mercoledì 26 dicembre 2018

Viaggio in Rajasthan (India)

Elefante bardato a festa per "Holy",
Jaipur, India
Itinerario: New Delhi, Matura, Agra, Fatehpur Sikri, Keoladeo Nat. Park, Ranthambore Nat. Park, Kota, Bundi, Chittaugarh, Nathdwara, Ranakpur, Mount Abu, Jodhpur, Jaisalmer, Bikaner, Karni Devil Temple, Mandawa, Jaipur, Amber, New Delhi
Periodo: marzo 1992
Durata: 3,5 settimane
Ne parlo nei libri:  IL GATTO BUDDISTACi sono posti così 

Quando scrivo di un viaggio dopo molti anni, mi domando sempre se mi piacerebbe ritornare e in quale stato potrei ritrovarlo. È così anche per il Rajasthan, un paese che vanta una cultura profonda, frutto dell’incontro di culture diverse, che ha patito per secoli guerre fratricide e scontri con popoli invasori. Ricchezze sfrenate e miserie inaccettabili. Una religiosità diffusa e vissuta che non ho mai incontrato in altri paesi. 
In un paese come l’India, che sta attraversando uno sviluppo squilibrato come tutte le cosiddette “tigri orientali”, immagino che sarebbe difficile ritrovare il mondo che incontrai nel 1992, prima di Internet e dei cellulari. I colori e gli abbigliamenti della gente… come saranno adesso? E un ultimo dubbio: il Rajasthan sarà ancora oggi il paradiso dei fotografi?

Le tigri di Ranthambore. Come si fa a parlare della tigre e della sua situazione in queste poche righe? L’argomento è sterminato e angosciante allo stesso tempo. Meglio lasciare il campo agli esperti e alla buona volontà di chi ha voglia di informarsi. Walmik Thapar (https://en.wikipedia.org/wiki/Valmik_Thapar) è un naturalista, conservazionista e fotografo indiano famoso nel mondo, attivo da una vita sul salvataggio della tigre del Bengala. Lo contattammo durante il nostro viaggio per chiedergli di scrivere un articolo sullo stato della tigre nel mondo per il libro Destini Incerti. Accettò il nostro invito. Lascerei quindi la parola lui. Oppure mi informerei sull’andamento del Progetto Tigre (https://www.wwf.it/tigre/chi_e/tx2/).


Tigre del Bengala nel parco nazionale di Ranthambore, Rajasthan, India

Con la sua numerosa popolazione di tigri il parco di Ranthambore costituiva prima del nostro arrivo una delle riserve di punta del Progetto, ma nel 1992 (anno della nostra visita) il mondo finì sotto shock a causa dei risultati di una ricerca: le tigri del parco erano passate dalle 44 del 1991 alle 17 del 1992! Un calo inaspettato e terribile. Le cause? Le cause, come sempre, erano l’uomo e la sua pressione demografica sulle risorse naturali e la sua scellerata cupidigia. E in questa criminale gara all’estinzione della tigre si distinguono i cinesi che si sono inventati proprietà terapeutiche inesistenti per i macabri prodotti estratti da questo splendido animale (soprattutto ossa). Thapar sosteneva che il valore delle ossa di tigre sul mercato internazionale era più alto dell’oro e tale mercato è paragonabile a quello della droga. Lo diceva nel 1994, ma è di un’attualità drammatica.
Riporto una sua frase lapidaria e vera che smaschera l’umano disinteresse per la natura.
“La parola sostenibile nel mondo di oggi è tanto di moda che, all’interno del più insostenibile stile di vita che noi conduciamo, siamo in grado prontamente di evitare le nostre colpe trovando razionalizzazioni e cosiddette soluzioni per gli abitanti selvatici del nostro pianeta. A volte ciò che viene definito come essere a favore delle comunità locali o come sviluppo sostenibile diventa un semplice slogan”.
A noi tutto sommato andò bene: riuscimmo a vedere la tigre. La osservammo da molto vicino (pochi metri) e le stemmo accanto per più di un’ora, mentre gironzolava e faceva il bagno nel fiume, ma fu una soltanto.
Oggi leggo resoconti di visitatori che denunciano una situazione quasi invivibile nel parco di Ranthambore: prezzi assurdi, assalto di visitatori e auto, visite limitate a poche aree del parco, col risultato che vedere una tigre spesso rimane una speranza delusa. La conclusione è che in India ci sono altri parchi dove le probabilità di incontrare questo splendido animale sono maggiori. Fino a quando?

