(tratto dal mio libro: IL CONFINE IMMAGINARIO)
Per gentile concessione dell'editore POLARIS
Nel luogo dove capita una morte crudele o ingiusta - una mala muerte - nasce in America Latina un'animita. Sorta per misericordia e pietà della gente, un'animita è un cenotafio popolare che serve ad onorare l’anima di un defunto. Dove il morto terminò incolpevole la vita terrena, là sorge una piccola casa o un tempietto, costruiti dai congiunti ad immagine delle case e delle chiese dei vivi. A volte sorgono veri e propri mausolei. Vi abbondano bandiere, croci e candele che mani pietose cercano di mettere al riparo dal vento e dalla pioggia. A volte anche le tombe assurgono a ruolo di animitas e non sempre si tratta di persone di umile rango, possono anche appartenere a un presidente di repubblica. Come è capitato al sepolcro di José Manuel Balmaceda Fernàndez, presidente della Repubblica del Cile che, pur ricco e potente, è diventato oggetto di culto popolare perché morì suicida nel 1891 e, proprio per questo tragico destino, ghermito da una mala muerte.
Nelle animitas messaggi e scritte trasmettono le suppliche e le richieste di aiuto all’anima del defunto che la mala muerte ha elevato al cielo e al privilegio di poter intercedere presso Dio in favore dei devoti che lo onorano. Ex voto di ogni forma e dimensione, piccoli doni, rosari, corone e targhe di legno, marmo, metallo e plastica si moltiplicano nel tempo attorno ai luoghi venerati, per ringraziare il defunto delle grazie ricevute. Tanti sono i fiori che adornano le animitas, rinnovati di continuo da fedeli, parenti e amici.
La gente di fronte alle animitas parla con il defunto, lo prega, piange, sistema i fiori e le candele. Le animitas si possono trovare in ogni luogo: di fianco a un cimitero, ai lati della strada, nella pianura assolata o su una collina. Ovunque.
Senza ancora conoscere il fenomeno mi stupii di fronte alla tomba della signora Amelia Goyri, nel cimitero Cristòbal Colòn di L’Avana, per i fiori, le targhe di ringraziamento e la piccola folla di persone raccolte di fronte ad essa, come fosse il giorno del suo funerale. Invece la signora morì di parto nel 1901 e quando un po’ di tempo dopo venne riesumata, narra la leggenda che il suo corpo fu rinvenuto incorrotto ed il figlioletto, che era stato sepolto ai suoi piedi, venne ritrovato tra le sue braccia. Era avvenuto il miracolo e la signora Goyri entrò per sempre nel culto popolare. Una morte ingiusta l’aveva elevata di rango e non era più una dei tanti morti che riposano accanto a lei nell’immenso cimitero. E oggi, secondo la tradizione, ogni anno migliaia di pellegrini bussano sulla tomba per chiedere grazie e camminano a ritroso quando se ne vanno, come faceva il marito, disperato per la sua morte, che usciva in questo modo dal cimitero, non potendo staccare gli occhi dalla tomba dell’amata.
Nella provincia di San Juan in Argentina sorge il mausoleo di Deolinda Correa nel punto dove la donna fu ritrovata morta di sete. Era arrivata fino in quel luogo deserto per seguire le tracce del marito, arruolato nell’esercito. Nel suo disperato peregrinare aveva trascinato con sé anche il figlio di pochi mesi e, quando furono ritrovati, il bambino era ancora miracolosamente vivo, sopravvissuto succhiando il latte dal seno della madre morta. Quale fine fu mai più tragica e ingiusta di quella di una madre che perde la vita per cercare il marito e, anche da morta, riesce a salvare suo figlio? Da allora per il popolo che cominciò a venerarla diventò la Defunta Correa e da allora i pellegrini in visita le portano, tra le altre offerte, tante bottiglie di acqua, quell’acqua che avrebbe potuto salvarle la vita.
Fin dall’inizio del viaggio in Patagonia, avevo incontrato diverse animitas piene di fiori e bandiere ai bordi delle strade, nei luoghi dove probabili incidenti avevano spento vite innocenti. Ma quando mi trovai davanti a quella dell’Indio Desconocido [1] nel cimitero di Punta Arenas, ebbi la sensazione di essere al cospetto di una storia diversa dalle altre. Era una giornata di sole che le nuvole nascondevano e scoprivano di continuo, spinte da un vento freddo e tagliente che arrivava dalle montagne che avevo alle spalle. In lontananza le onde azzurre dello stretto di Magellano salutavano un'estate che la temperatura ancora rigida continuava a rimandare.
