, che misero in atto nel paese le nefandezze più atroci, dalle deportazioni di massa allo sterminio degli oppositori. La ferocia arrivò da oriente come da occidente, tuttavia i Lituani sembrano ricordare i Russi con odio più profondo di quello riservato ai Tedeschi.

La mia famiglia ha vissuto più di una tragedia durante la guerra di liberazione dai nazifascisti ed io, fortunato a nascere dopo la fine di quel terribile periodo, ho ereditato dai miei vecchi l’immagine del soldato tedesco quale emblema della crudeltà. Sì, c’erano anche i fascisti, ma quelli erano pur sempre italiani, certamente crudeli, ma anche un po’ ridicoli, un po’ cialtroni, Italiani insomma. I Tedeschi invece erano il Male, quello vero, precisi nella loro malvagità, disumani, implacabili. Penso che ogni popolo abbia sopportato nella sua storia oppressori e lutti, eppure quella mattina mi appariva insolita l’idea che, dopo aver sperimentato sia il regime di Hitler che quello di Stalin, i Lituani potessero scegliere quest’ultimo come più tragico.

L’apertura del parco non poteva lasciare indifferente la popolazione che accusò l’ideatore di svendere la memoria del paese in un parco di divertimenti, una Disneyland del dolore. In effetti c’erano anche altre attrazioni, alcune meno solenni dei monumenti: un piccolo zoo, un parco giochi per i bambini ed un museo che esponeva molti cimeli, giornali, documenti e ricordi di ogni tipo dell’era sovietica. C’erano i manifesti, i dipinti e le foto inneggianti al socialismo reale. Contadini, soldati e intellettuali intenti a costruire, nella classica iconografia della falce e martello, un avvenire di pace e lavoro. C’erano anche tappeti che raffiguravano i capi del comunismo e all’ingresso non mancava un vagone ferroviario utilizzato per la deportazione degli ebrei lituani in Siberia.

Di fronte ai monumenti, in maggior parte dedicati a veri e propri criminali, pensavo che la storia non si possa cancellare e che talvolta sia preferibile conoscere da dove si viene piuttosto che cercare di immaginare dove si andrà. Per un paio di generazioni di Lituani sarà ancora impossibile guardare i monumenti senza rabbrividire, ma i discendenti dei testimoni e delle vittime ci riusciranno. E allora forse le statue appariranno per quello che sono: pezzi di bronzo e marmo forgiati casualmente ad immagine di personaggi del passato. E racconteranno con equilibrio la storia della Lituania ai Lituani e a coloro che passeranno di là. Per me, estraneo alla storia del paese, era ciò che accadeva in quel momento. Quelle icone del passato, sbalzate dal piedistallo originale, erano ormai oggetti da esposizione e avevano perduto, credo per sempre, la loro carica ideologica insieme con i valori che un tempo le accompagnarono. I grandi monumenti improntati al realismo socialista, le scritte, i cippi fusi nel bronzo facevano quasi tenerezza e i volti severi non incitavano, non ammonivano e non minacciavano più. Né esortavano ormai all’ubbidienza e alle eroiche imprese.

Era una giornata di sole, i monumenti erano immersi nel verde ed io non mi trovavo in una piazza nebbiosa di fronte a un lugubre ministero dell’Est. Persino la musica che si spandeva nell’aria non lasciava indifferenti, tanto che mi chiedevo: anche di fronte ai simulacri dell’oppressione e della barbarie, come si può non provare un brivido ascoltando le note di Kalinka? [1] Il parco mi raccontava il terrore, me ne presentava i protagonisti, ma non lasciava che mi invadesse e, mentre i bambini si rincorrevano nel parco giochi, mi sembrava che gli idoli del comunismo che mi sfilavano davanti avessero perso la loro ferocia. E non fui sorpreso nell’apprendere che alcuni dei monumenti del parco erano opera dello stesso scultore che molti anni dopo aveva forgiato il busto di Frank Zappa ammirato il giorno prima in una piazza di Vilnius. [2]
Lo spirito del luogo mi faceva rivivere le scene di Good Bye Lenin! [3] In un appartamento di Berlino Est di settantanove metri quadrati, la Repubblica Democratica Tedesca sopravvive ancora un po’ di tempo dopo la caduta del muro. Anzi, il protagonista Alex riesce addirittura a portare la madre Christiane, destinata ad una morte imminente, a credere ad una Germania finalmente riunificata, anche se grazie al passaggio all’est dei Tedeschi dell’ovest. Quando la madre muore l’illusione finisce e la storia riprende il suo corso, ma Alex è felice perché lei se n’è andata senza soffrire per il crollo del mondo in cui credeva.

Nell’appartamento di Alex l’illusione della sopravvivenza della DDR non era destinata a resistere a lungo, anzi era legata al brevissimo tempo che a sua madre restava da vivere. Nel Grutas Park invece i monumenti dureranno ancora molto tempo, ma solo perché il marmo e il bronzo sono più resistenti del debole cuore di Christiane. Fuori dall’appartamento di Alex e dal mondo di Stalin nulla era più come prima, ma nel Grutas Park rimaneva la bellezza del luogo che non poteva lasciare indifferente nessuno, che volesse sputare in faccia a Lenin o rimpiangesse la sua impossibile utopia.



[1] Kalinka è considerata la canzone russa più famosa di tutti i tempi.
[2] Vilnius é la capitale della Lituania
[3] Good Bye Lenin! è un film del 2003 diretto da Wolfgang Becker

Grutas, Lituania agosto 2005

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