Tempio Jain a Dilwara (monte Abu), Rajasthan, India




Il mondo Jain. Mahavira, fondatore del Jainismo nacque nel 599 a.C. e come Siddharta (poi Buddha) rinunciò al trono. Andò in giro per tutta la vita nudo per simboleggiare il suo distacco dalle cose. La sua dottrina, diffusa dai seguaci (uomini e donne) dopo la sua morte, afferma che tutte le creature viventi (sottolineiamo: tutte) possiedono un’anima e sono degne dello stesso rispetto dovuto agli essere umani. Quindi nei loro templi non è infrequente incontrare monaci con naso e bocca coperti per non uccidere (respirandolo) anche il più piccolo degli insetti. 


Monaco in un tempio Jain di Jaisalmer,
Rajasthan, India
I jainisti sono davvero tolleranti con tutti, perfino le altre religioni, tanto che non è raro trovare rappresentazioni di divinità indù nei loro strepitosi templi di monte Abu, di Ranakpur, di Bikaner e, soprattutto, di Jaisalmer. 
I loro templi, capolavori architettonici di valore assoluto, sono i più belli di tutta l’India e una permanenza in Rajasthan non può prescindere da una loro visita accurata.

Le sacre mucche. Non è una scoperta, si sa da sempre che le mucche (in realtà zebù) in India sono sacre. E’ quindi normale vedere biciclette e motorini, macchine e camion scansare gli onnipresenti bovini (sono milioni nel paese) lungo le strade trafficatissime di qualsiasi città. Ma nessun indiano si sognerebbe mai di maltrattarle o addirittura farne cibo. Per un occidentale questa usanza, superato l’aspetto folcloristico, potrebbe risultare poco comprensibile, soprattutto quando ci si rende conto che occorre sempre fare attenzione a dove si mettono i piedi: le mucche rappresentano la grande madre che dà latte e vitelli, ma dà anche merda. Ma sono mansuete e non disturbano e alla fine ci si abitua alla loro presenza.
Le onnipresenti mucche sacre, Rajasthan, India
Diventano una componente imprescindibile dell’ambiente che in India ci circonda. Purtroppo lasciare le mucche libere, significa anche abbandonarle a se stesse e quindi se ne incontrano di malate e sofferenti o denutrite. Per il cibo infatti devono accontentarsi della spazzatura o dei manifesti che strappano dai muri, qualche ramo, qualche foglia. Ma per loro fortuna sembra che esistano molti ricoveri nei quali essere ospitate.

Il tempio di Karni Mata, Rajasthan, India

Un tempio per i topi. A Deshnok (30 km a sud di Bikaner) sorge un tempio unico al mondo, da non perdere anche se un po’ inquietante: il santuario di Karni Mata. Più che al reliquiario miracoloso deve la sua fama alla moltitudine di topi che qui godono di protezione assoluta, al punto che lo splendido cortile di accesso è protetto in alto da una rete metallica che li salva dai falchi, corvi e aquile. I topi non mi fanno impressione, tuttavia procedere a piedi scalzi (nei templi si entra così) mentre i topi ti sfrecciano tra i piedi fa un po’ impressione.
E, inoltre, si deve fare attenzione: non si può assolutamente arrecare loro danni in alcun modo, altrimenti si deve fare un offerta la tempio in oro o in argento, o si verrà colpirà dalla sventura. Il loro numero è impressionante, soprattutto dentro o attorno alla grande ciotola posata davanti all’altare di Karni Mata e piena di dolci, latte e cereali donati dal fedeli. Ma è un’esperienza da non perdere, almeno per rendersi conto delle diversità che ci distinguono gli uni dagli altri. Chiamiamola biodiversità. Non c’è solo quella delle piante e degli animali