La statua in bronzo a grandezza naturale dell’indio sconosciuto era racchiusa in un piccolo spazio vicino al muro di cinta del cimitero, in posizione eretta e con lo sguardo rivolto al visitatore. Almeno, pensai, non era nella posa sottomessa dell’indio prostrato alla base del roboante monumento a Magellano che troneggiava nella piazza centrale della città. Attorno al collo, ai fianchi e sulle braccia, mani devote avevano appeso ghirlande e corone e ai suoi piedi avevano deposto vasi di fiori di tutti i colori. Tre muretti delimitavano ai tre lati lo spazio intorno alla statua ed erano coperti da piccole targhe con i ringraziamenti di coloro che avevano ricevuto grazie da lui. Su di esse apparivano i vezzeggiativi più teneri che la lingua spagnola ha in serbo e fra tutti il più frequente era Indiecito. “Grazie Indiecito Desconocido per avere ascoltato le mie preghiere”, “grazie Indiecito per avermi concesso la mia sposa”, “grazie Indiecito per avere guarito mio figlio”, “grazie Indiecito per aver fatto migliorare mia madre”. Ringraziamenti e promesse commoventi tutto intorno, mentre lui sembrava indicare una lapide, posata ai suoi piedi, che recitava:
La storia dell’Indio Desconocido sembra uscita da un racconto di Francisco Coloane, il grande cantore cileno della Patagonia, ma noi la scopriamo da Carlos Baeriswyl che la pubblicò su una rivista di Punta Arenas e che racconta come l’indio sconosciuto diventò l’animita che avevo di fronte.
Nel maggio del 1929 due dipendenti di una compagnia di marmi, un russo e un cileno, furono sbarcati per conto dell’impresa nell’isola Diego de Almagro, a sud di Punta Arenas, dove erano stati trovati grandi quantità di marmo, a quei tempi vera e proprio ricchezza per la Patagonia. Il loro compito era quello di presidiare i primi interventi della compagnia in attesa dell’inizio ufficiale dello sfruttamento e di difenderli dagli attacchi degli indigeni Alacalufe[3] che abitavano nell’isola. I due furono lasciati là di presidio, in attesa che la nave che li aveva accompagnati ritornasse a Punta Arenas in cerca di altri lavoratori e altro materiale. I giorni passavano vuoti e noiosi per i due guardiani, la pioggia cadeva insistente e gli Alacalufe li tormentavano continuamente.
Un giorno alcuni indigeni li attaccarono con armi da fuoco. Il cileno cadde colpito a morte mentre il russo riuscì a difendersi dopo avere a sua volta colpito uno degli aggressori. In seguito i nativi lo aggredirono con maggiore decisione ed il russo fu costretto a ripiegare all’interno dell’isola lasciando alla loro mercé il corpo del compagno.
Quando la nave tornò come previsto da Punta Arenas i primi a sbarcare raccontarono di aver trovato un indigeno morto, mentre il cileno era sommerso a pochi metri dalla riva, legato mani e piedi ad un pezzo di marmo. Quando i due corpi arrivarono a Punta Arenas, poiché nessuno aveva reclamato i loro corpi, vennero entrambi sepolti in un’unica bara nel cimitero della città. La tomba non aveva una lapide e quindi anche i nomi scomparvero. Dopo qualche tempo una mano sconosciuta pose sul posto una targa di marmo su cui si leggeva Indio Desconocido. Cominciarono ad apparire candele e denaro che la gente vi collocava per chiedere grazie e favori e si cominciò ad attribuire all’Indio Desconocido il potere di concedere grazie miracolose. A poco a poco la credenza si diffuse e la fama dei poteri miracolosi dell’Indio crebbe, la tomba venne spostata più volte negli anni fino al luogo dove mi trovavo. Uno scultore scolpì la statua e un poeta compose la poesia che era ai suoi piedi.
Mentre ero assorto nella lettura delle devozioni all’Indio, arrivavano famiglie con bambini, giovani e meno giovani, ragazzi soli o in gruppetti e mi accorgevo che molti fedeli avevano la stessa altezza e la stessa fisionomia dell’Indio senza nome. Erano come lui. Guardavo intensamente i loro volti mentre deponevano un fiore o sistemavano un vaso e cercavo di indovinare i loro pensieri. Cercavo di capire se anche loro avevano in mente un’altra storia per l’Indio, come ce l’avevo io. E mentre osservavo le persone che si fermavano, anche solo per uno sguardo, di fronte alla sua animita, la mia storia prendeva forma, diversa da quella ufficiale, e mutava il significato del luogo.
