Per gentile concessione dell'editore POLARIS
A vederla dalla strada che corre
verso Riga sembrava un'insignificante collinetta. Solo un cartello di legno
avrebbe potuto fornire informazioni, se non fosse stato quasi invisibile e
scritto in lituano: Kryziu Kalnas. Ma
io, anche senza conoscere il lituano, sapevo dalla mia guida che quelle parole
significavano collina delle croci,
quindi girai il volante e seguii la direzione indicata.
Rimasi stupefatto. La collina che
da lontano mi era apparsa come coperta da una bassa vegetazione, in realtà era disseminata
di croci, migliaia e migliaia di croci di tutte le dimensioni. Le più imponenti arrivavano a tre o quattro metri
di altezza. Chiamarla collina forse è esagerato perché si tratta di un mucchio
di terra alto una decina di metri e lungo trenta. Tuttavia nella storia del
paese ha avuto un ruolo fondamentale perché incarna da sempre la coscienza
nazionale e religiosa della Lituania. La sua origine è incerta, ma di sicuro è
diventata negli ultimi secoli il simbolo della lotta per l’indipendenza del
paese e del suo attaccamento alla chiesa di Roma. L’uno e l’altro simbolo erano
invisi agli scomodi vicini e padroni, la Russia prima e l’Unione Sovietica poi,
che più volte la spianarono con i bulldozer, cercando di seppellire sotto terra
sia le croci che il loro significato. Ma queste risorsero ogni volta più
numerose di prima e alla fine i tentativi di cancellare la collinetta dalla
pianura e dal cuore della gente fallirono.
Quando l’indipendenza della
Lituania dall’Unione Sovietica le privò del significato politico avuto fino ad
allora, le croci di Jurgaiciai superarono il rischio di vedere la collina
privata dell’importanza avuta nei secoli. Vinsero la prova e, dopo la visita di
papa Woytila nel settembre del 1993, diventarono un fenomeno religioso capace
di varcare i confini del paese.
Mi diressi alla collina passando
accanto alla grande croce donata da Giovanni Paolo II che si alza un
po’distante dall’inizio della salita, perché ormai le croci hanno occupato
tutto lo spazio sul monticello e cominciano a diffondersi ai suoi piedi, fino
al piazzale di accesso.
Camminare tra le croci
significava in realtà percorrere alcuni sentieri stretti e tortuosi che nel
tempo gli innumerevoli passaggi dei fedeli hanno aperto, casualmente, tra di
esse. Fuori dai sentieri mi era impossibile spingermi, impedito
dall’incredibile groviglio che rendeva inaccessibili tutte le croci che non
erano direttamente a portata di mano. Sorprendente appariva il loro numero –
dicono siano più di cinquantamila - di cui mi rendevo conto solo avvicinandomi
a quelle più grandi, per scoprire che ne portavano appese decine più piccole
che loro volta ne sorreggevano centinaia ancora più piccole, alte pochi centimetri.
Ognuna carica della storia e delle speranze di chi l’aveva portata là. E poi
c’erano sculture a migliaia, immagini di santi e rosari appesi ovunque. Tra le
tante mi colpì una statua in legno che ritraeva Cristo dolente assiso ai piedi
della croce. La sofferenza che trasmetteva il suo volto mi sembrava provenire più
dal peso delle croci sopportate che dallo stesso martirio. Infatti, sulla
collina le croci piantate a terra non sono numerose, la maggior parte sono
appese ad altre. Se sono poche, tuttavia quelle erette sono alte e per questo mi
sembrava di camminare in un bosco di croci più alte di me. La pioggia dei
giorni precedenti esaltava il profumo della foresta intorno alla collina, reso
più pungente da quello del legno delle croci che il tempo stava lentamente
consumando.
Un vento delicato rinfrescava
l’aria del pomeriggio e faceva dondolare le croci. Ne scaturiva un tintinnio
leggero che induceva al silenzio anche i visitatori più distratti. Fra quanti
erano sulla collina c’erano anche coloro che avevano portato qualcuna di quelle
croci. Era facile riconoscerli da come le osservavano assorti o ascoltavano il sussurro
del vento ad occhi chiusi.
Dalla cima della collina vidi
arrivare un’auto dalla quale scesero cinque persone, un uomo ed una donna molto
giovani, accompagnati da un uomo ed una donna anziani, più una bambina. Erano
tutti vestiti a festa, come se fossero diretti ad una cerimonia importante.
L’uomo anziano aveva in mano una pala, l’uomo giovane una croce alta come lui e
la bambina una corona di fiori. La ragazza indossava scarpe con i tacchi alti e
cercava di non inciampare nel vestito bianco che le arrivava alle caviglie. Era
una sposa. Arrivati alle prime croci lo sposo scavò una buca e in quella lei
fece scivolare la croce, poi la bambina vi appese la corona di fiori. Rimasero
qualche minuto in raccoglimento poi tornarono all’auto andandosene, pensai io,
alla festa con gli amici e i parenti.
Così un tempo forse era nata e così continuava ad espandersi la collina
delle croci.