“Selfie” a monte Abu. Sul monte Abu non si va solo per i clamorosi templi jain di Dilwara (i più belli con quelli di Jaisalmer), dove le sculture in marmo bianco raggiungono dei livelli di raffinatezza tali che si fatica a credere che si possa lavorare una pietra con tanta perizia. Ci si va anche per vedere il tramonto al sunset point. Siano a mille metri di altezza, ai bordi di un strapiombo profondissimo: il sole tramonta di fronte senza nulla che ne ostacoli la vista. Era anche stata costruita una gradinata per permettere al “pubblico” di assistere comodamente. Più del tramonto però mi colpiva la gente (centinaia di persone) entusiasta dello spettacolo, soprattutto i giovani. Arrivavano a gruppi e si vedeva che avevano intrapreso una trasferta non da poco per arrivare lì per il tramonto. Innumerevoli le coppie di novelli sposi che arrivavano solo per farsi fotografare con il cerchio del sole tra le mani o tra le labbra di lui e quelle di lei. Uno spettacolo nello spettacolo. Oggi tutto questo è banale, ma allora i cellulari non erano ancora diffusi. Gli sposini arrivavano con il fotografo ufficiale del matrimonio per fare quelli che oggi sarebbero banali selfie.

Un giro per le haveli dello Shekhavati. Otre a Bikaner, anche le cittadine che stanno nello Shekhawati, tra Bikaner e Jaipur meritano una sosta per le loro straordinarie “haveli”: Mandawa, Dundloh, Nawalgarth, Fatehpur. Le haveli sono case di città, che avevano la funzione, oltre a quella di abitare, di circondare di mura la vita domestica della famiglia. Separata dal mondo esterno un’haveli aveva come riferimento solo se stessa e come punto fermo la separazione degli uomini dalle donne. 

Il cortile interno di un'haveli nel Shekhawati, Rajasthan, India

La facciata, le entrate, le pareti e i cortili interni, i balconi e i soffitti erano interamente coperti di affreschi. Gli affreschi non sono un’abitudine antichissima, risalgono più o meno all’800/900. All’inizio ci furono soggetti religiosi, ma in seguito comparvero i soggetti più strani, come treni, automobili e biciclette. Purtroppo il tempo è nemico degli affreschi e mantenerli costa molto, per questo parecchi li trovavamo messi maluccio. Tuttavia molte haveli erano state restaurate e mantenute e si presentavano come spettacolari esempi di un’architettura civile di altissimo livello.

Bikaner e il cinema. Bikaner non è solo una bella città, la città dello splendido forte Junagath e delle bellissime haveli. Per me, Bikaner significa anche cinema. Per spiegarne il motivo, rimando a questo racconto: Il mio cinema

Holy e le polveri bastarde  di Jaipur. Immagino che a chiunque abbia attraversato l’India, non sia sfuggita la quantità incredibile di polveri multicolori che si vendono nei mercati e nei negozietti del paese, polveri di tutti colori e di ogni sfumatura. Anche se le avevo trovate in tutto il Rajasthan, prima di arrivare a Jaipur non ne conoscevo l’impiego e mi ero chiesto spesso a quale uso fossero destinate. A Jaipur ottenni la risposta: servivano per Holy, la festa dei colori, quella che a nostra insaputa era già in pieno svolgimento dal mercoledì. Un colpo di fortuna.
Le polveri colorate per Holy,
Jaipur, Rajasthan, India