Alberto Maria De Agostini era il fratello minore di Giovanni De Agostini, fondatore dell’omonimo Istituto Geografico. Sacerdote salesiano fu anche un grande geografo ed esploratore ed il suo nome è legato a molti viaggi di ricognizione nella Terra del Fuoco e nella Patagonia australe. All’inizio del ‘900 arrivò come missionario nel sud del Cile e dell'Argentina, ove i Salesiani cercavano di difendere gli ultimi Indigeni della Terra del Fuoco e delle aree a nord dello Stretto di Magellano che stavano soccombendo nello scontro con i bianchi, o meglio i coloni bianchi, in cerca di pascoli per le loro greggi sterminate. Gli Indigeni avevano retto con successo l’impatto con i primi Europei e in seguito anche quello con le altre popolazioni indigene spinte verso sud dall’avanzata dell’esercito argentino che veniva alla conquista di quello che chiamava il deserto. Fu uno scontro tra genti, culture e mondi tanto diversi da non consentire alcun esito alternativo a quello che alla fine lascia sul campo vivi o morti, vincitori o vinti, padroni o schiavi. Non serve distinguere tra le diverse popolazioni perché tutte subirono la stessa tragica sorte. I nativi furono annientati non solo dalla violenza delle armi ma anche dalla civilizzazione, alla quale dovettero cedere, a volte anche senza l’uso apparente della forza, che li spinse ad abbandonare valori e costumi vecchi di secoli. La civilizzazione offriva loro una vita più facile, viveri più sicuri, armi, vestiti; ma in cambio portava malattie, alcool, privazione delle terre, violenza e morte. Per i nativi, che basavano l’esistenza sul nomadismo e la caccia al guanaco,[4] le pecore importate e allevate dagli Europei erano una specie di guanaco bianco, una preda più attraente e facile da cacciare. Nello stesso tempo per gli allevatori bianchi le enormi estensioni abitate dai nativi apparivano come territori spopolati da occupare. E li occuparono. I nativi, nomadi per abitudine, apparivano ai loro occhi come predatori di guanachi o, peggio, come predatori di pecore. Lo scontro fu inevitabile come fu inevitabile che questi ultimi soccombessero.
Coloane racconta che al suo arrivo a Punta Arenas, negli anni Venti del secolo scorso, c’erano ormai pochi Indigeni che vivevano ancora su alcune isole, quasi privi di mezzi di sostentamento. I Salesiani cercarono di salvare gli ultimi costruendo missioni nelle quali insegnavano loro a civilizzarsi, cioè a convertirsi alla religione cristiana, a vestirsi come gli occidentali, ad imparare un mestiere. Ma ad ogni visita alle missioni di San Rafael o della Candelaria, il loro fondatore Monsignor Fagnano vedeva diminuirne la popolazione e aumentare il numero delle croci nei cimiteri. Da parte mia, le ultime tracce di queste genti le riconoscevo nei tratti somatici di molte delle persone che incontravo ogni giorno per le strade della Patagonia e nelle splendide foto che Padre De Agostini aveva scattato durante le spedizioni compiute in quelle terre.
A Punta Arenas, a pochi passi dal cimitero dove riposa l’Indio Desconocido, sorge il Museo Salesiano Maggiorino Borgatello. Qui si possono vedere oggetti, manufatti e strumenti di lavoro dei popoli nativi e conoscere i loro usi. Ci sono anche le foto di Padre De Agostini che mostrano i costumi, i villaggi e i volti delle genti che aveva incontrato nelle pianure, tra le montagne e lungo i canali della Terra del Fuoco. Ma, oltre a queste, sono esposte anche le angoscianti foto degli Indigeni scattate nelle missioni dai Salesiani a testimonianza del tentativo di civilizzarli e, secondo loro, di proteggerli. In esse si possono vedere preti al fianco di Alacalufe vestiti con improbabili giacche e camicie, ragazze Ona[5] con cuffie bianche in compagnia di suore arcigne accanto ad una stufa in una scuola di cucina. I loro occhi, cupi e sbarrati, denunciano disagio e paura, quelli dei missionari sono invece determinati e sicuri di sé, come gli occhi dei cacciatori che presentano i trofei di una battuta di caccia. Di fronte a quei volti, che avevano gli stessi lineamenti dell’indio senza nome, pensavo che in fondo si può togliere la vita anche senza uccidere.
E così per me la vera storia dell’Indio Desconocido aveva assunto un senso diverso da quello che usciva dalla storia raccontata da Carlos Baeriswyl. L’indio senza nome che avevo davanti non era più un uomo portato via da una mala muerte. Era tutte le genti della Patagonia australe sterminate dai bianchi con i fucili, l’alcool e, credo, anche con le missioni religiose e civilizzatrici.
E pensavo: povero Indio Desconocido, continua pure a fare miracoli e a concedere grazie a chi crede in te, ma fai attenzione a chi le concedi, che non siano i discendenti degli stranieri che cominciarono ad ucciderti più di trecento anni fa. Loro non hanno titoli per chiederti grazie e favori anche se ti hanno dedicato un monumento e le belle parole scritte ai tuoi piedi. Loro possono solo chiederti perdono.
Punta Arenas, Cile, gennaio 2010
[1] Indio Sconosciuto
[2] L’indio sconosciuto arrivò dalle nebbie del dubbio storico e geografico e giace qui sepolto nel patrio amore dei Cileni “eternamente”
[3] Gli Alacalufe sono un popolo del Sudamerica, ormai quasi scomparso, che sopravvive nei pressi dello stretto di Magellano
[4] Il guanaco è un camelide affine al lama diffuso in Sudamerica
[5] Gli Ona sono un popolo della Terra del Fuoco
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