Il lungo bastone cesellato che
partiva dalla mia mano si separava nella parte finale in una piccola forcella
all’interno della quale girava un disco che rotolava sul terreno, come una
ruota. In fondo al bastone era fissata la sagoma di legno di un omino, con
tanto di cappello e con le gambe snodate all’altezza delle anche e delle
ginocchia. I piedi erano agganciati a due fili di ferro fissati ai due lati
della forcella al centro della ruota, come due pedali. Un altro filo di ferro,
fissato sul bastone, assomigliava ad un manubrio e su di esso arrivavano le
braccia dell’omino. Spingendo il bastone, la ruota rotolava sul terreno e trasmetteva
il movimento ai pedali che facevano muovere le gambe dell’omino. Sembrava che
pedalasse di sua iniziativa e con un po’ di fantasia potevo immaginare che
fosse lui a trascinare avanti il bastone e me che lo reggevo con mani di
bambino. Questo fu uno dei tanti giocattoli che mio padre inventò per me. Non
era solo un problema di soldi. Ho avuto anch’io giocattoli acquistati o regalati
che provenivano da qualche negozio. Mio padre progettava e costruiva giocattoli
perché si divertiva. La necessità economica semmai era quella che lo aveva
obbligato in gioventù a costruire un letto, un mobile o altri oggetti per la
casa. Era stato, infatti, costretto dalla vita ad imparare a fare di tutto ed
aveva acquisito una manualità che possiamo trovare solo nelle mani degli artigiani
più esperti. Fin qui la necessità. Poi venivano i giocattoli.
Intuivo che stava pensando a
qualcosa quando, in modo generico e assente, come se stesse parlando a sé
stesso, mi chiedeva del mio eventuale interesse per un’idea che aveva in mente.
Quindi, senza discutere in realtà dell’argomento o ascoltare la mia opinione,
si metteva al lavoro seguendo un progetto noto solo a lui. Non era interessato
alle sorprese e quindi potevo assistere alla nascita del giocattolo conversando
e chiedendogli spiegazioni che non sempre mi aiutavano a indovinare il
risultato. L’omino in bicicletta non fu l’unico giocattolo a sfruttare quell’ingegnoso
meccanismo. Ricordo un gallo che, mosso dal movimento della ruota, alzava e
abbassava la testa nell’atto di beccare un mangime immaginario.
La passione di mio padre per i
lavori manuali aumentò quando, ormai in pensione, si trovò molto tempo a
disposizione. Trascorreva intere giornate nel garage dove si era costruito un
piccolo laboratorio di falegnameria e dove, trascorsa ormai per me l’età dei giocattoli,
costruiva di tutto: piccoli mobili, scatole e oggetti di uso diverso. Riprese
anche la produzione di uno sdraio di cui aveva costruito il primo esemplare,
ancora in funzione in casa mia, riproducendo a memoria un modello che aveva studiato
durante il servizio militare. Continuò questa attività per molti anni fabbricando
oggetti di ogni genere.
Poi un giorno costruì un rosario,
con legni di diverso colore per distinguere le cinquine di grani che ne rappresentano
i Misteri. Prima ancora di
sorprendermi per l’insolito manufatto, mi sbalordì la perfetta sfericità dei
grani del rosario che aveva costruito senza la disponibilità di un tornio. Scoprii
che in mancanza di questo aveva inventato un uso alternativo del trapano. Era
la specialità di mio padre: usare gli strumenti per uno scopo diverso da quello
per il quale erano stati fabbricati. Un trapano diventava un tornio artigianale
mentre un cacciavite poteva usarsi come uno scalpello o viceversa. Un piccolo
crocefisso completava il rosario.
All’inizio non diedi importanza a
questo suo nuovo interesse, anche se in seguito mi resi conto che avrei dovuto
essere più attento, perché ho sempre creduto che mio padre fosse ateo. Dopo quello
ci furono altri rosari e crocifissi e da allora, con mia grande sorpresa, la
sua produzione si orientò decisamente verso oggetti sacri senza che io mi
fermassi ad interpretare questa nuova tendenza. Forse la percezione
dell’avvicinarsi della fine lo stava cambiando. Forse lo stava riavvicinando a
quella religione che, pur manifestandosi in riti e linguaggi per lui
incomprensibili e forse proprio per questo negata per tutta la vita, aveva
comunque lasciato delle tracce negli anni della sua infanzia. E le tracce
stavano forse riemergendo prepotenti, addirittura implacabili, se lo portavano
ad esprimersi costruendo con dedizione rosari e crocefissi. Mio padre leggeva
molto ma parlava poco e non disse mai nulla di importante su questa nuova
passione. Avrei dovuto chiedere, ma non lo feci. Pensavo che avrei avuto tutto
il tempo per farlo.
E invece il tempo non ci fu
perché la malattia se lo portò via all’improvviso in un giorno d’autunno, senza
concedermi questa possibilità. Così rimasi con il mio senso di colpa e le mie
domande che ancora oggi non trovano risposte – e come potrebbero, ormai? -
mentre osservo il rosario di legno bicolore che mio padre costruì tanti anni.
Quando partii per la Lituania non
conoscevo ancora l’esistenza della Collina delle Croci, altrimenti avrei
portato con me il rosario e l’avrei appeso ad una delle croci che sorgono nel
punto più alto della collina. Era quello il suo destino! Ora sarebbe là nel
sole o nella nebbia di Jurgaiciai a tintinnare alla brezza del Baltico e là
sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni. E’ di ottimo legno e sarebbe durato
molti anni, forse a me sufficienti per capire, pur con irrimediabile ritardo,
perché mio padre l’avesse costruito.
Jurgaiciai, Lituania, agosto 2005
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