Neanche il tempo di raggiungere l’albergo e avevamo incontrato le prime sfilate di gente che ballava e cantava. Abbigliamenti fantastici. Ai colori dei quali gli indiani normalmente si vestono, si aggiungevano quelli delle polveri che impregnavano sari, veli, tuniche e turbanti. Uno scenario colorato, un fantasmagorico arcobaleno. Non solo vestiti, ma anche volti, mani, piedi e capelli variopinti. Nuvole e sbuffi di polveri volavano ovunque, gettate a manciate da tutti su tutti, come noi a carnevale lanciamo i coriandoli.
Dopo un primo impatto sconcertante, capimmo che la vera protagonista della festa non era la polvere colorata, o meglio, non era solo la polvere, ma l’acqua. L’acqua serviva a diluirla, lo scopo senza dubbio più apprezzato e divertente di Holy. Alle manciate di polvere si aggiungevano le secchiate d’acqua multicolore che andavano a tinteggiare i corpi e i vestiti delle persone. L’acqua variopinta, lanciata da mille mani, scorreva per le strade, gocciolava dai muri. Non era facile rimanere ai bordi della festa senza essere coinvolti, cioè bagnati e colorati dalla testa ai piedi, per cui ci eravamo ritirati presto in albergo.


Alla festa di Holy, Jaipur, Rajasthan, India
A cena la nostra guida ci aveva aggiornato su Holy, festa dei colori. Si tratta di una festa induista che si tiene, al tempo dell’equinozio di primavera, nei paesi di religione indù durante la quale ci si imbratta il più possibile di polveri colorate, si canta e si balla, si accendono falò. Ha poca importanza stabilirne le origini o i connotati religiosi, rappresenta la rinascita alla nuova vita, la morte dell’inverno e l’arrivo della bella stagione. Semplice divertimento.
Il venerdì eravamo rimasti ancora ai margini della festa, a noi solo qualche schizzo. Ci eravamo interessati a rappresentazioni più sobrie e asciutte.
Per le strade la festa continuava tra polveri e docce colorate, mentre negli alberghi di lusso i camerieri, fasciati in livree impeccabili, prelevavano da vassoi d’argento con piccoli cucchiai, anch’essi d’argento, sobrie quantità di polvere rossa o verde per spargerla ossequiosi sul capo dei facoltosi clienti che sorridevano forse senza capire. Il tutto con garbo e parsimonia.
La sera stessa avevamo tenuto tra noi un veloce conciliabolo. Argomento: partecipare davvero o no alla festa? Era venerdì, avevamo a disposizione solo il sabato per lasciarci travolgere. Avevamo avuto la buona sorte di capitare a Jaipur durante la festa più importante dell’anno e cosa volevamo fare? Lasciarcela scappare? Rimanere ai margini come anziani turisti incerti e paurosi? All’unanimità avevamo deciso di starci. Rimaneva da stabilire come. Soprattutto c’era da considerare che quasi tutti eravamo dotati di un’importante attrezzatura fotografica da salvare dai bagni. Nemmeno presa in considerazione l’ipotesi di rinunciare alle foto e di lasciare le macchine fotografiche in albergo. Alla fine avevano optato per una soluzione minima: una macchina a testa da proteggere al meglio con sacchetti di plastica.
Il giorno dopo, sabato, eravamo usciti con l’abbigliamento adatto a Holy, quello che consiglierei a chi volesse partecipare attivamente alla festa: maglietta, pantaloncini corti e ciabatte, tutti indumenti a perdere. Nient’altro, nemmeno borse o documenti. Solo le macchine fotografiche, avvolte in improbabili sacchetti di plastica, eccedevano dal minimo di decenza che comunque dovevamo mantenere. Fosse stato per me saremmo andati in giro in mutande. Avevamo preso un risciò a motore, il mezzo più comodo e veloce per circolare nel traffico indiano, e fornito al guidatore la direzione da prendere. Fu una giornata memorabile, un divertimento che mi riportò all’infanzia. Ho poche foto di Holy, era troppo difficile scattare e nello stesso tempo fare attenzione all’acqua che poteva arrivare da ogni direzione. Tra l’altro ai ragazzi di Jaipur non pareva vero d’innaffiare un gruppetto di stranieri che stavano al gioco, forse gli unici in città. Comunque non c’era da preoccuparsi. Dopo mezz’ora eravamo conciati in modo tale che ormai non sarebbe stato più possibile peggiorare il nostro aspetto. Al nostro rientro avevamo stupito perfino il portiere dell’albergo. E non era finita…

