venerdì 19 febbraio 2016

RACCONTO: La collina delle croci

(tratto dal mio libro: IL CONFINE IMMAGINARIO)

Per gentile concessione dell'editore POLARIS


A vederla dalla strada che corre verso Riga sembrava un'insignificante collinetta. Solo un cartello di legno avrebbe potuto fornire informazioni, se non fosse stato quasi invisibile e scritto in lituano: Kryziu Kalnas. Ma io, anche senza conoscere il lituano, sapevo dalla mia guida che quelle parole significavano collina delle croci, quindi girai il volante e seguii la direzione indicata.

Rimasi stupefatto. La collina che da lontano mi era apparsa come coperta da una bassa vegetazione, in realtà era disseminata di croci, migliaia e migliaia di croci di tutte le dimensioni.  Le più imponenti arrivavano a tre o quattro metri di altezza. Chiamarla collina forse è esagerato perché si tratta di un mucchio di terra alto una decina di metri e lungo trenta. Tuttavia nella storia del paese ha avuto un ruolo fondamentale perché incarna da sempre la coscienza nazionale e religiosa della Lituania. La sua origine è incerta, ma di sicuro è diventata negli ultimi secoli il simbolo della lotta per l’indipendenza del paese e del suo attaccamento alla chiesa di Roma. L’uno e l’altro simbolo erano invisi agli scomodi vicini e padroni, la Russia prima e l’Unione Sovietica poi, che più volte la spianarono con i bulldozer, cercando di seppellire sotto terra sia le croci che il loro significato. Ma queste risorsero ogni volta più numerose di prima e alla fine i tentativi di cancellare la collinetta dalla pianura e dal cuore della gente fallirono.

Quando l’indipendenza della Lituania dall’Unione Sovietica le privò del significato politico avuto fino ad allora, le croci di Jurgaiciai superarono il rischio di vedere la collina privata dell’importanza avuta nei secoli. Vinsero la prova e, dopo la visita di papa Woytila nel settembre del 1993, diventarono un fenomeno religioso capace di varcare i confini del paese.
Mi diressi alla collina passando accanto alla grande croce donata da Giovanni Paolo II che si alza un po’distante dall’inizio della salita, perché ormai le croci hanno occupato tutto lo spazio sul monticello e cominciano a diffondersi ai suoi piedi, fino al piazzale di accesso.
Camminare tra le croci significava in realtà percorrere alcuni sentieri stretti e tortuosi che nel tempo gli innumerevoli passaggi dei fedeli hanno aperto, casualmente, tra di esse. Fuori dai sentieri mi era impossibile spingermi, impedito dall’incredibile groviglio che rendeva inaccessibili tutte le croci che non erano direttamente a portata di mano. Sorprendente appariva il loro numero – dicono siano più di cinquantamila - di cui mi rendevo conto solo avvicinandomi a quelle più grandi, per scoprire che ne portavano appese decine più piccole che loro volta ne sorreggevano centinaia ancora più piccole, alte pochi centimetri. Ognuna carica della storia e delle speranze di chi l’aveva portata là. E poi c’erano sculture a migliaia, immagini di santi e rosari appesi ovunque. Tra le tante mi colpì una statua in legno che ritraeva Cristo dolente assiso ai piedi della croce. La sofferenza che trasmetteva il suo volto mi sembrava provenire più dal peso delle croci sopportate che dallo stesso martirio. Infatti, sulla collina le croci piantate a terra non sono numerose, la maggior parte sono appese ad altre. Se sono poche, tuttavia quelle erette sono alte e per questo mi sembrava di camminare in un bosco di croci più alte di me. La pioggia dei giorni precedenti esaltava il profumo della foresta intorno alla collina, reso più pungente da quello del legno delle croci che il tempo stava lentamente consumando.

Un vento delicato rinfrescava l’aria del pomeriggio e faceva dondolare le croci. Ne scaturiva un tintinnio leggero che induceva al silenzio anche i visitatori più distratti. Fra quanti erano sulla collina c’erano anche coloro che avevano portato qualcuna di quelle croci. Era facile riconoscerli da come le osservavano assorti o ascoltavano il sussurro del vento ad occhi chiusi.

Dalla cima della collina vidi arrivare un’auto dalla quale scesero cinque persone, un uomo ed una donna molto giovani, accompagnati da un uomo ed una donna anziani, più una bambina. Erano tutti vestiti a festa, come se fossero diretti ad una cerimonia importante. L’uomo anziano aveva in mano una pala, l’uomo giovane una croce alta come lui e la bambina una corona di fiori. La ragazza indossava scarpe con i tacchi alti e cercava di non inciampare nel vestito bianco che le arrivava alle caviglie. Era una sposa. Arrivati alle prime croci lo sposo scavò una buca e in quella lei fece scivolare la croce, poi la bambina vi appese la corona di fiori. Rimasero qualche minuto in raccoglimento poi tornarono all’auto andandosene, pensai io, alla festa con gli amici e i parenti.  Così un tempo forse era nata e così continuava ad espandersi la collina delle croci.