Alla festa di Holy, Jaipur, Rajasthan, India

Giunti al terzo giorno di Holy, non avevamo ancora scoperto che esistevano colori e colori, polveri e polveri. C’era chi le usava a secco, con scarso risultato, e chi le diluiva in acqua come avevamo fatto noi e quasi tutti i locali. Rientrati in albergo stanchi e in condizioni inguardabili, il primo desiderio era una bella doccia. Appena raggiunta la mia camera mi era giunto un urlo: la voce di Paolo. Eravamo accorsi e l’avevamo trovato in bagno, girato di schiena. Si era già lavato, i colori di Holy dalla sua pelle erano scomparsi. Cos’aveva da inveire? Si era girato e, come in un film dell’orrore, ci aveva mostrato un volto blu elettrico. Una macchia blu si allargava dalla testa alla fronte, scendeva sulla guancia sinistra, copriva il naso, l’orecchio e terminava sulla spalla. La bilanciava una macchia rosso scarlatto che gli colorava la parte non blu della testa e il collo. C’era da ridere, ma nessuno aveva osato farlo, non era il momento e poi… di cosa ridere? Eravamo tutti nelle stesse condizioni o magari peggio. Cos’era successo? Semplice, non sapevamo che tra le polveri che si vendevano al mercato e che quasi tutti scioglievano in acqua, ci fossero veri e propri inchiostri, indelebili o quasi. Ci era venuto in mente anche quando era successo, il gruppo di ragazzi con i quali avevamo ingaggiato una variopinta e impari battaglia che avevano vinto loro. Dei compagni ero quello che se l’era cavata meglio, due sole macchie, una blu sulla parte superiore del capo e una rossa che mi copriva quasi tutta la fronte. Erano seguite altre docce prima di andare a dormire, altre il mattino seguente prima di partire per New Delhi, le ultime nella capitale fino al momento di recarci in aeroporto. Niente da fare, i colori erano rimasti, anche se la speranza ci aveva illusi che proprio con l’ultima si fossero un po’ scoloriti. Arrivati a casa le docce si erano intensificate, ma i colori sbiadivano con troppa lentezza. Ci vollero due settimane perché la mia faccia riprendesse il suo colore normale, di certo più spento di quello che mi ero procurato a Jaipur, ma più naturale.


Elefanti preparati per una partita di polo,
Jaipur, Rajasthan India
Poveri elefanti. A Jaipur la festa di Holy trascinava anche un’altra manifestazione di grande importanza: una sfilata rievocativa dei tempi dei maharaja. Figuranti in livree e antichi costumi erano confluiti a dorso di elefante in un grande prato alla periferia della città e qui, purtroppo, si erano trasformati in giocatori e cavalcature di un incontro di polo. I mio rammarico andava ovviamente agli elefanti. Era triste vedere i poveri pachidermi, lenti e impacciati, spronati a movimenti repentini non consoni alla loro mole. Nobili animali umiliati in uno stupido gioco imposto dai colonialisti inglesi. Almeno, anche in quella assurda partita, Holy non mancava, senz’acqua ma con i colori della tavolozza di un pittore naif. Gli elefanti erano infatti dipinti, quasi completamente, con gusto e fantasia.



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