Il lungo bastone cesellato che partiva dalla mia mano si separava nella parte finale in una piccola forcella all’interno della quale girava un disco che rotolava sul terreno, come una ruota. In fondo al bastone era fissata la sagoma di legno di un omino, con tanto di cappello e con le gambe snodate all’altezza delle anche e delle ginocchia. I piedi erano agganciati a due fili di ferro fissati ai due lati della forcella al centro della ruota, come due pedali. Un altro filo di ferro, fissato sul bastone, assomigliava ad un manubrio e su di esso arrivavano le braccia dell’omino. Spingendo il bastone, la ruota rotolava sul terreno e trasmetteva il movimento ai pedali che facevano muovere le gambe dell’omino. Sembrava che pedalasse di sua iniziativa e con un po’ di fantasia potevo immaginare che fosse lui a trascinare avanti il bastone e me che lo reggevo con mani di bambino. Questo fu uno dei tanti giocattoli che mio padre inventò per me. Non era solo un problema di soldi. Ho avuto anch’io giocattoli acquistati o regalati che provenivano da qualche negozio. Mio padre progettava e costruiva giocattoli perché si divertiva. La necessità economica semmai era quella che lo aveva obbligato in gioventù a costruire un letto, un mobile o altri oggetti per la casa. Era stato, infatti, costretto dalla vita ad imparare a fare di tutto ed aveva acquisito una manualità che possiamo trovare solo nelle mani degli artigiani più esperti. Fin qui la necessità. Poi venivano i giocattoli.

Intuivo che stava pensando a qualcosa quando, in modo generico e assente, come se stesse parlando a sé stesso, mi chiedeva del mio eventuale interesse per un’idea che aveva in mente. Quindi, senza discutere in realtà dell’argomento o ascoltare la mia opinione, si metteva al lavoro seguendo un progetto noto solo a lui. Non era interessato alle sorprese e quindi potevo assistere alla nascita del giocattolo conversando e chiedendogli spiegazioni che non sempre mi aiutavano a indovinare il risultato. L’omino in bicicletta non fu l’unico giocattolo a sfruttare quell’ingegnoso meccanismo. Ricordo un gallo che, mosso dal movimento della ruota, alzava e abbassava la testa nell’atto di beccare un mangime immaginario.

La passione di mio padre per i lavori manuali aumentò quando, ormai in pensione, si trovò molto tempo a disposizione. Trascorreva intere giornate nel garage dove si era costruito un piccolo laboratorio di falegnameria e dove, trascorsa ormai per me l’età dei giocattoli, costruiva di tutto: piccoli mobili, scatole e oggetti di uso diverso. Riprese anche la produzione di uno sdraio di cui aveva costruito il primo esemplare, ancora in funzione in casa mia, riproducendo a memoria un modello che aveva studiato durante il servizio militare. Continuò questa attività per molti anni fabbricando oggetti di ogni genere.

Poi un giorno costruì un rosario, con legni di diverso colore per distinguere le cinquine di grani che ne rappresentano i Misteri. Prima ancora di sorprendermi per l’insolito manufatto, mi sbalordì la perfetta sfericità dei grani del rosario che aveva costruito senza la disponibilità di un tornio. Scoprii che in mancanza di questo aveva inventato un uso alternativo del trapano. Era la specialità di mio padre: usare gli strumenti per uno scopo diverso da quello per il quale erano stati fabbricati. Un trapano diventava un tornio artigianale mentre un cacciavite poteva usarsi come uno scalpello o viceversa. Un piccolo crocefisso completava il rosario.

All’inizio non diedi importanza a questo suo nuovo interesse, anche se in seguito mi resi conto che avrei dovuto essere più attento, perché ho sempre creduto che mio padre fosse ateo. Dopo quello ci furono altri rosari e crocifissi e da allora, con mia grande sorpresa, la sua produzione si orientò decisamente verso oggetti sacri senza che io mi fermassi ad interpretare questa nuova tendenza. Forse la percezione dell’avvicinarsi della fine lo stava cambiando. Forse lo stava riavvicinando a quella religione che, pur manifestandosi in riti e linguaggi per lui incomprensibili e forse proprio per questo negata per tutta la vita, aveva comunque lasciato delle tracce negli anni della sua infanzia. E le tracce stavano forse riemergendo prepotenti, addirittura implacabili, se lo portavano ad esprimersi costruendo con dedizione rosari e crocefissi. Mio padre leggeva molto ma parlava poco e non disse mai nulla di importante su questa nuova passione. Avrei dovuto chiedere, ma non lo feci. Pensavo che avrei avuto tutto il tempo per farlo.

E invece il tempo non ci fu perché la malattia se lo portò via all’improvviso in un giorno d’autunno, senza concedermi questa possibilità. Così rimasi con il mio senso di colpa e le mie domande che ancora oggi non trovano risposte – e come potrebbero, ormai? - mentre osservo il rosario di legno bicolore che mio padre costruì tanti anni.

Quando partii per la Lituania non conoscevo ancora l’esistenza della Collina delle Croci, altrimenti avrei portato con me il rosario e l’avrei appeso ad una delle croci che sorgono nel punto più alto della collina. Era quello il suo destino! Ora sarebbe là nel sole o nella nebbia di Jurgaiciai a tintinnare alla brezza del Baltico e là sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni. E’ di ottimo legno e sarebbe durato molti anni, forse a me sufficienti per capire, pur con irrimediabile ritardo, perché mio padre l’avesse costruito.

Jurgaiciai, Lituania, agosto 2005

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